67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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67ma Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2010 - Giorno per giorno.

1 - 11 settembre 2010

Martedì 31 agosto 2010 – Prologo

La 67ma Mostra del cinema di Venezia si è aperta fra blande polemiche (la mancata partecipazione di Pupi Avati, la presenza di Ascanio Celestini, l’annuncio di film con argomenti sessuali caldi...), lo stop ai lavori in corso per la costruzione del nuovo palazzo del cinema, con conseguente voragine davanti al Casinò, le economie forzate causate dalla riduzione di 700 mila euro in un bilancio di dodici milioni complessivi. C’è stata anche qualche lamentela per la presenza di una quarantina, fra lungo e cortometraggi, di film italiani, un numero giudicato eccessivo per una rassegna internazionale. Il direttore Marco Müller ha motivato questa scelta con la necessità di dare fiducia al nostro cinema in un momento in cui attraversa una situazione di pesanti difficoltà economiche. Probabilmente questa ragione si è intrecciata ad altre due motivazioni: la mancanza o l’indisponibilità di molte opere di valore, un dato che quest’anno ha già pesantemente condizionalo le programmazioni di altre rassegne, Berlino e Cannes in prima linea, e la necessità di far quadrare le poste di bilancio in un momento in cui le disponibilità si sono ridotte significativamente. Tutto questo fa presagire una manifestazione in tono meno clamoroso, il che non vuol dire necessariamente un minor spessore culturale, e questo acuisce le attese per un cartellone non privo di proposte promettenti. Come si suol dire, vedremo a schermi accesi, se le promesse saranno mantenute.


Mercoledì 1 settembre – Primo giorno

Cigno nero

La 67ma Mostra del Cinema si è aperta con meno sfarzo di quelle passate, giusto omaggio alla crisi economica attraversata dal paese, anche se non ha mancato di mettere in cartellone un numero di film sovrabbondante e visto un moltiplicarsi d’inciampi organizzativi dovuti, molto probabilmente, alla contrazione dei costi per il personale e alla necessità di contenere le spese. L'apertura della sezione principale è stata affidata a un film americano che ha avuto qui la sua anteprima mondiale, prima di essere proiettato, fra qualche giorno, al Festival di Toronto, in Canada. Ci riferiamo a Black Swan (Cigno nero) diretto da Darren Aronofsky, un autore incline all’horror e il mistero, come hanno testimoniato altri suoi lavori: The Wrestler (2008) e The Fountain (2006). Al centro della storia c'è una ballerina classica chiamata a interpretare il ruolo della regina nel Lago dei cigni Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840 - 1893). Spinta da un coreografo dal comportamento autoritario e crudele, trasforma la preparazione dello spettacolo in una sorta di delirio che le spingerà a immaginare delitti, a ferirsi sino uccidersi, come l'eroina del balletto. Una morte che si fonde con gli osanna del pubblico. Ci sarebbe materia per riflettere sul difficile rapporto fra creazione e vita, oppure meditare sull'ossessione della perfezione in questa come in altre forme di arte, oppure a dissertare sule turbe di una mente ossessionata da un solo pensiero. Vaste ipotesi che naufragano contro la realtà di un film il cui autore si preoccupa solo di creare atmosfere cupe alla Roman Polanski prima maniera, per intendersi quello di Repulsion (1965), o a citare la competizione fra primedonne come avveniva, con ben maggior risultato, in Eva contro Eva (All About Eve, 1950) di Joseph L. Mankiewicz . In definitiva è una storia ben poco originale, piena di salti narrativi non sempre giustificati e davvero poco interessante.Machete

 

E' andata ancor peggio con Machete, di Robert Rodriguez ed Ethan Maniquiris, dove siamo al fumetto grandguignolesco. Al centro c’è un ex poliziotto messicano, il brutto e massiccio Danny Trejo sinora utilizzato prevalentemente nel ruolo di crudele assassino, che dopo essere stato quasi ammazzato da un feroce narcotrafficante, che gli ha ucciso moglie e figlia, si vendica mettendosi alla testa di un esercito d’immigrati negli Stati Uniti, più o meno legali, riuscendo a fare giustizia di un senatore texano, razzista e corrotto, cui da vita uno scialbo Robert De Niro. Si è parlato di fumetto, ma la definizione è anche troppo generosa per un'opera che fa rimpiangere persino il pasticciato Dal tramonto all'alba (From Dusk Till Dawn, 1996) firmato dallo stesso Robert Rodriguez. Il che alimenta il sospetto che l'esordio di questo regista - El Mariachi, suonatore di chitarra (El Mariachi, 1992) - sia stato solo un clamoroso colpo di fortuna. C’è, poi, da notare come questo tipo di cinema utilizzi la violenza a piene mani – qui c’è persino un braccio che continua a premere il grilletto una volta staccato dal corpo – si dice per demistificarla ampliandola sino all’inverosimile e irridendola. In realtà questo meccanismo finisce per proporla al pubblico come ingrediente del tutto innocuo, laddove si tratta di un elemento pericolosissimo e particolarmente accattivante. Si è obiettato che questo cinema ha salde radici nel racconto popolare, ma si trascura la ben maggiore suggestione raggiunta dalle immagini in movimento nel confronto con quelle statiche e cartacee.


 

Giovedì 2 settembre – Secondo giorno
La pecora nera

 

La Pecora nera è il primo film italiano comparso nel corso di questa 67ma Mostra. L’'ha diretto un esordiente, dietro la macchina da presa, ma un nome molto noto ai frequentatori dei teatri: Ascanio Celestini. Chi lo conosce sa che si tratta di un poeta che costruisce i suoi monologhi mescolando malinconia a dure sferzate critiche nei conforti della politica, del mondo moderno e dei suoi rituali. In poche parole è un cantore in cui possono riconoscersi gli emarginati e tutti quelli che il banchetto consumistico mette fuori dalla grande tavola imbandita. Sono queste stesse linee che si intravvedono al fondo di questa prima opera cinematografica in cui il poeta e regista racconta la vita di un infermiere di un manicomio il quale, alla fine, si rivelerà un ricoverato che crede di essere un paramedico. Il tutto intessuto di acute osservazioni sui rapporti con e fra i degenti, le difficili relazioni con le suore che gestiscono il ricovero, le note sull’amore impossibile per un ex-compagna d’infanzia, oggi commessa in un supermercato e amante del direttore dell’emporio, i sogni e i triboli di un altro ricoverato in una struttura più simile a un carcere che a un vero istituto di cura. Siamo nel 1978, anno della morte di papa Giovanni Paolo I, e nei manicomi si usano ancora elettrochoc, letti di contenzione e si riempiono i pazienti di tranquillanti e di botte. Il modo di raccontare del regista è tutt’altro che lineare, le immagini sono immerse in toni marci del tutto in sintonia con la linea essenziale del film. Tutto questo conferisce all’opera un notevole interesse che unisce proficuamente lo sguardo politico alla notazione psicologica.

 Norvegian Wood del francese, d'’origine vietnamita, Tran Anh Hung è opera del tutto diversa. Il regista ha portato sullo schermo un romanzo (Noruwei no mori) scritto da Haruki Murakami nel 1987. E’ a una storia d’amore dagli sviluppi alquanto complessi e, a tratti, tragici, che vedono coinvolti un giovane, l’ex - fidanzata del suo migliore amico, suicida per disperazione legata all’impossibilità di fare l’amore perché colpita da una malformazione sessuale, e un’altra ragazza con cui, nel finale, il protagonista aprirà una nuova fase sentimentale. Siamo negli anni a cavallo della fine del sesto decennio del secolo scorso e lo sfondo è segnato dalla contestazione giovanile e dai fermenti, anche sessuali, che divampano, in modo particolare, nelle giovani donne. Il regista lascia abbondantemente sullo sfondo questi temi, per concentrare l’attenzione sulle psicologie dei personaggi, su paesaggi stupendamente fotografati e sui triboli di una generazione che si affaccia alla vita con più dubbi di certezze. Ne deriva un ritmo narrativo volutamente lento e un film da contemplare più che amare. Come dire che siamo abbastanza lontani dagli esiti di alcune altre opere di questo cineasta come Mùi du xanh (Il profumo della papaya verde, 1993) e Xich lo(Cyclo, 1995).

