Mostra di Venezia 2005

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Mostra di Venezia 2005 - Giorno per giorno.

I giornata
Apertura ad ostacoli
La sessantaduesima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è stata segnata dalle misure di sicurezza imposte dalla polizia e realizzate dalla direzione della manifestazione. Porte – metal detector sono state istallate di una decina di punti d’accesso obbligati con obbligo di passaggio e ispezione dei bagagli. E' un sistema in vigore già da anni a Cannes, la cui efficacia antiterrorismo lascia qualche dubbio, visto che un organismo così complesso e frequentato come una grande rassegna internazionale ha dimensioni ed esigenze che sfuggono o contrastano con controlli realmente approfonditi e continui. In altre parole si ha l’impressione che si tratti più di fare scena che non mettere in atto un apparato antiterrorismo realmente efficace.
Per quanto riguarda più direttamente i film l’impressione che offre il programma è della ricerca di un livello medio – dignitoso con qualche nome di spicco (Manoel De Oliveira, Ang Lee, Pupi Avati, Abel Ferrara, Terry Gilliam…) qualche esordiente di lusso (George Clooney) e molti autori venuti dall’estremo Oriente, terra d’adozione e quasi seconda patria del direttore Marco Müller. Si è iniziato proprio con un film cinese, Sette spade di Tsui Hark, sorta di versione in quella terra del mitico western I magnifici sette di John Sturgens (1960). La storia è la stessa, con sette spadaccini che si mettono assieme per difendere gli abitanti di un villaggio dalla ferocia di un piccolo esercito di cacciatori di teste (in senso letterale) sguinzagliati da un potente Duca che ha proibito ogni forma di difesa tramite arti marziali da parte delle comunità locali. La paura è che queste forme d’autogestione si trasformino in rivolte autonomiste. In più ci sono spiriti magici, tradimenti e interminabili scontri all’arma bianca cadenzati secondo la nota tecnica del kung-fu / balletto. E' un film troppo lungo - due ore e venti - ripetitivo, prevedibile e noiosissimo. Quest’ultimo è un vero peccato mortale per un racconto in cui l’azione dovrebbe costituire la spina dorsale dell’opera.
II giornata
Nonostante tutto qualche soddisfazione arriva.
Questa sessantaduesima Mostra del Cinema si è aperta sotto pessimi auspici organizzativi, ma bisogna dire che sinora gli intoppi sono stati meno di quelli registrati in passato. Il che costituisce un giudizio parzialmente positivo, visto che si tratta pur sempre di una manifestazione zoppicante. Sul versante dei film due titoli su tutti. Goodnight, and Good Luck (Buona notte e buona fortuna) prodotto, diretto e interpretato da George Clooney che ricostruisce, in affascinante bianco e nero, la battaglia condotta da un pugno di giornalisti della rete televisiva CBS contro la famigerata Commissione per le Attività Antiamericane e presieduta dal cacciatore di streghe senatore Joseph McCarthy. Siamo nel 1953, infuria la guerra fredda e il parlamentare del Wisconsin si è guadagnato la triste fama di persecutore di comunisti scovati in ogni angolo dell’amministrazione, della vita culturale e professionale americana. Basta aver versato qualche dollaro venti anni prima ad organizzazione di sinistra per essere imputato, messo all’indice e privato del lavoro. Contro questo si batté il giornalista televisivo Edward R. Murrow che, alla testa di una piccola equipe prese le difese di militari discriminati, segretarie incriminate, giornalisti indicati alla pubblica vergogna. Alla fine vinse, mentre il senatore finì tristemente la sua carriera accusato di malversazioni finanziarie. George Clooney ci racconta questa battaglia dall’intero del gruppo giornalistico, realizzando un film d’altissima qualità in cui la scelta di girare in poche stanze non scalfisce minimamente una tensione ed un ritmo perfetti e incalzanti. La sua è una lezione valida anche per l’oggi e una presa di campo lucida e coraggiosa. Manoel De Oliveira si muove in direzione diametralmente opposta. Fedele al suo stile raffinato, freddo e molto intellettuale racconta, in Espelho Magico (Lo specchio magico), i tormenti religiosi di una nobilsignora che sogna di parlare con la Madonna. Attorno a lei una piccola corte dei miracoli fatta d’ex-galeotti, falsari, giovin signore disposte ad assumere le vesti della Madre di Gesù in cambio di sostanziali ingaggi. Il film è affascinante, complesso, troppo ricco, eccessivamente dialogato e sembra quasi che l’ultranovantenne regista portoghese abbia voltato le spalle alla bella semplicità fantastica che segnava Un film parlato (2003) e persino Il quinto imperio (2004). Qui a dominare è la maniera, la fedeltà programmata ad uno stile che sembra ripetersi senza una vera ragione espressiva. Molto più realistico e intrigante All the Invisibile Children (Tutti i bambini invisibili), raccolta di sette racconti firmati da Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Katia Lund, Jordan e Ridley Scott, Stefano Veneruso e John Woo. Il tema è quello dei bambini maltrattati da società che li costringono ad imbracciare le armi giovanissimi, rubare, spacciare droga o a vivere miseramente. Gli episodi firmati da Emir Kusturica (un ragazzino che preferisce ritornare in riformatorio anziché vivere con un padre che lo picchia e costringe a rubare) e da Katia Lung (un bimbo e una bimba brasiliani che sopravvivono raccogliendo cartoni e lattine) sono toccanti, ben costruiti e valgono, da soli, più di molti lunghi racconti su questi stessi temi.
