Antalya Film Festival 2009

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Antalya Film Festival 2009
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Conclusioni
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Sito del Festival: http://www.altinportakal.org.tr/

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Il Festival Internazionale del film è arrivato alla 46ma edizione dopo un travaglio seguito alla sconfitta elettorale del sindaco espresso dal partito religioso e l’arrivo di un nuovo primo cittadino appartenente al partito conservatore kemalista. La prima conseguenza di questo cambiamento, in Turchia i festival di cinema hanno un legame molto stretto con la politica, è stato il licenziamento del gruppo che aveva condotto la manifestazione negli anni precedente segnalandosi per le mire hollywoodiane e, in qual che caso, ridicole. Altra conseguenza è stata il taglio dei finanziamenti ministeriali, il governo è guidato dal partito religioso, e un notevole dimagrimento del bilancio. Nuovo direttore è stato nominato, con un contratto quinquennale, Vecdı Sayar che ha dovuto metter su in pochissimi mesi una macchina complessa. Ha puntato molto sui film nazionali, per cui varrà la pena seguire con attenzione questa parte del programma. Iniziamo dunque parlando proprio di queste opere.

 

Amore in un'altra lingua
Amore in un'altra lingua

 

Başka dilde aşk (Amore in un'altra lingua) di Ilksen Bașarir è una bella storia d'amore fra una ragazza moderna e attiva, guida le proteste sindacali nel call center in cui lavora, e un giovane sordomuto. Dapprima i due incontrano qualche difficoltà a comprendersi, non solo materialmente, ma anche per i differenti mondi in cui vivono. Poi, le cose si aggiustano e la storia si conclude con un lieto fine. Il film non è nuovo, né dal punto di vista stilistico, né da quello dei temi affrontati, ma ha il pregio di raccontare bene un storia già narrata mille volte, ma che riesce ad avere un sapore nuovo. I due interpreti sono molto bravi e la regia, come sii suol dire, non si vede e questo è il miglior complimento che si possa bare ad un autore esordiente. Nulla di nuovo sotto il sole ma raccontato con gusto e misura.

 

Bornova, Bornova
Bornova, Bornova

 

Bornova, Bornova di Inan Temeklkuran richiama sin dal titolo un quartiere popolare di Smirne. Qui vivono, meglio sopravvivono, un gruppo di giovani e adulti profondamente segnati nel morale dalle devastazioni psicologiche innestate dal colpo di stato militare del settembre 1982 che impose al paese tra anni di dittatura. Una situazione di costrizione che ha svuotato queste persone di qualsiasi pulsione etica, sopravvivono alla meno peggio fra piccoli traffici illeciti, lavori umili e improvvisi scoppi di violenza e proprio uno di questi fatti, apparentemente banali (un tentativo di stupro non andato in porto per la mancata erezione del violentatore) ad innescare un omicidio ricercato quasi a freddo e mai punito visto chela polizia se ne disinteressa del tutto essendo avvenuto in un ambiente e su un individuo marginale. E' il ritratto, lucido e freddo di una decadenza, culturale prima ancora che materiale, che sena un'intera generazione e rischia di contaminare anche quelle future. Raramente si era visto un ritratto più freddo e straziante di un lunpenproletariat, per dirla con Marx, dai connotati che vanno ben oltre la Turchia e le sue vicende interne, In questo il film si fa apprezzare come un discorso che ci riguarda da vicino.

 


 

 

Il rosario sbagliato
Il rosario sbagliato

 

Il titolo più interessante visto sinora è stato: Uzak İhtimal (Il rosario sbagliato) di Mahmut Fazil Coşkun. Un giovane muezzin è assegnato alla moschea del quartiere di Galata, a Istanbul. Va ad abitare in un appartamento della comunità e scopre di avere come vicina di casa una giovane che sta assistendo un’anziana suora. Il fascino della grande città, le pulsioni dell’età, la grazia della ragazza lo fanno innamorare della quasi – religiosa, per giunta cattolica. E’ un film tenue, interpretato magistralmente da Görkem Yeltan e Nadir Sarıbacak; un piccolo film, delicato nella descrizione dei sentimenti, preciso nella costruzione delle psicologie e negli ambienti, in sostanza un quadro malinconico delle barriere religiose che separano gli esseri umani, ne costringono i sentimenti, umiliano la vita. Un testo veramente interessante per quanto concerne le possibili nuove strade del cinema di questo paese.