Anche Miral del pittore e regista Giulian Schnabel racconta una storia d’amore, quella fra una ragazzina israelo - palestinese e un capo dell’OLP, ucciso dei suoi stessi compagni perché favorevole ai negoziati con i governanti d’Israele. In questo caso, tuttavia, l’occhio, più che sui personaggi, è puntato sulla storia dello stato mediorientale, dal 1948, anno del riconoscimento da parte dell’ONU, sino alla prima intifada. Il filo conduttore lo offre la vicenda di una scuola per ragazzi abbandonati palestinesi, La città del bambino, fondata da Hind Hussein e aperta ancor oggi a quattordici anni della sua morte. Il regista conferma la vocazione a usare, soprattutto nella prima parte, inquadrature sghembe, angolazioni inusuali, alternanza veloce delle immagini, stilemi che, qualche volta, sconcertano e arrivano a infastidire lo sguardo dello spettatore. Sono difetti che già si notavano in film come Basquiat (1996) e Lo scafandro e la farfalla (2007) che ha ottenuto il premio per la miglior regia al festival di Cannes dello stesso anno. In conclusione è un’opera suggestiva nelle immagini, pacifista negli intenti, a tratti commuovente, qualche volta irritante.

                                  Angéle e Tony
Angéle e Tony

 

Il programma della Settimana Internazionale della Sic (SIC) si è aperto con Angèle et Tony (Angèle e Tony), primo lungometraggio della francese Alix Delaporte, già affermata sceneggiatrice televisiva e autrice di alcuni cortometraggi uno dei quali, Comment on freine dans una descente? (Come si frena in discesa?) ha ottenuto il Leone d’oro per questo tipo di film alla Mostra del 2006. Angèle è una giovane donna in profonda crisi materiale ed esistenziale, è uscita da poco dalla prigione, dove ha scontato una condanna inflittale perché responsabile di un incidente in cui è morto suo marito. Ha un figlio che le è stato sottratto dalla legge e affidato ai nonni. Per tentare di recuperarne l’affidamento ha bisogno di trovare un lavoro e un uomo che la sposi e, poiché a questo punto della sua vita, riesce a comunicare quasi elusivamente attraverso il sesso, non esita a offrirsi ai maschi che potrebbero corrispondere al suo desiderio. Un giorno incontra Tony, un pescatore abituato alla dura vita del mare, il film è ambientato in una bassa Normandia stupendamente fotografata da Claire Mathon, che rifiuta le sue offerte sessuali, ma le propone di andare a vivere con lui. Inizia in questo modo un complesso menage, l’uomo vive con la madre che gestisce un banco di pesce e il fratello, alla fine del quale Angèle scoprirà nuovamente l’amore e Tony troverà lenimento alla solitudine. E’ un piccolo film dalla durata esatta, un’ottantina di minuti, in cui l’analisi e lo scandaglio delle psicologie fa premio sugli eventi. Una storia quasi banale ma ricca di notazioni e riferimenti sociali - le lotte dei pescatori contro le prescrizioni europee - che licenzia un racconto umanissimo e denso di osservazioni a tutto campo. Unico dato non del tutto positivo è la bellezza di Clotilde Hesme, troppo levigata e perfetta per plasmarsi perfettamente su un personaggio alla deriva.


Venerdì 3 settembre – terzo giorno

Somewhere
Somewhere

 

Il concorso della Mostra ha presentato il primo film interessante e degno di una grande rassegna. Stiamo parlando di Somewhre (Da qualche parte) della figlia d’arte Sofia Coppola. E’ il quadro della disperazione di un attore di successo che si sente una nullità nonostante giri in Ferrari e sia osannato dalle donne. Divorziato e padre di una figlia ora undicenne, vive nel leggendario Chateau Marmont, un albergo in cui hanno abitato nomi famosi del cinema e della letteratura e dove morì, nel 1981, John Belushi. Fra amori mercenari e incontri occasionali, Johnny Marco (Stephen Dorff) si trova a dover aver cura, per qualche giorno, della figlia. E’ il periodo in cui deve venire in Italia per la promozione del suo ultimo film per cui si trascina dietro la ragazzina, la cosa da luogo a una serie di sequenze fra l’esilarante e il tragico che culminano nella cerimonia dei Telegatti che la regista utilizza come esempio del cattivo gusto e della volgarità della nostra televisione. Ritornato a Los Angeles e lasciata la ragazzina che deve andare in campeggio, si trova solo, costretto a fare i conti con la sua vita. Se ne va dall’albergo e abbandona la Ferrari ai bordi di una di quelle strade americane che sembrano non avere mai fine e s’incammina verso la macchina da presa lasciando aperta ogni ipotesi sul suo futuro. La regista si muove magistralmente fra due mondi che le sono particolarmente congeniali: quello dell’infanzia che sta per traslocare nell’adolescenza e quello del successo che nasconde un profondo vuoto esistenziale. In altre parole siamo tra Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999) e Lost in Translation - L’amore tradotto (Lost in Translation, 2003). Il risultato è una radiografia funzionale e sinergica. Il quadro che ne emerge è quello di una doppia difficoltà psicologica, una proiettata a un futuro che ne marca il superamento, l’altra inserita in una strada che può essere senza sbocco. La regista, nel raccontare questi stati d’animo, si affida quasi unicamente alle immagini, prediligendo le lunghe sequenze senza dialoghi e le immagini precise che tracciano un luogo o un panorama senza bisogno di supporti d’altro tipo. In conclusione è un film robusto e decisamente interessante.

Happy Few
Happy Few

 

Clima ben diverso quello disegnato dal francese Antony Cordier in Happy Few (I pochi fortunati, espressione di origine stendhaliana) che racconta di due coppie aperte che si scambiano i partner. La storia procede verso un lieto fine fra il moralistico e il sentimentale, costellando il discorso di corpi nudi, prevalentemente femminili, scene di sesso al limite dell’hard e conversazioni filosofeggianti. E’ il classico film transalpino, molto curato nelle immagini, verboso nella narrazione e più presuntuoso che realmente consistente.

Il regno degli assassini
Il regno degli assassini

 

C’è ben poco da dire, poi, su Jianyu (Il regno degli assassini) diretto a quattro mani da Su Chao-pin e John Woo. In verità è più un film, in tono minore, del secondo che non del primo. Siamo nel 428 d.C. e la Cina è percorsa da bande e sette che si contendono potere e denaro. Uno scontro particolarmente violento vede protagonista una spadaccina provetta e una gang che tenta d’impossessarsi della seconda parte del corpo di un monaco perfezionatore delle arti marziali morto anni prima. La salma è rimasta quasi incontaminata, ma è stata divisa in due pezzi da trafugatori alla ricerca del potere miracoloso di cui il defunto aveva dato prova. La donna, che ha trovato una delle due metà ed è caduta preda di una crisi di coscienza dopo aver ucciso l’ennesimo sfidante, tenta di trasformarsi in tranquilla commerciante, ma la persecuzione della banda alla ricerca della parte della salma che lei custodisce, la costringe a rimettere mano a spade e pugnali. Fra scontri all’arma bianca, che si trasformano in coreografie danzanti, il film percorre la via classica di questo genere senza aggiungere nulla a ciò che già sappiamo.