III giornata
Qualche volta anche i grandi si appisolano.
Tanto per complicare ancor più le cose già di per se ingarbugliate, la Mostra del cinema ha rispolverato un vecchio rituale quello del Film Sorpresa. Rituale consunto, visto che questa mattina entrando in sala tutti sapevano che si sarebbe trattato dell’ultimo film di Takeshi Kitano, intitolato, con non molta fantasia Takeshis’ (che potremmo tradurre I vari Takeshi). E’ una sorta di 8 e ½ felliniano in versione nipponica in cui il protagonista, lo stesso attore regista, recita un paio di parti: quella di uno sfigato che non riesce a trovare un ruolo e un regista - attore di grande successo. Sono i due aspetti di un’esistenza in cui la sorte decide capricciosamente chi precipita nei bassifondi e chi sale alle stelle, il tutto con un’aggiunta moraleggiante secondo cui quello più fortunato non è detto sia lo stesso a cui arride il successo. Lo si potrebbe anche vedere come una presa in giro dei film e degli sceneggiati stile yakuza, di cui questo regista è uno degli esponenti più significativi, o un’esplosione delle povere fantasie indotte dai programmi televisivi. Si potrebbe, questo e altro, ma ciò che appare con tutta evidenza è un sovraccarico d’intenzioni, immagini, sequenze disordinatamente montate e caoticamente collegate. Un film che oscilla fra un eccesso di presunzione e una totale mancanza di controllo della materia. Brokeback Mountain (La montagna di Brokeback) d’Ang Lee racconta una bella storia d’amore con l’originalità che i due amanti sono entrambi maschi ed esercitano il virile mestiere di cow boy e atleti di rodeo. Disteso su oltre quarant’anni, dal 1963 alla fine del secolo, segue gli appuntamenti che i due si danno, in grande segreto, poche volte l’anno. E’ un’opera da forte taglio classico, ovviamente pro gay e costruita con professionalità, ma senza troppa fantasia. Ha preso in via anche la ventesima edizione della Settimana Internazionale della Critica (SIC), riservata alle opere prime e seconde, ospitata nel programma della Mostra, ma gestita in modo totalmente autonomo dal Sindacato del Critici (SNCCI). Il film d’apertura viene dall’Irlanda, s’intitola Pavee Lackeen (La ragazza Pavve) e lo ha diretto Perry Ogden. E’ un’opera apparentemente semplice, in realtà ricca di suggestioni e significati di secondo livello. Il primo dato interessante, che rasenta il valore documentaristico, è nella scoperta di quest’ampia comunità marginale che vive accanto ad una grande città, quasi ignorandone regole e convenzioni. Il secondo elemento è nella commistione fra orgoglio ed emarginazione. La pelosa carità con cui funzionari pubblici tentano d’indurre la famiglia della ragazza ad abbandonare la zona in cui si è insediata, offrendo una sistemazione a parole migliore, in realtà dubbia, si accompagnano alla cocciuta e dignitosa decisione della madre di vivere la vita a suo modo. Un terzo fattore è nel ritratto di questa bimba che vuole disporre della sua vita in modo totalmente autonomo, ma non è indifferente al fascino e ai lustrini della società dei consumi. Un film che, sembra seguire le orme di Rosetta (1999) di Jean-Pierre e Luc Dardenne, ma che scava più sul versante del ritratto psicologico che non su quello sociale. Un ultimo dato positivo è nella fotografia, stilisticamente perfetta e formalmente raffinata, di un paesaggio fisico e sociale, diruto e degradato sino alla disperazione.
IV giornata
Per fortuna ci sono gli orientali.
