67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010 - ottavo giorno

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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Mercoledì 8 settembre – ottavo giorno

Venere nera
Venere Nera

 

All’inizio dell’ottocento l’entusiasmo che accompagnò l’esplosione delle scoperte scientifiche indusse alcuni studiosi a pensare che la superiorità delle razze caucasiche, a fronte di quelle di colore, potesse essere motivata da dati incontrovertibili, come misurazioni di parti del corpo, peso del cervello, conformazione degli organi sessuali. Una sorta di lombrosianesimo ante litteram che, purtroppo, aprirà la strada a non poche forme di razzismo. L’amaro destino di Saartjie Baartman (1789 - 1815) incrociò questa strada. Lei era una nera giunonica, d’origine sudafricana, esibita - prima a Londra, poi a Parigi - come fenomeno da baraccone. Il suo corpo imponente destò l’interesse di Georges Cuvier, anatomista dell’Accademia Reale di medicina a Parigi, che vi scorse la prova definitiva della sua teoria secondo cui i neri erano inferiori ai bianchi perché parenti stretti delle scimmie. La poveretta, dopo essere stata palpeggiata da migliaia di spettatori inglesi, attirati alle dimensioni imponenti del suo sedere, finì con un altro impresario che la portò nella capitale francese ove fu utilizzata come attrazione per i festini della nobiltà. Bastò un accenno di ribellione da parte della bestia per farla trasferire in una casa di tolleranza, prima, e costringerla a prostituirsi in strada, poi. Minata dalla tisi, si spense, sola e in miseria ad appena venticinque anni. Il suo corpo - sezionato, smembrato, usato per un calco - rimase esposto al Musée de l’Homme, a Parigi, sino al 1974. Solo nel 2002 i suoi resti furono ricomposti e inviati in Sud Africa per essere degnamente tumulati. Abdelllatif Kechiche, regista francese d’origine tunisina, ha portato sullo schermo il calvario di questa donna con un film, Venere nera (Venus noire), molto interessante in cui montaggio e qualità delle immagini sono al servizio di una storia toccante e ben raccontata. Efficace il modo in cui, senza indulgere a esposizioni troppo didascaliche, ricostruisce le follie pseudo scientifiche dell’epoca e le colloca nell’ambito del una società che coniuga evoluzione tecnica a decadenza. E’ un film forte e di grande effetto.

Attenberg
Attenberg

 

Scarso interesse ha suscitato, invece, Attenberg alla greca Athina Rachel Tsangari che porta sullo schermo la storia, confusa, di una ragazza ancora vergine il cui padre architetto sta morendo di cancro. Guidata da un’amica che la introduce all’arte di fare l’amore, iniziando baciandola a lungo, riesce finalmente a trovare un uomo con cui provare piacere nel toccare ed essere toccata. Nel frattempo il genitore, con cui ha un rapporto che sfiora l’incesto, quantomeno da punto di vista mentale, muore e da questa scomparsa la donna sembra trarre il via libera per approdare a una sensualità gioiosa e completa. Il film inanella lunghe sequenze con macchina da presa fissa o semifissa, è pieno di riflessioni psicologico - filosofiche, non lesina scene di sesso esplicito, ma non convince.

La città
La città

 

Molto più stuzzicante The Town (La città), presentato fuori concorso, che l’attore e regista Ben Affleck ha tratto dal romanzo The Town - Il principe dei ladri di Chuck Hogan. Ridotta in estrema sintesi, siamo davanti all’ennesima storia del delinquente, non assassino, che s’innamora della bella di turno e riesce a farla franca ritirandosi in un paese non meglio precisato, occasione per lasciare aperta la porta a un eventuale secondo episodio. E’ una nuova conferma della grande capacità del cinema americano nel coniugare spettacolo a costruzione di personaggi, il tutto immerso in storie non banali anche se già visitate molte altre volte. Qui tutto ruota attorno a Charlestown, un quartiere di Boston in cui vivono moltissimi rapinatori di banche e delinquenti d’ogni tipo. Qui abitano Dug MacCray e i suoi tre fedeli complici, banditi specializzati in rapine a banche e furgoni portavalori. L’imprevisto capita quando, nel corso di un colpo, sequestrano una dirigente di banca che vive nel loro stesso quartiere. La storia d’amore che nasce fra il bandito e la vittima manda all’aria i rapporti interni al gruppo, siano alla tragica sparatoria che chiude il film. E’ un’opera di altissima professionalità. Il film è girato magnificamente, con personaggi costruiti al millimetro e capaci di infondere aria nuova anche in snodi notevolmente prevedibili. Se a questo si aggiunge un’ambientazione di primordine e una narrazione d’altissimo livello si ha la misura di un testo importante, piacevole e accattivante.

Papà
Papà

 

La Settimana della Critica ha presentato un film sloveno, Oča (Papà) diretto da Vlado Skafar. E’ un’opera di settantuno minuti divisa in due parti. La prima radiografa un pomeriggio che padre e figlio passano assieme a pescare, parlate, ricordare. L‘uomo è divorziato e quello è il giorno in cui può stare con il ragazzo. Il film gioca su un’atmosfera molto poetica con il giovane che esprime speranze e sogni, mentre l’adulto assapora il piacere di un rapporto la cui mancanza gli pesa moltissimo. La seconda parte, piuttosto breve, contiene alcune interviste a lavoratori licenziati e queste riflessioni dovrebbero integrare le preoccupazioni dell’uomo, anch’egli in pericolo di perdere il lavoro. Il film ha una forte componente sentimentale e poetica che annulla quasi del tutto ogni possibilità di racconto, in senso tradizionale del termine. In altre parole è uno di quei testi che richiedono una precisa adesione sentimentale da parte dello spettatore, cosa che, in questo caso, capita con una certa difficoltà.