Naomi
Naomi

 

Ilan Ben-Natan, sessantenne insegnante d’astrofisica all’Università di Haifa, ha sposato la bella ventottenne Naomi, illustratrice di libri. Un giorno, quasi casualmente, scopre che lei lo tradisce con un barbuto cineasta e maldestro pittore. Affronta l’amante della moglie e, quasi per caso, lo uccide. Con l’aiuto della madre, un’anziana signora simbolo della classica jewisch mama, ne seppellisce il cadavere in una tomba appena tumulata, sperando che l’omicidio non sia scoperto. Le cose sembrano andare secondo i suoi piani – lui è disposto persino ad accollarsi il figlio che la moglie porta in grembo e che, con buona probabilità, non è originato dal suo seme – ma l’intervento di un suo amico, ispettore di polizia, porta alla luce il delitto. Un colpo di scena rovescia nuovamente le cose e guida il film verso un lieto fine (per l’assassino). Hitparzut X (titolo internazionale: Naomi), è entrato nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica ed è il primo lungometraggio dell’israeliano Eitan Zur, un abile regista televisivo qui all’esordio sul grande schermo. Il film è tratto da un racconto di Edna Mazaya, nel film in veste di sceneggiatrice. E’ un’opera dal taglio classico, solida nella struttura, ma poco originale nell’esposizione. Sfruttano una tipica atmosfera da film noir e non lesinando sui colpi di scena, il regista racconta il lato oscuro di un borghese (apparentemente) pacifico, anche se ha alle spalle un addestramento militare che gli consente di uccidere con l’ausilio degli oggetti più comuni, nel caso specifico una pipa. Due gli elementi di pregio del film: un raffinato gusto fotografico, anche se non privo di qualche caduta in immagini da cartolina, e l’ottima interpretazione sia del professore assassino (Yossi Pollak) e, soprattutto, dell’anziana madre (Orna Porat) il cui passato nasconde un segreto ancor più efferato del delitto commesso dal figlio.


Anima silente
Anima silente

Sabato 4 settembre – quarto giorno

Chi ha detto che un film, per essere di buon livello, deve forzatamente avere ingenti mezzi produttivi? Una sonora smentita è venuta da Ovsyanki, letteralmente Gli zigoli (uccelli della famiglia degli emberizidae) da noi ribattezzato Silent Soul (Anima silente), del russo Aleksei Fedorchenko. E' un testo di soli settantacinque minuti, tratto da un racconto di Aist Sergeyev, in cui si narrano i riti funerari di una piccola comunità, i merja, di etnia ugro-finnica che vive al centro della Russia conservando, per quanto possibile, tradizioni millenarie. Una di queste riguarda, appunto, le cerimonie mortuarie che non prevedono l’inumazione della salma, ma la sua cremazione, preceduta e seguita da un preciso rituale. Il rogo avviene su una pira eretta su un isolotto sabbioso nel bel mezzo di un fiume. E’ quanto faranno Miron e Arist - il primo direttore di una cartiera, il secondo fotografo ufficiale della stessa - che alla morte dell’amatissima moglie del dirigente, intraprendono un lungo viaggio per erigere la pira mortuaria. Il film racconta questo tragitto, con poche parole, la maggior parte delle quali dedicate a ricordare le tradizioni di quel popolo. E’ loro compagna di viaggio una copia di zigoli, una specie di passeri di colori giallo e verde molto comuni in Russia. Saranno proprio questi piccoli volatili a determinare il colpo di scena che chiude il film. E’ un’opera segnata da una forte vena poetica che, oltre a tracciare precise linee psicologiche e sentimentali, non tralascia di mettere a confronto il presente con il passato, la tradizione con una modernità fatta di consumismo impersonale quanto accattivante. E’ un film molto bello, percorso da una tensione fortissima, alimentata da fatti e gesti del tutto quotidiani, costruito con sapienza narrativa e sorretto da una splendida fotografia in cui la pioggia e i toni autunnali si sposano al quadro psicologico che segna i personaggi..

La passione
La passione

 

Bilancio è positivo, anche se meno netto di quello del film russo, anche quello della La passione di Carlo Mazzacurati. E’ la storia di un regista che, in passato, ha conosciuto momenti di successo, ma che è stato fermo ben cinque anni senza idee e senza la possibilità di realizzare un nuovo film. Un incidente, capitato in una sua casa in Toscana (si sono rotti i tubi per l’acqua che hanno rovinato un affresco cinquecentesco disegnato su un muro di un locale contiguo) lo costringe a fronteggiare il bonario ricatto della sindachessa del borgo: accetti di dirigere la Sacra Rappresentazione che si svolgerà da lì a quattro giorni, oppure sarà denunciato alla Sovraintendenza per il Patrimonio Artistico. Preso fra due fuochi, vessato da un produttore cinico e superficiale che lo spinge a fare un nuovo film con una divetta della televisione, una star popolare quanto incolta, il nostro finirà per lasciarsi coinvolgere nella rivisitazione della Passione, rimanendone coinvolto al punto di, forse, dare una svolta alla sua vita. Questo cineasta ha sempre mostrato cristiana attenzione per emarginati e chi vive fra mille difficoltà. Questa volta il suo disegno si fa ancor più preciso con l’assunzione della Sacra Rappresentazione quale occasione per un ravvedimento dell’anima e dell’intera esistenza. Il film è costruito molto bene, anche se con qualche approssimazione narrativa e calibra in modo esatto ironia a malinconia collocandosi, se non a livello delle grandi opere, a quello di un testo professionalmente maturo e, a tratti, originale.

Potiche è un termine francese che individua un oggetto di poco valore che si mette su un mobile con funzioni decorative. In italiano è stato spesso tradotto La bella statuina, anche perché, in senso traslato, si utilizza per individuare, in modo non positivo, una donna che vive all’ombra del marito. Il film che François Ozon ha tratto dall’omonimo testo teatrale di Jean-Pierre Grédy (1920) e Pierre Barillet (1923), rappresentato con successo nel 1980, modifica il finale del copione inserendovi la sconfitta, in famiglia della protagonista e il suo successo in politica. Il nocciolo del testo è nella rivendicazione del ruolo sociale e umano delle donne in una società maschilista. La regia colloca la storia nel 1977, in una cittadina di provincia ove una fabbrica di ombrelli ha un ruolo fondamentale per l’economia della zona. L’azienda è diretta dal classico padrone delle ferriere che considera gli operai semplici bestie da soma. Un infarto lo costringe a consegnare le redini del potere alla moglie, figlia del fondatore dell’azienda, che rivoluziona i rapporti con il personale, coinvolge i figli nella direzione, ammoderna la produzione. Quando il padrone ritorna dalla convalescenza, lo scontro con la consorte diventa inevitabile, da qui divorzio e un’altra strada per la donna che, in gioventù non è stata poi così irreprensibile come molti credono. E’ un testo brillante che, con lo scorrere degli anni ha perso non poca attualità e cui il regista, ricreando l’atmosfera - le canzoni inserite nella colonna sonora vi hanno un ruolo importante - fine anni settanta, assegna più un ruolo filologico - museale che non quello di un’opera valida ancor oggi. Film d’attori per eccellenza trova in Catherine Deneuve e, soprattutto, in Fabrice Lucchini due puntelli robusti e indispensabili. Trascurabile l’apporto di Gerard Depardieu, qui ancor più istrionico del solito.
Hai paura del buio
Hai paura del buio

 

Alla Settimana della Critica è stato presentato l’unico titolo italiano in competizione: Hai paura del buio dell’esordiente Massimo Coppola. E’ una storia, ambientata nella provincia campana, che mette in parallelo le vicende di due giovani donne: Eva, giunta dalla Romania ove ha liquidato ogni avere per ritrovare la madre che l’ha lasciata anni prima per venire in Itala a guadagnare soldi da mandare a casa, anche a costo di prostituirsi, e Anna che lavora alla FIAT di Melfi e cova una rabbia feroce verso la propria condizione di operaia. Le due donne s’incontrano casualmente e le loro vite s’intrecciano brevemente per poi riprendere, ciascuna, la propria strada. Il film affronta temi forti, come la devastazione indotta nelle campagne e nella provincia dai grandi insediamenti industriali o le dure condizioni di vita delle immigrate rumene. Tutto questo è esposto con onestà, ma affrontato in modo troppo superficiale perché dia al film uno spessore autenticamente creativo.