Due film in concorso: una conferma e un’attesa (quasi) delusa. La scorsa stagione cinematografica è stato presentato un film che ha destato molte discussioni. Era Old Boy, del regista sudcoreano Park Chan – Wook, visto e premiato a Cannes 2004 suscitando polemiche per la violenza, visivamente quasi intollerabile, che lo percorreva. A Venezia si è vista l’ultima fatica di quest’autore, Simpathy for Lady Vengeance (Compassione per la Signora Vendetta), che già nel titolo rimanda ad un'altra opera di questo regista: Sympatthy for Mr. Vengeance (2002). Il filo rosso che percorre il suo lavoro è quello della vendetta per un gravissimo torto subito e le conseguenze di gesti riparatori che spesso sono crudeli quanto quelli commessi dai rei. In questo caso è una bella e giovane madre costretta ad accollarsi il rapimento e l’uccisione di un bimbo dal criminale che li ha commessi e che ora minaccia di uccidere la sua figlioletta. Esce dalla galera dopo tredici anni. Durante la detenzione ha assunto un aspetto angelico, che le ha permesso di giustiziare, senza essere scoperta, una lesbica violenta e punire varie altre soprafazioni a danno delle sue compagne di cella. Ora è alla ricerca del rapitore omicida che, nel frattempo, ha massacrato altri tre bambini. Scova il mostro e riunisce i parenti delle piccole vittime per una seduta di giustizia sommaria collettiva. Il tocco raffinato è nel fatto che i giustizieri si mostrano avidi e solo esteriormente addolorati per le gravi perdite, quindi appaiono non molto sopra la mancanza di morale dell’assassino. Il film equilibra molto bene una necessaria dose di violenza, con una riflessione raffinata, immagini affascinanti e una costruzione narrativa complessa ma funzionale al discorso. Quella di quest’autore è davvero grande cinema e conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, come sono gli orientali a mantenere alto il vessillo del cinema di qualità. Non ha convinto del tutto, invece, il molto atteso Les amants réguliers (Gli amanti costanti) in cui il francese Philippe Garrel ricostruisce le storie di un gruppo di giovani che si sono conosciuti nel 1968 sulle barricate del maggio francese e hanno preso, negli anni a venire, strade diverse: chi diventando un artista di successo, che annegando nella droga, che scegliendo la morte per lenire il dolore dei sogni sfumati. In poche parole un La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana in aurea più psicologica che sociale. Il film è molto lungo, dura quasi tre ore, ed è girato in bianco e nero con lunghe sequenze mute o quasi. Il mondo appare messo fuori delle quattro mura e dai letti in cui soggiornano i protagonisti e questa scelta eccessivamente intimista finisce per lasciare un senso d’insoddisfazione, specularmene simile a quello che lasciava l’eccessiva storicità della saga italiana. La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Brick (La roba) dell’americano Rian Johnson, una sorta di giallo ambientato in un campus universitario americano il cui senso principale sta in una commistione colta di genieri. Nulla di nuovo, ma un’originalità che nasce dal mescolamento, in dosi diverse, d’ingredienti già ampiamente noti. E’ una sorta d’operazione cinema -nel - cinema in cui il dato maggiore nasce dalla nuova forma che assumono ingredienti già ampiamente usati. Se si vuole spingere il concetto sino all’eccesso, si potrebbe affermare che è lo stesso principio che regola gran pare del cinema americano moderno con tanto di remake e sequel. In questo caso l’operazione è sapiente e la confezione d’ottimo livello.
V e VI giornata
Il fine settimana non porta bene.
Gli organizzatori dei festival sono usi inserire nei fine settimana le opere che ritengono più importanti o in grado che attrarre il maggior pubblico. La Mostra del Cinema ha messo in cartellone durante il week end, per quanto riguarda il concorso, quattro titoli, uno solo dei quali veramente degno di nota. Hanno deluso Terry Gilliam, il cui The Brothers Grimm (I fratelli Grimm) inanella, in chiave quasi horror, personaggi e situazioni tratte dalle fiabe dei due celebri scrittori. Non è andato meglio il francese Patrice Chéreau che ha trasferito sullo schermo il racconto di Joseph Conrad (1857 -1924) Il ritorno trasformandolo in un film (Gabrielle) cupo, dalle immagini buie e in cui il dramma di un ricco borghese tradito dalla moglie, che gli getta in faccia il suo non amore, diventa il pretesto per splendidi saggi di recitazione (Isabelle Huppert e Pascal Greggory), quasi persi in un vuoto tematico pressoché totale. Qualche cosa di simile avviene anche in Proof (Dimostrazione) di John Madden in cui la figlia di un famoso matematico, che da anni è preda della demenza, scopre la soluzione di un difficilissimo teorema, ma amante e sorella pensano che in realtà sia stato il padre a risolvere il problema. Gwyneth Paltrow dà il meglio di se, ma il film non va oltre un pregevole ritratto psicologico legato ad un difficile rapporto generazionale. L’unica vera, piacevole sorpresa l’ha dato Krzysztof Zanussi con Persona non grata. Il regista polacco, le cui ultime prove n’avevano alquanto appannato la fama, ritorna sul tema della morte e la fede, non trascurando uno sguardo sferzante e lucidissimo sui guasti morali suscitati dalla società al potere dopo la fine del comunismo. L’ambasciatore polacco in Uruguay rimane vedovo e ed è ossessionato dal dubbio che la moglie abbia avuto, anni prima, una relazione con un diplomatico russo, ora