67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010 - secondo giorno

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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Giovedì 2 settembre – Secondo giorno
La pecora nera

 

La Pecora nera è il primo film italiano comparso nel corso di questa 67ma Mostra. L’'ha diretto un esordiente, dietro la macchina da presa, ma un nome molto noto ai frequentatori dei teatri: Ascanio Celestini. Chi lo conosce sa che si tratta di un poeta che costruisce i suoi monologhi mescolando malinconia a dure sferzate critiche nei conforti della politica, del mondo moderno e dei suoi rituali. In poche parole è un cantore in cui possono riconoscersi gli emarginati e tutti quelli che il banchetto consumistico mette fuori dalla grande tavola imbandita. Sono queste stesse linee che si intravvedono al fondo di questa prima opera cinematografica in cui il poeta e regista racconta la vita di un infermiere di un manicomio il quale, alla fine, si rivelerà un ricoverato che crede di essere un paramedico. Il tutto intessuto di acute osservazioni sui rapporti con e fra i degenti, le difficili relazioni con le suore che gestiscono il ricovero, le note sull’amore impossibile per un ex-compagna d’infanzia, oggi commessa in un supermercato e amante del direttore dell’emporio, i sogni e i triboli di un altro ricoverato in una struttura più simile a un carcere che a un vero istituto di cura. Siamo nel 1978, anno della morte di papa Giovanni Paolo I, e nei manicomi si usano ancora elettrochoc, letti di contenzione e si riempiono i pazienti di tranquillanti e di botte. Il modo di raccontare del regista è tutt’altro che lineare, le immagini sono immerse in toni marci del tutto in sintonia con la linea essenziale del film. Tutto questo conferisce all’opera un notevole interesse che unisce proficuamente lo sguardo politico alla notazione psicologica.

 Norvegian Wood del francese, d'’origine vietnamita, Tran Anh Hung è opera del tutto diversa. Il regista ha portato sullo schermo un romanzo (Noruwei no mori) scritto da Haruki Murakami nel 1987. E’ a una storia d’amore dagli sviluppi alquanto complessi e, a tratti, tragici, che vedono coinvolti un giovane, l’ex - fidanzata del suo migliore amico, suicida per disperazione legata all’impossibilità di fare l’amore perché colpita da una malformazione sessuale, e un’altra ragazza con cui, nel finale, il protagonista aprirà una nuova fase sentimentale. Siamo negli anni a cavallo della fine del sesto decennio del secolo scorso e lo sfondo è segnato dalla contestazione giovanile e dai fermenti, anche sessuali, che divampano, in modo particolare, nelle giovani donne. Il regista lascia abbondantemente sullo sfondo questi temi, per concentrare l’attenzione sulle psicologie dei personaggi, su paesaggi stupendamente fotografati e sui triboli di una generazione che si affaccia alla vita con più dubbi di certezze. Ne deriva un ritmo narrativo volutamente lento e un film da contemplare più che amare. Come dire che siamo abbastanza lontani dagli esiti di alcune altre opere di questo cineasta come Mùi du xanh (Il profumo della papaya verde, 1993) e Xich lo(Cyclo, 1995).

Anche Miral del pittore e regista Giulian Schnabel racconta una storia d’amore, quella fra una ragazzina israelo - palestinese e un capo dell’OLP, ucciso dei suoi stessi compagni perché favorevole ai negoziati con i governanti d’Israele. In questo caso, tuttavia, l’occhio, più che sui personaggi, è puntato sulla storia dello stato mediorientale, dal 1948, anno del riconoscimento da parte dell’ONU, sino alla prima intifada. Il filo conduttore lo offre la vicenda di una scuola per ragazzi abbandonati palestinesi, La città del bambino, fondata da Hind Hussein e aperta ancor oggi a quattordici anni della sua morte. Il regista conferma la vocazione a usare, soprattutto nella prima parte, inquadrature sghembe, angolazioni inusuali, alternanza veloce delle immagini, stilemi che, qualche volta, sconcertano e arrivano a infastidire lo sguardo dello spettatore. Sono difetti che già si notavano in film come Basquiat (1996) e Lo scafandro e la farfalla (2007) che ha ottenuto il premio per la miglior regia al festival di Cannes dello stesso anno. In conclusione è un’opera suggestiva nelle immagini, pacifista negli intenti, a tratti commuovente, qualche volta irritante.

                                  Angéle e Tony
Angéle e Tony

 

Il programma della Settimana Internazionale della Sic (SIC) si è aperto con Angèle et Tony (Angèle e Tony), primo lungometraggio della francese Alix Delaporte, già affermata sceneggiatrice televisiva e autrice di alcuni cortometraggi uno dei quali, Comment on freine dans una descente? (Come si frena in discesa?) ha ottenuto il Leone d’oro per questo tipo di film alla Mostra del 2006. Angèle è una giovane donna in profonda crisi materiale ed esistenziale, è uscita da poco dalla prigione, dove ha scontato una condanna inflittale perché responsabile di un incidente in cui è morto suo marito. Ha un figlio che le è stato sottratto dalla legge e affidato ai nonni. Per tentare di recuperarne l’affidamento ha bisogno di trovare un lavoro e un uomo che la sposi e, poiché a questo punto della sua vita, riesce a comunicare quasi elusivamente attraverso il sesso, non esita a offrirsi ai maschi che potrebbero corrispondere al suo desiderio. Un giorno incontra Tony, un pescatore abituato alla dura vita del mare, il film è ambientato in una bassa Normandia stupendamente fotografata da Claire Mathon, che rifiuta le sue offerte sessuali, ma le propone di andare a vivere con lui. Inizia in questo modo un complesso menage, l’uomo vive con la madre che gestisce un banco di pesce e il fratello, alla fine del quale Angèle scoprirà nuovamente l’amore e Tony troverà lenimento alla solitudine. E’ un piccolo film dalla durata esatta, un’ottantina di minuti, in cui l’analisi e lo scandaglio delle psicologie fa premio sugli eventi. Una storia quasi banale ma ricca di notazioni e riferimenti sociali - le lotte dei pescatori contro le prescrizioni europee - che licenzia un racconto umanissimo e denso di osservazioni a tutto campo. Unico dato non del tutto positivo è la bellezza di Clotilde Hesme, troppo levigata e perfetta per plasmarsi perfettamente su un personaggio alla deriva.