Domenica 5 settembre – quinto giorno

Post Mortem
Post Mortem

 

Pablo Larraín è un regista cileno che ha già diretto due film pregevoli: Fuga (2005) e Tony Manero (2008), il secondo dei quali ha ottenuto moltissimi riconoscimenti nei numerosi festival in cui è stato presentato. La Mostra ha accolto la sua terza fatica: Post mortem. Il film conferma le linee tematiche e stilistiche che guidano quest’autore. Le prime focalizzano i comportamenti e i guasti psicologici che marcano la mente della gente comune davanti alle aggressioni, morali e fisiche, della dittatura. Nel caso di Tony Manero a essere messo in discussione era l’imperialismo culturale nordamericano che schiaccia l’America Latina e non solo. La storia del poveraccio che arriva all’omicidio nel delirio di imitare John Travolta in una miserabile trasmissione televisiva, mette in luce, in tutto il suo orrore, gli stravolgimenti, mentali e fisici, indotti in persone apparentemente normali, in realtà schiave della cultura dominante. In questo nuovo film lo scenario è quello dei giorni del colpo di stato organizzato l’11 settembre 1973 dai militari felloni guidati dal generale Augusto Pinochet. I golpisti deposero e uccisero Salvador Allende, presidente regolarmente eletto e simbolo dell’alleanza di sinistra (Unidad Popular). Il tutto è visto attraverso gli occhi di uno stenografo forense, addetto alla trascrizione dei referti delle autopsie in un grande ospedale di Santiago del Cile. Il quieto tram tram, se così si può dire, del suo lavoro è sconvolto da due eventi: l’innamoramento per una matura stella del varietà e il golpe. Il primo lo mette in contatto con una donna disillusa, spregiudicata, pronta a usare il sesso come merce di scambio. Il secondo lo inorgoglisce con la nomina a membro dell’esercito, lo turba per l’enorme quantità di cadaveri che piombano nell’obitorio e per le crescenti violenze di cui è testimone. Un corto circuito che innesca un vero e proprio delitto destinato a rimanere impunito: quando scopre che la donna è l’amante di un militante ricercato dai militari mura entrambi nell’angusto scantinato in cui hanno trovato rifugio, condannandoli a morire di fame. Sul piano stilistico il film conferma la strada prediletta di quest’autore, con sequenze segnate da un respiro lento, un ritmo quasi simile a quello del tempo reale e da ampi brani privi di dialogo. Sono scelte che funzionano quando davanti alla macchina da presa ci sono attori di grande capacità, in questo caso Antonia Zegers e Alfredo Castro, già protagonista di Tony Manero, che in questo caso sono più che all’altezza della bisogna.

Il sentiero di Meek
Il sentiero di Meek

 

Meek’s Cotoff dell’americana Kelly Reichardt è la classica opera da festival, nel senso che è una produzione ad altissima componente culturale e sperimentale, ma assai poco appetibile a quello che siamo soliti chiamare il mercato delle immagini. Siamo nell’Oregon, nel 1845, gli Stati Uniti, così come li conosciamo oggi, sono ancora poco più dell’embrione delle tredici colonie britanniche che hanno dichiarato la propria indipendenza il 4 luglio 1776. Buona parte del territorio è ancora controllata da britannici, francesi e messicani, mentre intere regioni sono territorio di caccia per i nativi pellerossa. In questo scenario s’inscrive la carovana di tre famiglie di coloni che, sotto la guida dello scout Stephen Meek, tentano di raggiungere le terre fertili dell’ovest. Ben presto si perdono, seguendo una scorciatoia consigliata dalla guida, e finiscono nelle zone desertiche degli altipiani. Quasi privi di cibo e acqua vanno avanti fra sospetti verso chi li conduce e tentazioni di tornare indietro. Decisivo sarà l’incontro con un indiano, dapprima visto dome nemico, poi assunto a vera, unica guida. E’ un percorso verso l’integrazione razziale, la caduta delle diffidenze preconcette che la regista descrive con toni quasi documentaristici, some se fra quei pionieri vi fosse stata veramente una macchina da presa che ne registrasse la vita di tutti i giorni. E’ un film che rovescia gli stereotipi, scenografici e di abbigliamento, di cui Hollywood ha ammantato la grande epopea western, restituendo allo spettatore la fatica, la miseria, il sudore e il sangue di cui si è nutrita. E’ un’opera forte e a suo modo magistrale, che commuove e affascina nonostante la voluta lentezza della narrazione e le misere condizioni di vita che rappresenta.

Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante
Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante

 

C’è ben poco da dire, invece, su Di Renjie zhi Tongtian diguo (Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante), film dal bilancio imponente e dagli effetti speciali magici, diretto dal vietnamita, naturalizzato hongkonghese, Tsui Hark di cui abbiamo conosciuto, in passato, opere ben più intriganti come Shang Hai zhi yen (I blues di Shanghai, 1984) e Wong Fei Hung (C’era una volta in Cina, 1991). Qui siamo alla solita passerella di scene da arti marziali che, con il flebile pretesto di un’inchiesta condotta per conto di una reggente che sta per essere nominata imperatrice, l’epoca è il 690 d.C., inanellano duelli all’arma bianca, immagini di folle sterminate e città magiche, il tutto condito da scontri coreografati come balletti. C’è ben poca materia d’interesse e molta meraviglia tecnologica.

Oltre
Olltre

 

La Settimana della Critica ha confermato la buona qualità della selezione con un film svedese, Svinalängorna (Oltre), esordio nel lungometraggio dell'attrice Pernilla August. La storia è un classico della cultura e del cinema nordici: la rabbia e i sensi di colpa in cui si dibattono i figli di genitori violenti e alcolizzati. Qui è il caso di Lena, una Noomi Rapace ben lontana dai manierismi della trilogia Millennium, a cui annunciano le gravissime condizioni della madre. E' l'occasione per un percorso indietro nel tempo con ricordi d'infanzia punteggiati di botte, appartamenti sfasciati, vomito ed escrementi seminati per casa da un padre, d'origine finlandese, in perenne stato alcolico. Non manca la morte per overdose del fratellino e il progressivo degrado della genitrice, anch'essa indulgente con la bottiglia. E' un film robusto, ben costruito, a tratti commuovente che conferma le profonde distanze fra la cultura protestante e quella mediterranea. Loro hanno solo lo psichiatra, i cattolici hanno anche e principalmente la confessione, una differenza di non poco conto.