vice ministro degli esteri di quel paese. E’ un film psicologicamente profondo che riflette dolorosamente sullo scorrere degli anni, l’avvicinarsi della morte, il dolore incolmabile per la scomparsa della persona a cui si è legata la vita. Una fotografia netta ed efficacissima accompagna recitazioni di grande forza. Interessanti anche due film americani, presentati fuori concorso, che presto troveremo sugli schermi commerciali. Elizabethtown di Cameron Crowe è una commedia con sfumature nere che ruota attorno ad un progettista di scarpe la cui ultima invenzione sembra andare in contro ad un gigantesco fallimento. Quando sta per suicidarsi, riceve la notizia della morte del padre e deve partire per organizzarne i funerali. Fra una battuta e una situazione esilarante o demenziale incontra l’amore, ritorna in auge per l’improvviso successo della sua creatura e riacquista sorriso e fiducia. Una commedia in puro stile hollywoodiano, molto ben fatta e scorrevole. Stesse doti, ma girate sul versante della biografia drammatica, per Cinderella Man (L’uomo Cenerentola) che Ron Howard ha dedicato al pugile Jim Braddock che conquistò il titolo dei pesi massimi risalendo sul ring dopo essere precipitato in miseria durante la crisi del 1929. Bel testo spettacolare, ma modestamente interpretato e destinato ad un sicuro successo di cassetta. La settimana della Critica ha presentato Yadasht bar zamin (Tracce sulla terra) dell’iraniano Ali Mohammad Gasami, storia di un poveraccio che uccide i bambini, dopo che sua moglie ne ha partorito una bimba morta, convinto che sia stato Dio ad ordinarglielo. E’ un film incubico in cui è possibile leggere un vasto ventaglio di suggestioni. La prima è, sicuramente, quella del fanatismo religioso, ma non sono meno presenti il disagio e la disperazione per condizioni – umane e sociali – quasi insopportabili. Il pericolo è quello che la forma espressiva prenda il sopravvento sui materiali trasformando l’intera proposta in un esercizio di stile quasi del tutto staccato dai possibili significati. Spinge in questa direzione un’eccessiva insistenza sulla follia del protagonista in uno con l’uso esasperato di grandangoli e soggettive varie. L’abbandono del realismo tipico della maggior parte della cinematografia iraniana è un dato positivo, ma qui si ha come la sensazione di uno sbandamento in senso inverso.
VII giornata
Gli italiani iniziano male.
Dopo sei giorni di Mostra il programma ha presentato le prime avvisaglie italiane. Si è iniziato con Mary dell’americano Abel Ferrara alla cui produzione ha concorso anche un’azienda italiana. Questo regista è un autore di culto per una certa critica. Ha diretto un gran film, Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992, anche se da qualche tempo firma opere ben poco convincenti. Questa sua ultima fatica appare poco risolta e notevolmente confusa. Un’attrice chiamata ad interpretare il ruolo di Maria Maddalena in un film diretto e interpretato da un regista americano sicuramente anticonformista. È talmente sconvolta dalla prova, da rinunciare alla professione e si rifugia a Gerusalemme in meditazione interreligiosa. Nello stesso tempo, a New York, un famoso conduttore di programmi televisivi sta realizzando una serie di dibattiti sulla figura del Cristo. Troppo preso dal lavoro, trascura la moglie incinta che rischia di perdere il figlio, nato prematuro. Riflessione drammatica sul senso della vita e la fede con finale ottimista e salvataggio di madre e neonato. Il film è verboso e confuso, cadenzato da immagini quasi buie, com’è nelle predilezioni stilistiche di quest’autore. E’ molto più detto che visto ed è immerso in temi e riflessioni certamente particolari. I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza nasce da un romanzo d’Elena Ferrante e racconta di una moglie abbandonata dal marito che non riesce a darsi pace sino a rasentare la follia. La prima parte ha un tono e un ritmo abbastanza scorrevoli, ma poi perde forza e si affida ad una noiosissima voce fuori campo, di taglio eccessivamente letterario, che racconta ciò che, nonostante la stupenda interpretazione di Margherita Buy, le immagini non riescono a dire. C’è un po’ d’Italia anche in Romance & Cigarettes (Romanticismo e sigarette) di John Turturro, qui solo in veste di regista. L’opera alterna numeri di canto e ballo a scene realistiche per raccontare i triboli della moglie di un operaio italo – americano, inveterato puttaniere. La storia alterna momenti spassosi a fasi eccessivamente ripetitive. Inoltre, affida ai dialoghi gran parte della sua originalità stilistica, il che rendere difficile prevederne la riuscita su un pubblico che lo vedrà doppiato. Anche la Settimana Internazionale della Critica ha presentato un film italiano: Mater Natura di Massimo Andrei, una storia d’amore che ha per protagonisti gay e travestiti. E’ un film coloratissimo e volutamente originale, anche se i riferimenti ad opere precedenti - Roberta Torre, Antonio Captano, Pappi Corsicato e Nino d’Angelo - è avvertibile quasi dietro ogni fotogramma. Un altro riferimento è al teatro esagerato, melodrammatico e tragico – d’Annibale Ruccello e alle versioni, originalissime, di grandi classici come Filumena Maturano d’Eduardo. Il ponte verso il teatro indica il terreno culturale da cui nasce l’intera operazione: la napoletanità assunta come elemento di spettacolo entro una precisa tradizione che ha poco a che vedere con il folcloristico, anche vi scivolano alcune immagini stereotipate.
