67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010 - quinto giorno

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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Domenica 5 settembre – quinto giorno

Post Mortem
Post Mortem

 

Pablo Larraín è un regista cileno che ha già diretto due film pregevoli: Fuga (2005) e Tony Manero (2008), il secondo dei quali ha ottenuto moltissimi riconoscimenti nei numerosi festival in cui è stato presentato. La Mostra ha accolto la sua terza fatica: Post mortem. Il film conferma le linee tematiche e stilistiche che guidano quest’autore. Le prime focalizzano i comportamenti e i guasti psicologici che marcano la mente della gente comune davanti alle aggressioni, morali e fisiche, della dittatura. Nel caso di Tony Manero a essere messo in discussione era l’imperialismo culturale nordamericano che schiaccia l’America Latina e non solo. La storia del poveraccio che arriva all’omicidio nel delirio di imitare John Travolta in una miserabile trasmissione televisiva, mette in luce, in tutto il suo orrore, gli stravolgimenti, mentali e fisici, indotti in persone apparentemente normali, in realtà schiave della cultura dominante. In questo nuovo film lo scenario è quello dei giorni del colpo di stato organizzato l’11 settembre 1973 dai militari felloni guidati dal generale Augusto Pinochet. I golpisti deposero e uccisero Salvador Allende, presidente regolarmente eletto e simbolo dell’alleanza di sinistra (Unidad Popular). Il tutto è visto attraverso gli occhi di uno stenografo forense, addetto alla trascrizione dei referti delle autopsie in un grande ospedale di Santiago del Cile. Il quieto tram tram, se così si può dire, del suo lavoro è sconvolto da due eventi: l’innamoramento per una matura stella del varietà e il golpe. Il primo lo mette in contatto con una donna disillusa, spregiudicata, pronta a usare il sesso come merce di scambio. Il secondo lo inorgoglisce con la nomina a membro dell’esercito, lo turba per l’enorme quantità di cadaveri che piombano nell’obitorio e per le crescenti violenze di cui è testimone. Un corto circuito che innesca un vero e proprio delitto destinato a rimanere impunito: quando scopre che la donna è l’amante di un militante ricercato dai militari mura entrambi nell’angusto scantinato in cui hanno trovato rifugio, condannandoli a morire di fame. Sul piano stilistico il film conferma la strada prediletta di quest’autore, con sequenze segnate da un respiro lento, un ritmo quasi simile a quello del tempo reale e da ampi brani privi di dialogo. Sono scelte che funzionano quando davanti alla macchina da presa ci sono attori di grande capacità, in questo caso Antonia Zegers e Alfredo Castro, già protagonista di Tony Manero, che in questo caso sono più che all’altezza della bisogna.

Il sentiero di Meek
Il sentiero di Meek

 

Meek’s Cotoff dell’americana Kelly Reichardt è la classica opera da festival, nel senso che è una produzione ad altissima componente culturale e sperimentale, ma assai poco appetibile a quello che siamo soliti chiamare il mercato delle immagini. Siamo nell’Oregon, nel 1845, gli Stati Uniti, così come li conosciamo oggi, sono ancora poco più dell’embrione delle tredici colonie britanniche che hanno dichiarato la propria indipendenza il 4 luglio 1776. Buona parte del territorio è ancora controllata da britannici, francesi e messicani, mentre intere regioni sono territorio di caccia per i nativi pellerossa. In questo scenario s’inscrive la carovana di tre famiglie di coloni che, sotto la guida dello scout Stephen Meek, tentano di raggiungere le terre fertili dell’ovest. Ben presto si perdono, seguendo una scorciatoia consigliata dalla guida, e finiscono nelle zone desertiche degli altipiani. Quasi privi di cibo e acqua vanno avanti fra sospetti verso chi li conduce e tentazioni di tornare indietro. Decisivo sarà l’incontro con un indiano, dapprima visto dome nemico, poi assunto a vera, unica guida. E’ un percorso verso l’integrazione razziale, la caduta delle diffidenze preconcette che la regista descrive con toni quasi documentaristici, some se fra quei pionieri vi fosse stata veramente una macchina da presa che ne registrasse la vita di tutti i giorni. E’ un film che rovescia gli stereotipi, scenografici e di abbigliamento, di cui Hollywood ha ammantato la grande epopea western, restituendo allo spettatore la fatica, la miseria, il sudore e il sangue di cui si è nutrita. E’ un’opera forte e a suo modo magistrale, che commuove e affascina nonostante la voluta lentezza della narrazione e le misere condizioni di vita che rappresenta.

Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante
Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante

 

C’è ben poco da dire, invece, su Di Renjie zhi Tongtian diguo (Detective Dee e il mistero del fantasma fiammeggiante), film dal bilancio imponente e dagli effetti speciali magici, diretto dal vietnamita, naturalizzato hongkonghese, Tsui Hark di cui abbiamo conosciuto, in passato, opere ben più intriganti come Shang Hai zhi yen (I blues di Shanghai, 1984) e Wong Fei Hung (C’era una volta in Cina, 1991). Qui siamo alla solita passerella di scene da arti marziali che, con il flebile pretesto di un’inchiesta condotta per conto di una reggente che sta per essere nominata imperatrice, l’epoca è il 690 d.C., inanellano duelli all’arma bianca, immagini di folle sterminate e città magiche, il tutto condito da scontri coreografati come balletti. C’è ben poca materia d’interesse e molta meraviglia tecnologica.

Oltre
Olltre

 

La Settimana della Critica ha confermato la buona qualità della selezione con un film svedese, Svinalängorna (Oltre), esordio nel lungometraggio dell'attrice Pernilla August. La storia è un classico della cultura e del cinema nordici: la rabbia e i sensi di colpa in cui si dibattono i figli di genitori violenti e alcolizzati. Qui è il caso di Lena, una Noomi Rapace ben lontana dai manierismi della trilogia Millennium, a cui annunciano le gravissime condizioni della madre. E' l'occasione per un percorso indietro nel tempo con ricordi d'infanzia punteggiati di botte, appartamenti sfasciati, vomito ed escrementi seminati per casa da un padre, d'origine finlandese, in perenne stato alcolico. Non manca la morte per overdose del fratellino e il progressivo degrado della genitrice, anch'essa indulgente con la bottiglia. E' un film robusto, ben costruito, a tratti commuovente che conferma le profonde distanze fra la cultura protestante e quella mediterranea. Loro hanno solo lo psichiatra, i cattolici hanno anche e principalmente la confessione, una differenza di non poco conto.