Lunedì 6 settembre – Sesto giorno

Omicidi essenziali
Omicidi essenziali

 

Jerzy Skolimowski è un regista polacco che ha firmato oltre venti titoli che spaziano, con risultati alterni, dal ritratto psicologico (Le départ - Il vergine, 1967) ai temi sociali (Moonlighting, 1982). Alla Mostra ha presentato la sua ultima fatica che sta in mezzo fra questi due poli. Essential Killing (Omicidi essenziali) narra di un combattente talebano catturato dagli americani in Afghanistan e trasferito in un non meglio precisato paese europeo (il film è stato girato fra Russia e Norvegia). Dopo essere stato torturato, riesce a fuggire sfruttando un incidente d’auto occorso al mezzo che lo trasporta. Ora è solo, mal equipaggiato e affamato in un deserto bianco e dovrà uccidere per sopravvivere e, nel finale, morire dissanguato. Il film tende a costruire una metafora sull’impossibilità di evadere dall’orrore della guerra, una volta caduti nella sua rete. Un discorso ricco d’interesse che il regista non fa crescere sino a trasformarlo in vero apologo morale. La stessa bellezza della fotografia e il ritmo serrato del racconto finiscono per spostare il discorso più sul versante dell’avventura che non su quello della parabola. Il risultato è un film magnifico nelle immagini, perfetto nella suspense, ma quasi raggelato nel discorso. Scavando nella memoria ritroviamo un testo, Diamanti noci (Diamanti della notte, 1964) del ceco Jan Nemec sorretto da una storia e un obiettivo molto simili, anche se là erano due giovani ebrei a sfuggire ai cacciatori nazisti, ma capace di coniugare il pathos con un lucido discorso morale e politico, cosa che in questo caso manca.

Valanzasca - Gli angeli del male
Valanzasca - Gli angeli del male

 

Fuori concorso è stato presentato Vallanzasca - Gli angeli del male, ultima fatica, come regista, di Michele Placido, che prosegue il discorso sulla malavita avviato con Romanzo criminale, il grande sogno (2005). Renato Vallanzasca (1950) è stato, negli anni settanta, un mito per la malavita e, in parte, per l’'opinione pubblica. Tutto questo per l'aurea che aveva avvolto il personaggio causa le sue gesta criminali, le fughe dal carcere, gli amori, fra cui quello clamoroso di Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore milanese, sequestrata e rilasciata dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. Il film è costruito molto bene, con particolare attenzione alla vita nel carcere e ai rapporti con gli altri membri della banda. Ne emerge il quadro di una delinquenza lontana anni luce da quella attuale, come costatò lo stesso bandito nel corso di una famosa intervista a Radio Popolare, unito al quadro psicologico di un personaggio che sceglie volutamente la strada della delinquenza (in più di un’'occasione ripete: sono nato per essere un ladro). E'’ un approccio che mette in secondo piano gli aspetti socialmente più rilevanti - sono gli anni in cui la contestazione giovanile sta progressivamente scivolando sulla china del terrorismo brigatista - ma recupera l'’interezza umana di un uomo che, nel finale, quasi si arrende ai carabinieri più per consapevolezza che il suo ruolo é ormai fuori dai tempi, che non per ragioni legate allo sviluppo avventuroso della storia. In definitiva un film di buon livello, degno del miglior cinema di genere e non solo di quello nazionale. Da notare, infine, la straordinaria interpretazione di Kim Rossi Stuart nel ruolo del bel Renè.

Terra madre
Terra madre

 

La Settimana della Critica ha presentato Hora proelefsi (Terra madre), l’opera prima del greco Syllas Tzoumerkas, già autore di regie televisive e di alcuni cortometraggi uno dei quali, Ta matia pou trone (Gli occhi voraci, 1999), ha vinto, nel 2000, il premio della giuria per i corti del Festival di Karlovy Vary. Un corto che ha lo stesso incipit, un ragazzo che recita il pater noster in pubblico, di questo suo primo film. Il film visto oggi è un’opera aggrovigliata in cui si mescolano, sia orizzontalmente sia verticalmente, diversi piani narrativi. Schematizzando alquanto potremmo dire che si tratta della radiografia, ambientata a Salonicco e Atene, del giorno in cui ricorre il compleanno di Stegios, un ventisettenne turbato da ricordi familiari in cui si sforano incesti e s’incrociano sentimenti forti e contrastanti. In occasione si quest’evento alcuni parenti dovrebbero confluire nella casa in cui abita e ove ha un rapporto assai conflittuale con la famiglia, ma nessuno di loro riesce ad arrivare in tempo, intralciati dalle manifestazioni di piazza che percorrono Atene, protestando per le misure economiche adottate dal governo di George A. Papandreou, o ostacolati da vari fattori. Sul piano storico le immagini degli scontri di oggi s’intrecciano con quelle dei cortei e dei comizi gioiosi che salutarono il ritorno della democrazia, dopo la terribile parentesi della dittatura militare (1967 - 1974). Il film ha una struttura ambiziosa che non sempre abbonda in chiarezza narrativa e che, in particolare nella parte finale, trascura il proficuo terreno del confronto storico – la vita di una famiglia come paradigma della storia del paese – per sbilanciarsi sul versante di una tragedia domestica non priva di snodi oscuri e sostanzialmente poco interessante.


Martedì 7 settembre – Settimo giorno

Noi credevamo
Noi credevamo

 

Noi credevamo di Mario Martone è il quarto e ultimo titolo della pattuglia italiana presente nella maggiore sezione competitiva della Mostra. Diciamo subito che è un'’opera con almeno un paio di pregi. Il primo segnala come, affrontando il tema del Risorgimento attraverso i percorsi di vita di tre amici pugliesi, dagli anni trenta ai settanta del milleottocento, usi un’ottica che, utilizza un punto di vista che si può definire gramsciano. Vero è che tende anche a costruire una metafora del dramma e della condanna al fallimento per qualsiasi forma di terrorismo. In questo senso il film muove da un’intelaiatura già nota: l’unificazione dell’Italia letta come rivoluzione mancata causa il connubio fra borghesia piemontese e aristocrazia meridionale. E’ un punto di vista già usato da Luchino Visconti ne Il Gattopardo (1963). A quest’approccio se ne affianca un altro che guarda apertamente al dramma delle Brigate Rosse e a quello di tutti gli altri movimenti, velleitari e armati, nati sulla scia delle delusioni sessantottesche. In questo i destini di Domenico, Salvatore e Angelo metaforizzano parte della storia italiana del secolo successivo, sino ai giorni nostri, passando dall’omicidio politicamente fratricida alla morte per ghigliottina, dopo il fallimento di un attentato alla vita di Napoleone III, sino alla constatazione che i tempi sono ormai cambiati e coloro che ieri predicavano rivolte e bombe oggi siedono in Parlamento. Sono queste le parti di maggiore interesse cui va aggiunto, è il secondo pregio, l’avere utilizzato il meglio del teatro italiano: Valerio Binasco, Renato Carpentieri, Roberto di Francesco, Toni Servillo, Alfonso Santagata, Jurij Ferrini, Anna Bonaiuto, Vincenzo Pirrotta. A questo punto subentra l’elenco dei momenti non riusciti, quelli che impediscono all’opera di collocarsi a livello di grande cinema. Intanto ci sono alcune stranezze scenografiche come i pali in cemento armato a metà dell’ottocento e tubi al neo in vista sullo sfondo, anche se il regista ha dichiarato che si tratta di scelte volute per collocare quei fatti nella continuità sino ai giorni nostri. Tuttavia la cosa che più disturba è il tono complessivamente televisivo dell’opera, come la lunghezza di otre tre ore. Per non parlare di alcune scansioni interne al racconto che ne rivelano la predisposizione a essere diviso in varie puntate a uso del teleschermo, circostanza confermata dallo scarso respiro di molti esterni. Inoltre, ci sono la frammentazione del racconto e un certo moralismo nel presentare problemi politici di grande complessità alla luce di una sola chiave di lettura: il tradimento dei rivoluzionari di ieri, diventati oggi cani da guardia del potere. In definitiva è un film (un telefilm?) di grande professionalità, tendenzialmente dissacrante in realtà monco.