VIII giornata
I turisti non muoiono mai.
La Mostra sta quasi per chiudere i battenti ed è arrivato il primo bel film senza se e senza ma. Lo ha diretto il francese Laurent Cantet (Risorse umane, 2000 e A tempo pieno, 2001), s’intitola Vers le sud (Verso il sud) ed è tratto da tre racconti brevi di Dany Laferriére. Negli anni ottanta le spiagge di Haiti pullulano di turisti americani venuti a comprare, per pochi dollari, sole, mare e i corpi di giovani donne e prestanti ragazzi che si prostituiscono per qualche banconota. Ellen (Charlotte Rampling), Brenda (Karen Young) e Sue (Louise Portal) sono tre mature signore che partecipano a questo commercio. Le prestazioni del bel Legba, in particolare, sono apprezzate e contese fra Ellen e Brenda. Fuori, oltre i confini del villaggio turistico, dominano miseria, degradazione e il terrore scatenato dal terribile regime del dittatore Baby Doc (Jean-Claude Duvalier), i cui feroci scherani (TonTon Macoute) spadroneggiano su tutto e tutti. E' una realtà mostruosa che arriverà sin dentro il falso paradiso terrestre con l’uccisione del prestante gigolò, colpevole di essere amato da una delle favorite di un alto ufficiale. Il contatto con la realtà mette in crisi le tre donne, rovesciandone i caratteri. La più anziana, Ellen, che ha amato veramente l’ucciso, partirà per non più ritornare, mentre la non ancora cinquantenne Brenda inizierà un pellegrinaggio turistico ed erotico nei Caraibi. Come afferma cinicamente un poliziotto chiamato ad insabbiare l’omicidio: i turisti non muoiono mai. Il film ha il suo punto di forza in quest’inversione di prospettive, fra un dolore straziante che nasce dal realismo della mente e un approccio incoscientemente sentimentale, che cerca più una conferma alle proprie ansie che la conoscenza e il rispetto dell’altro. Il film è importante, girato con sapiente semplicità ed interpretato dalle tre signore con straordinaria abilità. Rilevante, anche se non perfetto, l’altro film in concorso: O Fatalista (Il fatalista) che il portoghese João Botelho ha tratto dal romanzo omonimo dello scrittore illuminista Denis Diderot (1713 – 1784). Gran parte dello spirito anticlericale e razionalista dell’opera è rimasto nel film in forma d’ironia. La storia è quella di un ricco signore e il suo autista che attraversano il Portogallo raccontandosi storia erotiche che, sullo schermo, prendono forma di piccoli racconti. Sono vicende che rovesciano la morale comune, sbeffeggiano i potenti e gli arroganti, rivalutano prostituzione, gioco, imbrogli a danno dei ricchi. Il film, girato con quasi nessun primo piano, recitazione fredda, inquadrature sapientemente costruite e volutamente statiche, promana un fascino innegabile accompagnato da un retrogusto da esercizio stilistico non privo di qualche cascame di maniera. Si è visto anche The Tim Burton’s Corpse Bride (La sposa cadavere di Tim Burton) in cui il regista dell’animazione sposa poesia e horror raccontando il matrimonio fra un vivente e una morta. L’abilità tecnica è sublime, l’originalità abbondante, la poesia inferiore a quella che sarebbe lecito attendersi. E' un’opera più per appassionati del genere che per tutto il pubblico. La Settimana Internazionale della Critica ha presentato un film francese: Le passager (Di passaggio) dell’attore e ora anche regista, Eric Caravaca. E’ il classico testo raffinato che il cinema francese ci regala con encomiabile frequenza. Sceneggiatura, fotografia, confezione sono di primo ordine. Meno interessante il tema – la memoria di un fratello suicida incombente come un macigno - che propone scelte intimiste e situazioni già viste. Un dato molto positivo, anche se non originalissimo, è l’uso di un paesaggio turistico colto nel letargo invernale, senza fellinismi, ma con autentica tristezza. E' un buon film che sarebbe perfetto se avesse un guizzo in più.