 

Il chiosco di papà
Il chiosco di papà

 

Ben poco di nuovo, invece, in Babam Büfe (Il chiosco di papà) di Meriç Demiray storia di un portiere alcolizzato e piuttosto irresponsabile che si fa trascinate in una serie di truffe televisive: lui e un operatore compiacente simulano scene di piccoli crimini e le vendono a una grande emittente. Quando il raggiro e scoperto e, per giunta, il tipo è licenziato non resta che filmare il proprio suicidio per consentire al figlio di vendere le immagini e, con il ricavato, comprarsi un negozietto, la cui insegna, appunto, è Il chiosco di papà. L’intenzione è radiografare il dramma dei poveri e la mancanza di ogni possibilità di riscatto, purtroppo il film tende piuttosto al bozzettismo e alla commediola di piccolo calibro senza mai raggiungere il patos necessario a trasformare il film in un ritratto amaro del vivere di milioni di persone. Alcuni momenti, come la registrazione dei falsi furti, sono abbastanza godibili, ma non vanno oltre la piacevolezza momentanea mentre lo sviluppo della storia zoppica alquanto.

 

La pianista
La pianista

 

Le cose sono andate ancora peggio con Deli deli olama (La pianista) di Murat Saraçoglu. E’ un film che richiama al vecchio filone del cinema di campagna che ebbe tanto successo negli anni cinquanta e da cui il grande Yilmaz Güney prese spunto per rivoluzionare dall’interno l’intero cinema turco. Purtroppo in questo caso, nonostante l’interpretazione di Tarik Akan, che fu già protagonista dell’indimenticato guneyano Sürü (Il gregge), il film naviga a vele spiegate verso il melodramma strappacuore mettendo in scena l’amore mancato fra una bella paesana e un giovane appartenente alla minoranza turca stabilita nei confini dell’Unione Sovietica. Quando lui ritorna nel paese dopo molti anni, vecchi e ammalato, lei lo disprezza e cerca in ogni modo di emarginarlo. Grazie al genio di una sua nipote musicalmente dotata che l’anziano adotta quasi come una parente, i due si riconcilieranno, purtroppo sul letto di morte dell’uomo. Storia improbabile per un film meno che modesto.

 



 

 

Cinque città
Cinque città

 

Bes sehir (Cinque città) di Onur Ünlü è un mosaico di varie storie che, nel finale, s’intersecano. Si parte con il giovane provinciale venuto a Istanbul per indossare l’uniforme di poliziotto. Solo e privo di amicizia, s’innamora di una commessa che segue in modo ossessivo, finendo col dover fare i conti con il fidanzato della ragazza. Picchia e uccide una giovane durante gli scontri con gli studenti che stanno protestando contro la guerra in Iraq. Poco dopo perde un braccio per un attentato terrorista. Un ragazzino, ammalato terminale di cancro, invidia il compagno che tiene per mano una ragazzina e partecipa a un concorso di ballo riservato alle scuole. Per occuparne il posto lo lascia morire travolto da un treno, poi partecipa al concorso, commette un grave errore che compromette l’intera scuola e muore. Il suo maestro uccide la moglie del fratello, ammalata grave, ritorna al villaggio Natale e si uccide. Un giovane poeta vende trenini per vivere, ama una ragazza, anche lei ammalata terminale, che non gradisce le sue attenzioni. Ha come unico compagno un gatto parlante ed è preda di una profonda disperazione che lo porta a giocare, ogni mattina, alla roulette russa. Queste strane figure, felino di grandi dimensioni compreso, s’incontrano, vivono il loro dolore, vedono naufragare ogni speranza, si uccidono. E’ un tessuto molto ricco che il regista non sempre controlla nella dovuta maniera. Ci sono momenti, in generale quelli in cui risalta maggiormente il realismo psicologico, pregevoli e parti in cui il cineasta si fa prendere la mano dal surreale o si lascia invischiare situazioni fra il patetico e il melodrammatico. Nel complesso è un film non del tutto riuscito ma pregevole per intenzione narrativa e ampi sprazzi d’originalità.

 

Sulla strada della scuola
Sulla strada della scuola

 

Iki dil bir bavul (Sulla strada della scuola) di Orhan Eskiköy e Özgür Dogan è un falso documentario su un anno di scuola in uno sperduto villaggio in cui giovane maestro è mandato a insegnare a ragazzi che parlano solo curdo. Lui fa ogni sforzo per instillare loro il turco con esiti fra il comico e il fallimentare. Alla sua partenza, per le vacanze estive, i ragazzi ritornano a giocare spensierati e a parlare la loro lingua. Per capire sino in fondo questo film bisogna ricordare che, sino a pochi anni or sono, il governo aveva proibito l’uso della lingua curda a qualsiasi livello. Tanto che una giovane deputata che osò far seguire al giuramento alla Repubblica alcune frasi in quella lingua fu condannata a vari anni di carcere. Sotto quest’aspetto il film irride i formalismi governativi e mette in luce la semplicità e la forza vitale dei ragazzi. La cosa che più impressiona, tuttavia è il ritratto delle condizioni miserevoli in cui vivono queste genti, fra estati assolate e inverni freddissimi. Sembra quasi un reportage sulle popolazioni primitive dell’Amazzonia o dell’Australia, invece è la fotografia di quanto accade a poche migliaia di chilometri dalle luci della ricca Europa.