Il fosso
Il fosso

 

A sorpresa il calendario del concorso si è arricchito di un nuovo titolo: La Fossè (Il fosso), una produzione francese diretta dal cinese Wang Bing. E’ la ricostruzione del calvario che dovettero percorrere, alla fine degli anni cinquanta, molti contadini e numerosi intellettuali accusati di essere dissidenti di destra e condannati a essere rieducati nel campi di lavoro aperti nel deserto del Gobi. Siamo negli anni in cui il fallimento della politica dei cento fiori e la carestia in cui morì di fame una decina di milioni di contadini, innescano un feroce scontro di potere all’interno del Partito Comunista e mettono in discussione la leadership dello stesso Mao Zedong (1893 – 1976). Questi, novello esorcista stregone, si rivolse direttamente alla base incitando studenti e militanti alla caccia ai borghesi. Si aprì così un’immane tragedia che macinò milioni d’intellettuali, professionisti, studiosi privando il paese della migliore classe media. Espulsi dalla università, rimossi dalla dirigenza di fabbriche e ospedali, cacciati dai centri di ricerca che, del resto, erano sistematicamente chiusi perché covi di borghesi. Milioni di professori, insegnati, dirigenti, contadini che possedevano una vacca o coltivavano un orto per la famiglia, finirono a scavare a braccia enormi fossati destinati a rendere fertili le sabbie del deserto. Sporchi, affamati, mal vestiti morirono a migliaia e a migliaia sono malamente sepolti in cimiteri improvvisati. Il film racconta queste sofferenze e lo fa con sguardo fermo, quasi documentaristico, senza indulgere a fatti straordinari alla vita quotidiana, se si esclude la venuta della vedova di uno dei prigionieri che cerca ostentatamente la tomba del coniuge. E’ un film politicamente importante, anche se non altrettanto robusto sul versante della narrazione cinematografica.

Ballata triste per tromba
Ballata triste per tromba

 

Si è visto anche Balada triste de trompeta (Ballata triste per tromba) dello spagnolo Alex De La Iglesia, storia di una bella acrobata contesa fra due clown. Lo sfondo è quello della Spagna fra la guerra civile (1936 -39) e l’attentato che costò la vita al primo ministro Luis Carrero Blanco (1904 –1973), attentato che è stato utilizzato anche da Gillo Pontecorvo (1919 –2006) per il film Ogro (1980). Il regista dichiara di aver fatto questo film per esorcizzare il dolore che attanagliava la sua anima. Non ne dubitiamo, come non abbiamo problemi a confessare la nostra incapacità a esprimere un giudizio motivato su una simile accozzaglia d’immagini grottesche, ambigue e sanguinolente.

Marta
Marta

 

Martha, da trent’anni impiegata di una società d’assicurazioni, vive in una povera periferia di Città del Messico. I suoi unici punti fermi sono il lavoro d’archivista e un’anziana vicina, molto ammalata, che lei cura con l’amorevolezza di una figlia. Di colpo il suo piccolo mondo è sconvolto: l’azienda per cui lavora la sostituisce con un computer e la licenzia, l’amica dolente decide di andare a vivere con la figlia, lontano dalla città. Due eventi che la spingono a tentare il suicidio. Quando sembra che non vi sia più nulla da fare, un accidente casuale - le pillole che ingoia per morire si rivelano innocue – la riconsegna alla vita e, forse, alla speranza di una nuova esistenza. Il messicano Marcelino Islas Hernández esordisce nel lungometraggio - meglio, nel medio metraggio allungato, poiché il film, presentato nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica, dura meno di settantacinque minuti - con questo Martha, forte e dolente radiografia della vecchiaia e della solitudine. E’ questa la parte certamente più riuscita e commuovente di un film guastato, in parte, da un lieto fine abbastanza in contrasto con un’opera segnata dai colori bui, dal pessimismo e nobilitato da una straordinaria, dolente interpretazione di Magda Vizcaino. Un’opera che convince e commuove, sino al momento, gli ultimi dieci minuti, in cui un lucido pessimismo lascia il passo a una soluzione positiva stilisticamente incongrua.


Mercoledì 8 settembre – ottavo giorno

Venere nera
Venere Nera

 

All’inizio dell’ottocento l’entusiasmo che accompagnò l’esplosione delle scoperte scientifiche indusse alcuni studiosi a pensare che la superiorità delle razze caucasiche, a fronte di quelle di colore, potesse essere motivata da dati incontrovertibili, come misurazioni di parti del corpo, peso del cervello, conformazione degli organi sessuali. Una sorta di lombrosianesimo ante litteram che, purtroppo, aprirà la strada a non poche forme di razzismo. L’amaro destino di Saartjie Baartman (1789 - 1815) incrociò questa strada. Lei era una nera giunonica, d’origine sudafricana, esibita - prima a Londra, poi a Parigi - come fenomeno da baraccone. Il suo corpo imponente destò l’interesse di Georges Cuvier, anatomista dell’Accademia Reale di medicina a Parigi, che vi scorse la prova definitiva della sua teoria secondo cui i neri erano inferiori ai bianchi perché parenti stretti delle scimmie. La poveretta, dopo essere stata palpeggiata da migliaia di spettatori inglesi, attirati alle dimensioni imponenti del suo sedere, finì con un altro impresario che la portò nella capitale francese ove fu utilizzata come attrazione per i festini della nobiltà. Bastò un accenno di ribellione da parte della bestia per farla trasferire in una casa di tolleranza, prima, e costringerla a prostituirsi in strada, poi. Minata dalla tisi, si spense, sola e in miseria ad appena venticinque anni. Il suo corpo - sezionato, smembrato, usato per un calco - rimase esposto al Musée de l’Homme, a Parigi, sino al 1974. Solo nel 2002 i suoi resti furono ricomposti e inviati in Sud Africa per essere degnamente tumulati. Abdelllatif Kechiche, regista francese d’origine tunisina, ha portato sullo schermo il calvario di questa donna con un film, Venere nera (Venus noire), molto interessante in cui montaggio e qualità delle immagini sono al servizio di una storia toccante e ben raccontata. Efficace il modo in cui, senza indulgere a esposizioni troppo didascaliche, ricostruisce le follie pseudo scientifiche dell’epoca e le colloca nell’ambito del una società che coniuga evoluzione tecnica a decadenza. E’ un film forte e di grande effetto.

Attenberg
Attenberg

 

Scarso interesse ha suscitato, invece, Attenberg alla greca Athina Rachel Tsangari che porta sullo schermo la storia, confusa, di una ragazza ancora vergine il cui padre architetto sta morendo di cancro. Guidata da un’amica che la introduce all’arte di fare l’amore, iniziando baciandola a lungo, riesce finalmente a trovare un uomo con cui provare piacere nel toccare ed essere toccata. Nel frattempo il genitore, con cui ha un rapporto che sfiora l’incesto, quantomeno da punto di vista mentale, muore e da questa scomparsa la donna sembra trarre il via libera per approdare a una sensualità gioiosa e completa. Il film inanella lunghe sequenze con macchina da presa fissa o semifissa, è pieno di riflessioni psicologico - filosofiche, non lesina scene di sesso esplicito, ma non convince.