IX giornata
Alla fine arriva il dolce.
Il programma della Mostra macina gli ultimi titoli presentando le opere che, quantomeno a giudizio dei selezionatori, meritano la maggiore attenzione. Si sono visti, in particolare, due film diversissimi per stile ma uniti dalla scelta di rappresentare un ampio arco di grandi eventi storici filtrati attraverso le vicende personali dei protagonisti. Garpastum (nome di un gioco con la palla di cui si ha notizia sin dai tempi dell’antica Roma) del russo Alexey German jr. è ambientato negli anni che vanno dal 1914 al 1918, dallo scoppio della Prima Guerre Mondiale alla rivoluzione russa. Tutto questo è visto attraverso ciò che accade a due fratelli, fanatici del gioco del calcio. E’ questo un male di famiglia, visto che il loro padre aveva perso l’intero patrimonio scommettendo sulla squadra russa, che perse, nelle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, per ben 12 a 0 contro la rappresentativa tedesca. Mentre il mondo va in fiamme, imperi centenari crollano e le rivoluzioni si susseguono i due giovani e tre amici passano il tempo giocando a calcio per soldi. Il loro sogno è mettere assieme i rubli necessari a comprare un terreno su cui costruire un vero campo di calcio. Tutto attorno vivono vari personaggi minori che incarnano, anch’essi, esistenze spezzate da ciò che capita fuori. Il film è girato in un bianco e nero virato seppia secondo una tradizione espressiva consolidata della cinematografia leningradese, pardon sanpietroburghese. E' un'operazione interessante, anche se eccessivamente lunga e stilisticamente adagiata su un ritmo che soffre ripetizioni e lentezze. Changhen ge (Canto dell’eterno rimpianto) dell’hongkonghese Stanley Kwan segue la stessa strada del film russo, raccontando il percorso esistenziale di una donna di Shanghai, vincitrice di un concorso di bellezza nel 1987 e uccisa da un ex - amante nel 1981. E’ un lasso di tempo in cui si susseguono grandi eventi che vanno dalla fine dei traffici che pullulavano nella grande città alla presa del potere da parte dell’armata maoista, dalla Rivoluzione Culturale al matrimonio fra dirigismo politico e liberalismo economico sfrenato. Tutto avviene sullo sfondo, mentre sono le esistenze della protagonista, degli amici e dei compagni di vita a risultarne profondamente turbate e drammaticamente plasmate. E’ una grande quadro storico, ma è anche uno straordinario ritratto femminile e un ampio disegno della diaspora cinese vista dall’interno. Anche la Settimana Internazionale della Critica ha presentato un film cinese che segue, a grandi linee, il medesimo percorso. Kuihua Duoduo (I girasoli) di Wang Baomin racconta il ritorno al villaggio natale di un giovane che ha trascorso sei anni in prigione per aver stuprato una studentessa. Durante la sua assenza tutto è cambiato e le tre figure che spesso s’incontrano nello sviluppo del film – l'ex detenuto, il cantante di strada e il matto – rappresentano altrettante irregolarità di un sistema che mescola tradizionalismo, perbenismo e ricerca del successo economico. Il vero protagonista del film è una tensione sessuale diffusa e repressa che costituisce, pur nelle sue aberrazioni, l’unico dato umano di un mondo congelato nelle convenzioni e nelle convenienze. L’uso stesso del paesaggio - gli sterminati campi di girasoli che quasi simboleggiano un universo erotico teso, ma non soddisfatto - rientra in quest’immagine ad un tempo claustrofobia e rivoltosa. Si è visto anche il secondo film italiano in concorso: La bestia nel cuore che Cristina Comencini ha tratto da un suo romanzo. Una giovane doppiatrice convive con un attore chiamato ad interpretare una fortunata serie televisiva. E’ turbata nell’animo da qualche cosa che le è accaduto da bambina. Quando, grazie al fratello, da tempo emigrato negli Stati Uniti, scopre che il loro padre li molestava sessualmente, subisce un trauma che pensa risolutivo, anche perché, nel frattempo è rimasta incinta. Arriverà alla pace della coscienza solo dopo un travaglio difficile, che si accompagna a quello naturale, e in cui hanno ruolo anche un’amica cieca lesbica, una donna abbandonata dal marito che trova nell’amore saffico un sicuro porto e un regista che ha umiliato il suo genio lavorando a banali prodotti televisivi. Il film è ricco, troppo ricco di temi e personaggi e ruota attorno all’asse caro a questa regista: l’interno familiare visto come un inferno muto e straziante. E' troppo ingarbugliato per essere davvero un bel film, poco lineare per affrontare e risolvere un solo tema.
X giornata
Un giardiniere davvero tenace.
