Festival di Cannes 2005 - Pagina 4

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Festival di Cannes 2005
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Free Zone (Zona franca), d’Amos Gitai, riconferma la tendenza di questo regista ad affrontare i nodi della storia israeliana ricorrendo ad eventi simbolici, fatti quotidiani che diventano metafore di una realtà complessa e quasi inestricabile. Qui sono tre donne che s’incontrano per affari o in seguito ad una rottura sentimentale a rappresentare la litigiosità israleo – palestinese e l’impotenza – disinteresse degli altri, USA in testa, a voler arrestare una carneficina che dura da oltre cinquanta anni. Rebecca è un’americana che vive a Gerusalemme, rompe con il fidanzato e vuole abbandonare il paese. Hanna è un’israeliana che guida grossi taxi e deve andare in Giordania per recuperare 30.000 dollari, dovuti a lei e al marito, da un socio in affari. Leila è una palestinese che vive nella zona franca giordana e che dovrebbe, teoricamente, consegnare a Hanna i soldi che le vengono. Il film è in questo lungo viaggio, nelle chiacchiere che nascondono odi e incomprensioni, nella petulanza dell’americana a cercare ad ogni occasione risposte giuste e umanitarie. Il film termina in modo chiaramente simbolico, mentre l’israeliana e la palestinese ingaggiano un lunghissimo litigio, Rebecca fugge verso il confine, vanamente inseguita dai militari israeliani. La guerra continua e gli altri scappano via. Il film è girato, com’è nello stile di quest’autore, con lunghi primi piani il cui senso sarà chiaro solo alla fine. Ancora una volta un’opera che raffina e conferma una posizione estetica già nota: bella, ma poco originale.
Don’t Come Knocking (Non venire a bussare) di Wim Wenders si muove sulla linea degli altri autori importanti, visti in concorso. Lo fa nel senso che firma un’opera professionalmente dignitosa e abbastanza ben costruita, ma priva di qualsiasi nota d’autentica originalità e, per giunta, guastata dall’interpretazione del romanziere e co – soggettista Sam Shepard. La storia, troppo allungata, è quella di un attore sulla via del declino che fugge dal set dell’western in cui è impegnato, collocato a Moab, una sorta di copia della celeberrima Monument Valley. Si lascia tutto alle spalle e si rifugia nella casa di sua madre, che non vede da trent’anni. Qui scopre che, una ventina d’anni prima, una donna, con cui aveva avuto una relazione, lo aveva cercato per fargli sapere che stava per dare alla luce suo figlio. Partendo dalle poche tracce di cui dispone la rintraccia, ormai signora di mezza età, e scopre che di figli non ne ha uno, ma due. Mentre accade tutto questo, un agente della compagnia d’assicurazioni, che ha garantito il buon fine del film, gli dà la caccia, lo ritrova e lo riporta sul set. Tutto continua come se nulla fosse accaduto. L’asse dell’opera dovrebbe essere quello delle origini perdute, dei rapporti di parentela allentati, del mondo diventato una disumana macchina da soldi. Dovrebbe essere, ma il risultato stilistico è modesto, la storia arranca con troppe digressioni, l’interprete principale è troppo impegnato a riflettere sul proprio ombellico per curarsi di fare gioco di squadra per la riuscita del film.
Keuk Jang Jeon (Racconto di cinema) del sudcoreano Hong Sangsoo appartiene a quella categoria di film orientali che offrono allo spettatore tante chiavi di lettura da risultare misteriosi. La storia si divide, apparentemente, in due capitoli. Nel primo un giovane, con tendenze suicidatarie, incontra una ragazza e la convince ad uccidersi con lui. Al momento fatale lei si ribella e finisce in ospedale. Lui contribuisce a salvarla, poi torna a casa ove sua madre lo aggredisce verbalmente. L’ultima immagine, lo mostra sul cornicione di casa. Salterà o si ritirerà ancora una volta? Il secondo episodio ha al centro un regista velleitario e squattrinato che incontra un’attrice di successo ad una retrospettiva in cui è presentato il film che racconta il primo episodio. Le dice di amarla, si fa dare del denaro e la disgusta definitivamente (o forse no). L’intreccio dei piani narrativi è così stretto che lo stesso regista, nel presentare il film, suggerisce almeno tre possibili letture. Alla resa dei conti, oltre le immagini bellissime e l’intreccio millimetrico delle storie, emerge un senso di meccanicità e di lavoro puramente di testa, che gela l’intera proposta.