La città
La città

 

Molto più stuzzicante The Town (La città), presentato fuori concorso, che l’attore e regista Ben Affleck ha tratto dal romanzo The Town - Il principe dei ladri di Chuck Hogan. Ridotta in estrema sintesi, siamo davanti all’ennesima storia del delinquente, non assassino, che s’innamora della bella di turno e riesce a farla franca ritirandosi in un paese non meglio precisato, occasione per lasciare aperta la porta a un eventuale secondo episodio. E’ una nuova conferma della grande capacità del cinema americano nel coniugare spettacolo a costruzione di personaggi, il tutto immerso in storie non banali anche se già visitate molte altre volte. Qui tutto ruota attorno a Charlestown, un quartiere di Boston in cui vivono moltissimi rapinatori di banche e delinquenti d’ogni tipo. Qui abitano Dug MacCray e i suoi tre fedeli complici, banditi specializzati in rapine a banche e furgoni portavalori. L’imprevisto capita quando, nel corso di un colpo, sequestrano una dirigente di banca che vive nel loro stesso quartiere. La storia d’amore che nasce fra il bandito e la vittima manda all’aria i rapporti interni al gruppo, siano alla tragica sparatoria che chiude il film. E’ un’opera di altissima professionalità. Il film è girato magnificamente, con personaggi costruiti al millimetro e capaci di infondere aria nuova anche in snodi notevolmente prevedibili. Se a questo si aggiunge un’ambientazione di primordine e una narrazione d’altissimo livello si ha la misura di un testo importante, piacevole e accattivante.

Papà
Papà

 

La Settimana della Critica ha presentato un film sloveno, Oča (Papà) diretto da Vlado Skafar. E’ un’opera di settantuno minuti divisa in due parti. La prima radiografa un pomeriggio che padre e figlio passano assieme a pescare, parlate, ricordare. L‘uomo è divorziato e quello è il giorno in cui può stare con il ragazzo. Il film gioca su un’atmosfera molto poetica con il giovane che esprime speranze e sogni, mentre l’adulto assapora il piacere di un rapporto la cui mancanza gli pesa moltissimo. La seconda parte, piuttosto breve, contiene alcune interviste a lavoratori licenziati e queste riflessioni dovrebbero integrare le preoccupazioni dell’uomo, anch’egli in pericolo di perdere il lavoro. Il film ha una forte componente sentimentale e poetica che annulla quasi del tutto ogni possibilità di racconto, in senso tradizionale del termine. In altre parole è uno di quei testi che richiedono una precisa adesione sentimentale da parte dello spettatore, cosa che, in questo caso, capita con una certa difficoltà.


Giovedì 9 settembre – nono giorno

La solitudine dei numeri primi
La solitudine dei numeri primi

 

Saverio Costanzo ha tratto La solitudine dei numeri primi dal romanzo d'esordio di Paolo Giordano (1998), edito nel 2008, pluripremiato e di grande successo commerciale. Diciamo subito che il film si presenta come un testo professionalmente alto, ma non del tutto convincente. Come sanno i lettori del libro si tratta di due storie che procedono in qualche misura parallele e che, a un certo punto, s’incrociano. Un percorso che coinvolge Alice e Mattia, entrambi segnati dalle gravi tragedie che hanno marcato profondamente la loro infanzia. Alice zoppicherà per tutta la vita a seguito di una caduta sugli sci causata, anche, dall’irresponsabilità paterna. Mattia non riesce a superare il trauma causatogli dalla morte della sorella, ritardata mentale, che lui ha abbandonato in un parco per andare a una festa di compleanno quando era un bambino. Entrambi sono, in buona misura, dei disadattati. Vivono da soli e sono profondamente infelici nonostante vite professionalmente appaganti: lei è una fotografa di buon livello, lui ha ottenuto importanti riconoscimenti lavorando in un centro tedesco di ricerca matematica. Il film copre un ampio periodo temporale che va dal 1984 al 2007, alla fine del quale i due si ritrovano, lei macerata dall’anoressia, lui ingrassato e segnato dalle cicatrici dei tagli che si auto infligge. Forse ora avranno nodo di superare i rispettivi passati e iniziare un nuovo percorso e, in questo, il film si scosta dal libro. La storia è ambientata in una Torino funzionalmente fotografata da Fabio Cianchetti, usa un tono narrativo disteso e si avvale della straordinaria interpretazione di Alba Rohrwacher, mentre Luca Marinelli appare costantemente di sotto alla complessità del personaggio lui affidato. Il difetto maggiore deriva dalla scelta del regista di trasferire le introspezioni e le macerazioni di cui è ricco il libro in immagini silenti, non avendo capito che, sulla pagina, la riflessione è sempre evento costruito su parole, mentre nel cinema l’afasia scivola immediatamente nella lentezza di ritmo e in lungaggine ingiustificata. In conclusione è un film di buon livello ma compromesso da un ritmo ben poco funzionale.

I 13 assassini
I 13 assassini

 

Il giapponese Takashi Mike si è rifatto alla leggenda degli Jûsan-Nin No Shikaku (13 assassini) spostando da 1701 alla fine dell’ottocento una delle storie orientali che già ha avuto numerose versioni narrative, teatrali e cinematografiche. La più recente, per il grande schermo, è Shijûshichinin no shikaku (I 47 rônin, 1994) firmata da Kon Ichikawa (1915 - 2008). E' un racconto cui non sono estranei rifacimenti da parte di registi di prestigio, da Akira Kurosawa (1910 -1998) con I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) ad autori occidentali come John Sturges che ha firmato I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960). Nella sostanza si tratta del manipolo di eroi, nel caso tredici samurai, che accetta una missione impossibile al servizio di un potente signore: bloccare e uccidere un arrogante e crudele dignitario convinto di poter fare qualsiasi cosa gli passi per la testa senza pagare il fio dei suoi crimini. Nella sostanza il film vive per la mezzora della battaglia finale, in cui quasi tutti gli eroi perdono la vita, ma il cattivissimo è sconfitto. In questa nuova versione non mancano gli accenni politici, poiché il crudele signorotto vuol rompere la pace faticosamente stabilita fra i vari feudatari dopo anni di guerre e massacri. Naturalmente abbondano le meraviglie tecnologiche, l’uso sapiente della macchina da presa, gli ettolitri di falso sangue, le teste mozzate e via elencando. Tutto questo non basta a dare al film uno spessore autenticamente originale e a evitare il senso del già visto.

La stanza  della sposa
La stanza della sposa

 

La Settimana della Critica ha chiuso il programma presentando, fuori concorso, Limbunan (La stanza della sposa), primo lungometraggio del filippino Gutierrez Mangansakan II. Il tema è un classico delle cinematografie di quello che, per comodità e con molta approssimazione, potremmo definire terzo mondo: il dramma delle donne malmaritate, spesso date in sposa a uomini che neppure conoscono. Tale è il destino della sedicenne Ayesah, che il padre – padrone promette al rampollo di una ricca famiglia mussulmana, un giovanotto che lei non ha mai visto. Seguendo il rituale della tradizione Maguindanao, ora la ragazza deve trascorrere un mese chiusa nella sua camera, intenta ai preparativi del matrimonio. La promessa sposa è profondamente turbata dal destino oscuro che la aspetta, una sorte che può già misurare sia attraverso il dolore della madre – il padre ha appena preso una seconda moglie più giovane - sia dalla condizione della zia che non si è mai sposata e coltiva la memoria di un amore sfortunato. A queste tre figure femminili si aggiunge quella della sorellina della reclusa che, a soli otto anni, è già turbata dal possibile destino che l’aspetta, anche perché inizia a intuire, grazie ai discorsi che sente in televisione, la possibilità che le donne abbiano diritto a scegliersi il marito. Se a tutto questo si aggiunge che, nei paraggi, si aggira un intellettuale, ex – guerrigliero, verso cui la ragazza prova un forte sentimento, si avrà un’idea abbastanza precisa dei triboli della promessa sposa. Il dramma che si consuma nel microcosmo familiare e s’iscrive in un terribile fatto di cronaca: le violenze che hanno insanguinato questa regione nel novembre 2009, quando nella città di Ampatuan una sessantina di persone sono state assassinate perché sostenevano Esmael Mangudadatu, vice sindaco che sfidava il primo cittadino in carica Andal Ampatuan, Jr. Tra le vittime vi furono la moglie e due sorelle del candidato, una trentina di giornalisti e vari avvocati. Il film ha un respiro lento, immagini di grande raffinatezza e s’inserisce a pieno titolo tra le opere migliori del filone sociale e progressista della cinematografia di questo paese.