The Constant Gardner (Il giardiniere tenace) è il titolo del romanzo che John Le Carrè ha pubblicato nel 2001. Il brasiliano Fernando Meirelles (Cidade de deus, 2002) ne ha tratto un film dallo stesso titolo approdato nel concorso veneziano. La vicenda, ispirata ad un’attivista politica morta misteriosamente in Albania nel 1999, è spostata dallo scrittore in Kenia e racconta l’assassinio di una militante e del medico che l’aiuta. I due hanno scoperto che una multinazionale tedesco – canadese sta sperimentando, con la complicità interessata del governo britannico, un farmaco antitubercolosi che ha effetti collaterali che possono anche essere mortali. Il vedovo, un tranquillo funzionario d’ambasciata con la passione del giardinaggio, non si da pace finché, a prezzo della sua stessa vita, riesce a far esplodere lo scandalo. Il film ha un sovraccarico d’immagini quasi sperimentali e un taglio, in altre parti, documentaristico che non concordano né con l’essenza sostanziale dell’opera né con quella del romanzo. Sono peccati soprattutto veniali che non inquinano in modo irreparabile il bilancio di un’opera emozionante e civilmente potente. La passerella dei film in concorso è stata chiusa da La seconda notte di nozze di Pupi Avati. E’ uno di quei piccoli film che meglio riescono a quest’autore ed è sicuramente il miglior titolo della selezione italiana. Siamo nella seconda metà degli anni quaranta e la guerra è finita da poco lasciandosi alle spalle devastazioni e lutti. Una procace vedova e il figlio, ladro e imbroglione, lasciano Bologna per le Puglie, su un’auto rubata, per raggiungere un lontano cognato, mentalmente ingenuo, che possiede terre e lavora come sminatore. Nonostante l’ostilità delle voraci, vecchie zie s’installano nella villa di famiglia e la donna accetta, più per fame che per altro, di fidanzarsi con il fratello del defunto marito. Il giovane, irretito dal sogno di fare cinema, ruba una grossa somma costringendo il fidanzato della madre a rifonderla vendendo gli ori di famiglia. Finale aperto, con i due neoconiugi che s’infilano in letto per una seconda notte di nozze previsionalmente casta e il giovane malandrino che parte con un’improvvisata carovana di cinematografari. Il film è lieve nel tocco, straordinariamente interpretato da Antonio Albanese, mentre Katia Ricciarelli, alla prima prova cinematografica impegnativa, e Neri Marcorè, nel ruolo del giovin mascalzone, non vanno oltre la correttezza professionale. In conclusione un buon film medio, piacevole e ben costruito. Chiusura della sezione competitiva anche per la Settimana Internazionale della Critica con Asì (Così) del messicano Jesús-Mario Lozano. Il film oscilla fra L’educazione sentimentale (1869) di Gustave Flaubert e la rivisitazione di Jules et Jim (1962) di François Truffaut. Un’opera che affronta molte sfide: la costruzione dell’intero film su brevi sequenze di 32 secondi, il riferimento a testi importanti, la descrizione di un triangolo rovente, ma privo di morbosità. Molto materiale che è legato dal filo conduttore del passaggio dall’infanzia alla maturità e della conquista dell’esperienza come dominio del reale (le sequenze videofilmati e la rottura della telecamera). Forse un eccesso di simboli (le tartarughe che si agitano nella piccola vasca, l’amico cieco), ma un testo complessivamente interessante.
XI giornata
I premi ancora non ci sono, ma impazzano le previsioni.
Giornali, riviste testate varie snocciolano i loro favoriti, solitamente diversi dall’una o l’altra fonte. Unica costante i giornalisti delle reti RAI, compatti nell’esaltare i film di Cristina Comencini e Pupi Avati che, guarda caso, sono prodotti e distribuiti dalla stessa azienda che paga loro lo stipendio. Tutti chiacchierano di un premio all’Italia, che n’è priva da molti anni, ma le cose sono assai più complicate. Intanto, a nostro giudizio. I titoli migliori non battono bandiera nazionale, ma riguardano la Francia (Verso sud di Laurent Cantet), la Cina (Canto dell’eterno rimpianto di Stanley Kwan) e gli Stati Uniti (Buonanotte e buona fortuna di e con George Clooney). Persino il portoghese João Bothelo (Il fatalista) e il russo Aleksey German jr. (Garpastum) vantano titoli di maggiore originalità rispetto ai nostri concorrenti. Un altro argomento riguarda l’organizzazione e la struttura complessiva della mostra. Si è molto parlato delle nuove misure di controllo che hanno rasentato, in qualche caso, il ridicolo, come quando sono state riturate tutte le chiavi dei gabinetti, compresi quelli degli uffici interni, per non meglio precisate esigenze di sicurezza. I nuovi obblighi non hanno influito più di tanto nella mobilità di giornalisti e festivalieri, anche se l’impressione generale è stata quella di una forte riduzione dei partecipanti di tutte le categorie. Per quanto riguarda l’aspetto complessivo, la Mostra è parsa, ancor più che negli anni passati, una struttura eccessivamente governativa, sino a sfiorare la puzza di regime. Quasi assenti le personalità della cultura, c’è stata abbondanza di funzionari ministeriali, dirigenti televisivi, uomini politici di maggioranza e, in misura assai minore, d’opposizione. Non un bello spettacolo per una rassegna che vanta nel titolo d’essere d’arte cinematografica.
