Festival di San Sebastian 2005

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San Sebastian ha 53 anni e li dimostra

ImageLa cinquantatreesima edizione del Festival di San Sebastian ha presentato un programma medio e deludente. Sulla scia di quanto capitato a Berlino Cannes e Venezia, in quest’anno cinematograficamente poco fortunato, nessuno fra i titoli in cartellone ha brillato per originalità o genialità autentiche. Pochi sono scivolati sotto la soglia della decenza estetica, ma nessuno si è importo come opera veramente memorabile. Ha vinto un pregevole film ceco, Stesti (Qualche cosa di simile alla felicità) di Bohdam Sláma, ritratto amarissimo della vita proletaria dopo la caduta del regime. In una periferia in completo stato d’abbandono donne, uomini, ragazzi e ragazze passano le ore fra le poche soddisfazioni concesse dai magri stipendi, l’abuso d’alcol e spinelli. Chi tenta di risalire la china, comportandosi umanamente nei confronti dei bimbi abbandonati da una donna alcolizzata, innamorata perdutamente di un bellimbusto con moglie e figli, subisce delusioni cocenti.
E’ un’opera dal taglio quasi neorealista, ben costruita, anche se una maggiore concentrazione e alcuni tagli, in particolare nel finale, avrebbero giovato al bilancio dell'opera. Il ritratto è quasi documentaristico, la macchina da presa segue freddamente i protagonisti anche nei momenti più drammatici o negli eccessi più violenti. Ben scritto, ma né originale né straordinario. Quest’opera ha ottenuto il primo premio e quello per la migliore interpretazione femminile (Ana Geislerova), altrettanti riconoscimenti, conchiglia d’argento e migliore fotografia, sono andati a Xiang ri kui (Girasoli) del cinese Zhang Yang, da non confondere col testo omonimo firmato da Wang Baomin e presentato dalla Settimana della Critica di Venezia. Siamo nei paraggi della nuova ondata di quella cinematografia che potremmo definire pacificata con il mondo e la realtà del paese. La storia si dipana quasi interamente a livello di sentimenti e situazioni sentimentali e ruota attorno ad una famiglia povera di Pechino negli anni che vanno dal 1967 al 1999. Sullo sfondo scorrono grandi eventi: la rivoluzione culturale, la fine del maoismo di sinistra, la nascita del nuovo regime, iperliberista in economia e ferocemente autoritario in politica. Tutto è focalizzato su un padre autoritario, integerrimo e vittima della rivoluzione culturale, che fa il vuoto sentimentale attorno a se, gelando i sogni del figlio e della moglie. La terribile complessità del quadro sociale rimane costantemente fuori dello schermo, impedendo all’opera di assumere un ruolo metaforico d’ampio respiro. In altre parole rimaniamo rinchiusi entro le quattro mura domestiche e nelle menti e nei nervi dei protagonisti. Altri tre riconoscimenti, fra i principali, sono andati a Iluminados por el fuego (Illuminati dal fuoco) dell’argentino Tristán Bauer (premio speciale della giuria), 7 vírgenes (7 vergini) dello spagnolo Alberto Rodríguez (migliore interpretazione maschile a Juan J. Ballista) e Sommer vorm Balkon (Estate a Berlino) del tedesco Andreas Dresen (migliore sceneggiatura). Il lavoro di Tristán Bauer si è segnalato come il più interessante per quanto riguarda le opere d’area linguistica spagnola. Vi si racconta il dramma della guerra delle Malvine – Falkland, scatenata nel 1982 dalla giunta golpista del generale Galtieri con l’occupazione del piccolo possedimento inglese nell’antartico scatenando il primo ministro Margaret Thatcher che non perse l’occasione per farne una cavallo di battaglia dell’orgoglio britannico. Costretti a fronteggiare un vero esercito, ben armato e ottimamente addestrato, i fantaccini argentini impreparati, stremati dal gelo e con armi del tutto inadeguate, resistettero poche settimane prima di arrendersi. Il trauma causò il crollo della dittatura militare e il lento avvio di una nuova fase democratica. Tutto questo ritorna nel film in forma di ricordi di un ex – combattente che sta assistendo alle ultime ore di un commilitone che, a vent’anni di distanza, ha tentato di uccidersi. Migliaia reduci hanno seguito quella stessa strada, creando una vera e propria sindrome del reduce, similmente a quanto accaduto per il Viet Nam e molte altre guerre. La parte attuale, il reduce che veglia l’amico in coma, lega male la visualizzazione dei ricordi bellici. Questi ultimi hanno il pregio di restituire, con mezzi abbastanza limitati, l’orrore della guerra, la stupidità boriosa dei militari, il totale squilibrio di forze fra i contendenti. Il regista lavora queste scene come si trattasse di un documentario d’epoca in cui inserisce alla perfezione autentici brani di cinettualità. La storia dell’oggi, invece, appare poco più di un pretesto, per giunta banale, per tenere assieme un film il cui centro d’azione denuncia l’oblio, la voglia di rimozione, lo scarico delle coscienze. Certo, anche in questo caso gli elementi d’autentica novità sono pochi, i riferimenti molti, ad iniziare dal lontano All Quiet on the Western Front (All’ovest niente di nuovo, 1930) di Lewis Milestone. 7 vergini d’Alberto Rodríguez mescola temi pasoliniani, ricordi di film americani sull’amicizia, storie di bande e altro in un minestrone abbastanza indigesto.