Venerdì 10 settembre – decimo giorno

Strada verso il nulla
Strada verso il nulla

 

La sfilata dei film in concorso si è terminata con tre titoli di cui riferiamo in ordine di riuscita e importanza. Road to nowhere (Strada verso il nulla) è l’ultima fatica di Monte Hellman, un regista, caro ai cinefili. Questo cineasta, considerato lo scopritore di Quentin Tarantino essendo stato il produttore esecutivo del film con cui ha esordito, Le iene – Cani di paglia (Reservoir Dog, 1992), ha presentato, alla non più verde età di settantotto anni, un film che riassume la sua poetica: rapporto fra realtà e finzione, cinema nel cinema, sentimenti spinti sino ai limiti estremi. Un giovane regista americano vuole realizzare un film su un fatto di sangue realmente accaduto. Ne sono stati protagonisti una giovane segretaria e un potente uomo politico del Nord Carolina, entrambi coinvolti nella sparizione di 100 milioni dollari in fondi pubblici. Non si è riusciti a chiarire sino in fondo se la donna - che, forse, era l’amante del politico, anche se molto più giovane di lui - è stata vittima o organizzatrice della truffa. Per il ruolo principale il cineasta ingaggia una semisconosciuta che si rivelerà, in un finale debitamente sanguinolento, essere la vera sorpresa della storia. Il film è girato con grande perizia e non molti soldi e conferma la capacità degli americani di utilizzare il linguaggio cinematografico come mezzo d’espressione duttile e intimamente legato alla loro cultura. Pur senza far ricorso alla magia degli effetti speciali, ai divi famosi, ai mezzi sovrabbondanti o alle storie mirabolanti il regista dà prova di una capacità di raccontare che avvince dal primo all’ultimo fotogramma. E’ un film per palati fini che, all’inizio, può anche suscitare qualche perplessità, ma che con lo scorrere delle sequenze acquista corpo e forza.

La versione di Barney
La versione di Barney

 

Anche Barney's Version (La versione di Barney) batte bandiera a stelle e strisce. L’'ha diretto, traendolo da un romanzo di successo del canadese Mordecai Richler (1931 - 2001), Richard J. Lews ,più noto come produttore e regista della serie televisiva CSI: Crime Scene Investigation che come autore di lungometraggi, ha al suo attivo, ad esempio, Un poliziotto a quattro zampe (K-9: P.I., 2002). Questa sua nuova fatica s’'iscrive nel miglior cinema commerciale americano raccontando la vita del direttore di una società di produzione televisiva canadese, significativamente chiamata Totally Unnecessary Productions (Produzioni Totalmente Inutili). Il tutto disteso su più di trent’anni, raccontati dal protagonista, come in una fluviale auto confessione, prendendo spunto da un libro scandalistico scritto da un ex-poliziotto che lo perseguita, convinto che sia stato lui a uccidere uno scrittore segnato dal vizio di portarsi a letto le mogli del produttore, oltre che abusare di alcol e droghe. Percorriamo così le varie tappe della carriera di quest’uomo di successo, conosciamo le sue tre mogli, i figli e la strada dolorosa verso la demenza senile. E’' un testo molto ben costruito, che intreccia abilmente melodramma e ironia, sentimento (sentimentalismo?) e sguardo cinico sul mondo televisivo. In poche parole un prodotto d’'alto livello professionale, ma che suscita una sola domanda: che cosa ci sta a fare in una Mostra d’Arte cinematografica?

Tre
Tre

 

Ancora meno comprensibile la scelta di mettere in concorso Drei (Tre) del tedesco Tom Tykwer che molti ricordano come autore del divertente ma nulla più, Lola corre (Lola rennt, 1998). Qui siamo alla parodia in carta patinata di Jules e Jim (1962) di François Truffaut, con una storia d’amore a tre fra una moglie turbata dal pensiero della prossima menopausa, un marito convalescente per un’operazione che l’ha privato di un testicolo causa cancro e un bel ricercatore bisessuale. Finiranno tutti, armoniosamente, nello stesso letto dopo una serie di turbamenti e un diluvio d’immagini promozionali della nuova Berlino. Non c'è niente di realmente interessante, qualche limitato brivido erotico e molte immagini in confezione regalo.

Anima silente
Anima silente

 

Conclusioni

Come si poteva prevedere è stata la classica Mostra in un anno di crisi, con meno soldi, qualche sofferenza strutturale e pochi titoli degni di una grande rassegna d’arte cinematografica. A ben guardare i soli film artisticamente importanti sono stati quelli firmati dal russo Aleksei Fedorchenco (Ovsyanki – Anima silente), Monte Hellman (Road to Nowere – Strada verso il nulla), Kelly Reichardt (Meek’s Cutoff –- Il sentiero di Meek) e Pablo Larain (Post mortem). Ci sono stati, poi, alcuni titoli di buon valore, ma tutt’altro che straordinari, come quelli di Ascanio Celestini (La pecora nera), Sofia Coppola (Somewhere – Da qualche parte) e Abdellatif Kechiche (Vénus Noir –- Venere Nera), Si dirà che, con i tempi che corrono, non è un bilancio trascurabile. Appunto: con i tempi che corrono.


Sabato 11 settembre – undicesimo giorno

Somewhere
Somewhere

 

I premi ufficiali

Leone d'oro a Somewhere (Da qualche parte) di Sofia Coppola.

Leone speciale per l'insieme dell'opera a Monte Hellman, che ha portato in concorso Road to nowhere (Strada verso il nulla).

Leone d'argento miglior regia ad Alex de la Iglesia per il film Balada triste de trompeta (Ballata triste per tromba).

Premio speciale della giuria al film Essential Killing (Omicidi essenziali) di Jerzy Skolimowski.

Coppa Volpi migliore attrice ad Ariane Labed per Attenberg di Athina Rachel Tsangari.

Coppa Volpi miglior attore a Vincent Gallo per Essential Killing (Omicidi essenziali) di Jerzy Skolimowski.

Leone del Futuro - Premio Venezia Luigi De Laurentiis per la migliore al film Cogunluk (Maggioranza) di Seren Yuce.

Il premio Orizzonti per il miglior lungometraggio è stato assegnato al film Verano de Goliat (Estate di Golia) di Nicolas Pereda.

Gran Premio Speciale della Giuria della Sezione Orizzonti al film The Forgotten Space (Lo spazio dimenticato) di Noel Burch e Allan Sekula.

Osella migliore sceneggiatura: Balada triste de trompeta (Ballata triste per tromba) di Alex de la Iglesia.

Osella miglior contributo tecnico a Mikhail Krichman per la fotografia del film Ovsyanki (Anime silenti) di Aleksei Fedorchenko.

Premio Marcello Mastroianni giovane attore/attrice emergente a Mila Kunis, interprete del film Black Swan (Cigno nero) di Darren Aronofsky.

Premi collaterali

Premio FIPRESCI

Miglior film Venezia 67: Ovsyanki (Anime silenti) di Aleksei Fedorchenko.

Miglior film Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica: El Sicario - Room 164 (Il sicario – Stanza 164) di Gianfranco Rosi.