XII giornata
Tutto normale, anche i premi.
Con l’assegnazione dei premi, la 62ma edizione della Mostra D’arte cinematografica di Venezia è andata in archivio. Il complesso dei riconoscimenti si modella, senza grandi scostamenti, su quello che è stato l’andamento della manifestazione: un calendario di titoli di buona, ordinaria qualità senza alcuna vera punta d’eccellenza. Il Leone d’Oro è andato ad un autore, Ang Lee (Il banchetto di nozze, 1993 - Cavalcando col diavolo, 1999 - La tigre e il dragone, 2000), che partecipa a fondo della cultura cinese, versione Hong Kong, anche quando lavora per il cinema hollywoodiano (Hulk, 2003). Brokeback Mountain (2005) è un film solido, che ha il coraggio di affrontare due temi cruciali: l’omosessualità latente che serpeggia nella cultura e nel mondo western e la profonda miseria in cui vive parte della popolazione americana. E’ un’opera robusta, ben costruita, ma tutt’altro che originale da un punto di vista stilistico. Il discorso è simile nel caso di Goodnight, and Good Luck di e con George Clooney (migliore interpretazione a David Strathairn, Orsella d’oro per la sceneggiatura, premio della critica internazionale e dei giornalisti cinematografici italiani) in cui il coraggio civile e la forza della denuncia si reggono su una struttura stilistica raffinata, ma non nuova. Quella di Giovanna Mezzogiorno ne La bestia nel cuore di Cristina Comencini è stata giudicata la migliore interpretazione femminile, un riconoscimento che suona come una sorta di scusa verso l’intera selezione italiana, sorretta con forza, persino eccessiva, da Rai e Mediaset, ma non gradita, ancora una volta, dai giurati internazionali. Il premio Marcello Mastroianni, riservato a giovani attori, è andato a Menothy Cesar, il bell’haitiano concupito da mature signore in Verso il sud di Laurent Cantet. L’attore non ha potuto ritirare il premio perchè il governo del paese caraibico gli ha negato il visto d’uscita. Quando si dice che il cinema svela la realtà! Il Leone d’Argento a Philippe Garrel (Gli amanti costanti) ha il sapore di un omaggio al lontano passato di molti, cineasti e intellettuali, che hanno creduto nel joli mai e nella rivolta sessantottina. C’è poi il caso di Mary d’Abel Ferrara, produzione a metà italiana, che costituisce la vera sorpresa del palmares. Sono stati pochi i sostenitori di questo film, ma lo hanno fatto con grande convinzione. Chi scrive non è fra questi in quanto la storia del film su Maria Maddalena, della crisi della sua interprete, e delle ambasce dell’intervistatore televisivo che deve fare i conti con la possibile perdita del bimbo che sua moglie porta in grembo, è eccessivamente carica di simbolismi, non tutti limpidi. I premi collaterali sono stati moltissimi, tanto che è impossibile elencarli tutti. Questa edizione si è svolta all’insegna di un’aurea medietà. Il cartellone è stato senza infamia né eccessive lodi, cosa che non stupisce in tempi di crisi creativa del cinema a livello mondiale, come testimoniato anche dalle rassegne di Berlino e Cannes, poteva collocarsi solo a questo livello. E’ stato ordinario, nonostante gli allarmi suscitati alla vigilia dall’annuncio d’imponenti misure di sicurezza, anche lo svolgimento organizzativo che, se ha evitato gli errori dell’anno precedente, non ha neppure marcato grandi miglioramenti. L'impressione è quella di trovarsi al cospetto di una macchina che, anno dopo anno, sembra arrivata al massimo delle possibilità. In questa direzione un aiuto è venuto anche dal diradamento delle presenze: al momento in cui scriviamo non abbiamo dati ufficiali sul numero degli accrediti, ma l’impressione è stata quella di una loro visibile riduzione. La sola novità di rilievo è venuta dall’assegnazione di una sala specifica alla Settimana Internazionale della Critica (SIC) e alle Giornate degli Autori. Con questa decisione la Mostra si avvia a seguire, anche in questo campo, l’esempio di Cannes, ove ormai la Semaine de la Critique e la Quinzaine des Réalisateurs vivono vita propria. E' un attestato di stima o un tentativo d’aurea ghettizzazione? Solo le prossime edizioni e la forza delle organizzazioni dei critici e dei registi potranno rispondere a questa domanda.