67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010 - quarto giorno

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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Anima silente
Anima silente

Sabato 4 settembre – quarto giorno

Chi ha detto che un film, per essere di buon livello, deve forzatamente avere ingenti mezzi produttivi? Una sonora smentita è venuta da Ovsyanki, letteralmente Gli zigoli (uccelli della famiglia degli emberizidae) da noi ribattezzato Silent Soul (Anima silente), del russo Aleksei Fedorchenko. E' un testo di soli settantacinque minuti, tratto da un racconto di Aist Sergeyev, in cui si narrano i riti funerari di una piccola comunità, i merja, di etnia ugro-finnica che vive al centro della Russia conservando, per quanto possibile, tradizioni millenarie. Una di queste riguarda, appunto, le cerimonie mortuarie che non prevedono l’inumazione della salma, ma la sua cremazione, preceduta e seguita da un preciso rituale. Il rogo avviene su una pira eretta su un isolotto sabbioso nel bel mezzo di un fiume. E’ quanto faranno Miron e Arist - il primo direttore di una cartiera, il secondo fotografo ufficiale della stessa - che alla morte dell’amatissima moglie del dirigente, intraprendono un lungo viaggio per erigere la pira mortuaria. Il film racconta questo tragitto, con poche parole, la maggior parte delle quali dedicate a ricordare le tradizioni di quel popolo. E’ loro compagna di viaggio una copia di zigoli, una specie di passeri di colori giallo e verde molto comuni in Russia. Saranno proprio questi piccoli volatili a determinare il colpo di scena che chiude il film. E’ un’opera segnata da una forte vena poetica che, oltre a tracciare precise linee psicologiche e sentimentali, non tralascia di mettere a confronto il presente con il passato, la tradizione con una modernità fatta di consumismo impersonale quanto accattivante. E’ un film molto bello, percorso da una tensione fortissima, alimentata da fatti e gesti del tutto quotidiani, costruito con sapienza narrativa e sorretto da una splendida fotografia in cui la pioggia e i toni autunnali si sposano al quadro psicologico che segna i personaggi..

La passione
La passione

 

Bilancio è positivo, anche se meno netto di quello del film russo, anche quello della La passione di Carlo Mazzacurati. E’ la storia di un regista che, in passato, ha conosciuto momenti di successo, ma che è stato fermo ben cinque anni senza idee e senza la possibilità di realizzare un nuovo film. Un incidente, capitato in una sua casa in Toscana (si sono rotti i tubi per l’acqua che hanno rovinato un affresco cinquecentesco disegnato su un muro di un locale contiguo) lo costringe a fronteggiare il bonario ricatto della sindachessa del borgo: accetti di dirigere la Sacra Rappresentazione che si svolgerà da lì a quattro giorni, oppure sarà denunciato alla Sovraintendenza per il Patrimonio Artistico. Preso fra due fuochi, vessato da un produttore cinico e superficiale che lo spinge a fare un nuovo film con una divetta della televisione, una star popolare quanto incolta, il nostro finirà per lasciarsi coinvolgere nella rivisitazione della Passione, rimanendone coinvolto al punto di, forse, dare una svolta alla sua vita. Questo cineasta ha sempre mostrato cristiana attenzione per emarginati e chi vive fra mille difficoltà. Questa volta il suo disegno si fa ancor più preciso con l’assunzione della Sacra Rappresentazione quale occasione per un ravvedimento dell’anima e dell’intera esistenza. Il film è costruito molto bene, anche se con qualche approssimazione narrativa e calibra in modo esatto ironia a malinconia collocandosi, se non a livello delle grandi opere, a quello di un testo professionalmente maturo e, a tratti, originale.

Potiche è un termine francese che individua un oggetto di poco valore che si mette su un mobile con funzioni decorative. In italiano è stato spesso tradotto La bella statuina, anche perché, in senso traslato, si utilizza per individuare, in modo non positivo, una donna che vive all’ombra del marito. Il film che François Ozon ha tratto dall’omonimo testo teatrale di Jean-Pierre Grédy (1920) e Pierre Barillet (1923), rappresentato con successo nel 1980, modifica il finale del copione inserendovi la sconfitta, in famiglia della protagonista e il suo successo in politica. Il nocciolo del testo è nella rivendicazione del ruolo sociale e umano delle donne in una società maschilista. La regia colloca la storia nel 1977, in una cittadina di provincia ove una fabbrica di ombrelli ha un ruolo fondamentale per l’economia della zona. L’azienda è diretta dal classico padrone delle ferriere che considera gli operai semplici bestie da soma. Un infarto lo costringe a consegnare le redini del potere alla moglie, figlia del fondatore dell’azienda, che rivoluziona i rapporti con il personale, coinvolge i figli nella direzione, ammoderna la produzione. Quando il padrone ritorna dalla convalescenza, lo scontro con la consorte diventa inevitabile, da qui divorzio e un’altra strada per la donna che, in gioventù non è stata poi così irreprensibile come molti credono. E’ un testo brillante che, con lo scorrere degli anni ha perso non poca attualità e cui il regista, ricreando l’atmosfera - le canzoni inserite nella colonna sonora vi hanno un ruolo importante - fine anni settanta, assegna più un ruolo filologico - museale che non quello di un’opera valida ancor oggi. Film d’attori per eccellenza trova in Catherine Deneuve e, soprattutto, in Fabrice Lucchini due puntelli robusti e indispensabili. Trascurabile l’apporto di Gerard Depardieu, qui ancor più istrionico del solito.
Hai paura del buio
Hai paura del buio

 

Alla Settimana della Critica è stato presentato l’unico titolo italiano in competizione: Hai paura del buio dell’esordiente Massimo Coppola. E’ una storia, ambientata nella provincia campana, che mette in parallelo le vicende di due giovani donne: Eva, giunta dalla Romania ove ha liquidato ogni avere per ritrovare la madre che l’ha lasciata anni prima per venire in Itala a guadagnare soldi da mandare a casa, anche a costo di prostituirsi, e Anna che lavora alla FIAT di Melfi e cova una rabbia feroce verso la propria condizione di operaia. Le due donne s’incontrano casualmente e le loro vite s’intrecciano brevemente per poi riprendere, ciascuna, la propria strada. Il film affronta temi forti, come la devastazione indotta nelle campagne e nella provincia dai grandi insediamenti industriali o le dure condizioni di vita delle immigrate rumene. Tutto questo è esposto con onestà, ma affrontato in modo troppo superficiale perché dia al film uno spessore autenticamente creativo.