67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010 - settimo giorno

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67ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2010
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Martedì 7 settembre – Settimo giorno

Noi credevamo
Noi credevamo

 

Noi credevamo di Mario Martone è il quarto e ultimo titolo della pattuglia italiana presente nella maggiore sezione competitiva della Mostra. Diciamo subito che è un'’opera con almeno un paio di pregi. Il primo segnala come, affrontando il tema del Risorgimento attraverso i percorsi di vita di tre amici pugliesi, dagli anni trenta ai settanta del milleottocento, usi un’ottica che, utilizza un punto di vista che si può definire gramsciano. Vero è che tende anche a costruire una metafora del dramma e della condanna al fallimento per qualsiasi forma di terrorismo. In questo senso il film muove da un’intelaiatura già nota: l’unificazione dell’Italia letta come rivoluzione mancata causa il connubio fra borghesia piemontese e aristocrazia meridionale. E’ un punto di vista già usato da Luchino Visconti ne Il Gattopardo (1963). A quest’approccio se ne affianca un altro che guarda apertamente al dramma delle Brigate Rosse e a quello di tutti gli altri movimenti, velleitari e armati, nati sulla scia delle delusioni sessantottesche. In questo i destini di Domenico, Salvatore e Angelo metaforizzano parte della storia italiana del secolo successivo, sino ai giorni nostri, passando dall’omicidio politicamente fratricida alla morte per ghigliottina, dopo il fallimento di un attentato alla vita di Napoleone III, sino alla constatazione che i tempi sono ormai cambiati e coloro che ieri predicavano rivolte e bombe oggi siedono in Parlamento. Sono queste le parti di maggiore interesse cui va aggiunto, è il secondo pregio, l’avere utilizzato il meglio del teatro italiano: Valerio Binasco, Renato Carpentieri, Roberto di Francesco, Toni Servillo, Alfonso Santagata, Jurij Ferrini, Anna Bonaiuto, Vincenzo Pirrotta. A questo punto subentra l’elenco dei momenti non riusciti, quelli che impediscono all’opera di collocarsi a livello di grande cinema. Intanto ci sono alcune stranezze scenografiche come i pali in cemento armato a metà dell’ottocento e tubi al neo in vista sullo sfondo, anche se il regista ha dichiarato che si tratta di scelte volute per collocare quei fatti nella continuità sino ai giorni nostri. Tuttavia la cosa che più disturba è il tono complessivamente televisivo dell’opera, come la lunghezza di otre tre ore. Per non parlare di alcune scansioni interne al racconto che ne rivelano la predisposizione a essere diviso in varie puntate a uso del teleschermo, circostanza confermata dallo scarso respiro di molti esterni. Inoltre, ci sono la frammentazione del racconto e un certo moralismo nel presentare problemi politici di grande complessità alla luce di una sola chiave di lettura: il tradimento dei rivoluzionari di ieri, diventati oggi cani da guardia del potere. In definitiva è un film (un telefilm?) di grande professionalità, tendenzialmente dissacrante in realtà monco.

Il fosso
Il fosso

 

A sorpresa il calendario del concorso si è arricchito di un nuovo titolo: La Fossè (Il fosso), una produzione francese diretta dal cinese Wang Bing. E’ la ricostruzione del calvario che dovettero percorrere, alla fine degli anni cinquanta, molti contadini e numerosi intellettuali accusati di essere dissidenti di destra e condannati a essere rieducati nel campi di lavoro aperti nel deserto del Gobi. Siamo negli anni in cui il fallimento della politica dei cento fiori e la carestia in cui morì di fame una decina di milioni di contadini, innescano un feroce scontro di potere all’interno del Partito Comunista e mettono in discussione la leadership dello stesso Mao Zedong (1893 – 1976). Questi, novello esorcista stregone, si rivolse direttamente alla base incitando studenti e militanti alla caccia ai borghesi. Si aprì così un’immane tragedia che macinò milioni d’intellettuali, professionisti, studiosi privando il paese della migliore classe media. Espulsi dalla università, rimossi dalla dirigenza di fabbriche e ospedali, cacciati dai centri di ricerca che, del resto, erano sistematicamente chiusi perché covi di borghesi. Milioni di professori, insegnati, dirigenti, contadini che possedevano una vacca o coltivavano un orto per la famiglia, finirono a scavare a braccia enormi fossati destinati a rendere fertili le sabbie del deserto. Sporchi, affamati, mal vestiti morirono a migliaia e a migliaia sono malamente sepolti in cimiteri improvvisati. Il film racconta queste sofferenze e lo fa con sguardo fermo, quasi documentaristico, senza indulgere a fatti straordinari alla vita quotidiana, se si esclude la venuta della vedova di uno dei prigionieri che cerca ostentatamente la tomba del coniuge. E’ un film politicamente importante, anche se non altrettanto robusto sul versante della narrazione cinematografica.

Ballata triste per tromba
Ballata triste per tromba

 

Si è visto anche Balada triste de trompeta (Ballata triste per tromba) dello spagnolo Alex De La Iglesia, storia di una bella acrobata contesa fra due clown. Lo sfondo è quello della Spagna fra la guerra civile (1936 -39) e l’attentato che costò la vita al primo ministro Luis Carrero Blanco (1904 –1973), attentato che è stato utilizzato anche da Gillo Pontecorvo (1919 –2006) per il film Ogro (1980). Il regista dichiara di aver fatto questo film per esorcizzare il dolore che attanagliava la sua anima. Non ne dubitiamo, come non abbiamo problemi a confessare la nostra incapacità a esprimere un giudizio motivato su una simile accozzaglia d’immagini grottesche, ambigue e sanguinolente.

Marta
Marta

 

Martha, da trent’anni impiegata di una società d’assicurazioni, vive in una povera periferia di Città del Messico. I suoi unici punti fermi sono il lavoro d’archivista e un’anziana vicina, molto ammalata, che lei cura con l’amorevolezza di una figlia. Di colpo il suo piccolo mondo è sconvolto: l’azienda per cui lavora la sostituisce con un computer e la licenzia, l’amica dolente decide di andare a vivere con la figlia, lontano dalla città. Due eventi che la spingono a tentare il suicidio. Quando sembra che non vi sia più nulla da fare, un accidente casuale - le pillole che ingoia per morire si rivelano innocue – la riconsegna alla vita e, forse, alla speranza di una nuova esistenza. Il messicano Marcelino Islas Hernández esordisce nel lungometraggio - meglio, nel medio metraggio allungato, poiché il film, presentato nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica, dura meno di settantacinque minuti - con questo Martha, forte e dolente radiografia della vecchiaia e della solitudine. E’ questa la parte certamente più riuscita e commuovente di un film guastato, in parte, da un lieto fine abbastanza in contrasto con un’opera segnata dai colori bui, dal pessimismo e nobilitato da una straordinaria, dolente interpretazione di Magda Vizcaino. Un’opera che convince e commuove, sino al momento, gli ultimi dieci minuti, in cui un lucido pessimismo lascia il passo a una soluzione positiva stilisticamente incongrua.