 


 

 

Cosmo
Cosmo

 

Reha Erden è uno dei registi dı punta della nuova generazıone turca. Il suo mondo è fortemente ınfluenzato, da un punto dı vısta vısıvo, dal lavoro dı Theo Angelopoulos e Wong Kar Waı e, sul versante tematico, dalla spırıtualıtà del Wım Wenders de Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987). Legami che risaltano anche nella sua ultıma fatıca: Kosmos. Nella città turca dı Kars, al confine con l’Armenia, arriva, in pieno inverno, uno strano personaggio che sorge correndo da un deserto di neve. E’ un giovane che disprezza il denaro, vive di te e zucchero e ha la facoltà di salvare gli ammalati assorgendo su di sé i loro mali. Appena giunto è accolto con simpatia e amicizia, poiché ha appena salvato un bimbo che stava per annegare in un fiume gelido e impetuoso. A poco a poco i sentimenti favorevoli si trasformano in ripulsa: lui è uno straniero e come tale va respinto. Qualche remora sorge quando gli lasciano fare qualche vero discorso - parla utilizzando frasi tratte dai testi sacri - o quando guarisce un asmatico. Alla fine la diffidenza trionfa e tutti gli si rivoltano contro, accusandolo di essere responsabile della morte di un ragazzo che, invece, aveva sottratto, per un attimo, a una condizione di rabbia cupa. Nel finale lo vediamo fuggire compiendo, in senso inverso, il percorso che aveva fatto all’inizio. Il discorso del regista non è sempre chiaro. Si comprende la denuncia dell’indifferenza degli uomini, della ferocia fra loro e verso gli animali - tutto il racconto è accompagnato da suoni di guerra e da immagini di bovini uccisi in un mattatoio - ma, nel complesso, il film eccede in lunghezza e materia affrontata. Intendiamoci, l’'occhio e la mano del cineasta di razza ci sono tutti, ma è l'’organizzazione complessiva, per non dire la sintesi del discorso, a presentare qualche slabbratura. In ogni caso è un esempio di vero cinema e la conferma del valore di un autore di riguardo.

Senza ombre
Senza ombre

Gölgesizler (Senza ombre) di Umit Unal sposa il classico genere di campagna ad una struttura più complessa. In un piccolo villaggio scompare una ragazza e subito un giovane marginale è accusato del delitto. Le cose vanno ancor peggio quando è proprio lui a ritrovarla, violata e sanguinante. Poco manca che non si faccia subito giustizia sommaria ma ogni cosa precipita quando la donna partorisce un essere mezzo uomo e mezzo orso, frutto dell‘amplesso con l‘animale che l‘aveva rapita. Raccontata così la storia, sembra lineare e semplice, sennonché il regista mescola i tempi, la fa raccontare oggi in un negozio di barbiere a Istanbul, mentre i fatti dovrebbero essere accaduti anni prima. Nelle ultime inquadrature scopriamo che, forse, si è trattato solo dell’immaginazione di uno scrittore. In poche parole un tessuto non meno ingarbugliato di quello del film precedente, ma senza una chiara idea di cinema o la voglia di raccontare una storia in modo originale e con gusto preciso per le immagini e l’assemblamento delle sequenze.


 

Cani neri abbaianti
Cani neri abbaianti

 

Kara köpekler havlariken (Cani neri abbaianti) di Mehmet Bahadir Er e Maryna Gorbach è un classico film sulla violenza e l’ingiustizia della società nei confronti di quanti, in primo luogo i giovani, vorrebbero costruirsi un’esistenza normale. Un uomo onesto sta per essere assunto come responsabile della sorveglianza in un grande magazzino, ma deve fare i conti sia con il padrino che governa il quartiere, che ha riservato per lui altri compiti, sia con l’attuale incaricato di quel lavoro, che non ha nessuna intenzione di mollare l’osso, tanto che arriva sino a uccidergli la fidanzata. Lui soccomberà tentando di difenderla e stessa sorte toccherà a un amico che si era schierato al suo fianco. Molto pessimismo, ma anche un bel po’ di maniera.

 

Davanti ai miei occhi
Davanti ai miei occhi

 

Gözlerimin Önünde (Davanti ai miei occhi) di Miraz Bezar è uno di quei film che non aggiungono nulla al cinema, ma che si devono fare perché hanno un valore politico e simbolico ben maggiore di ogni componente estetica. A Diyarbakır, capitale del Curdistan turco (parola proibita da queste parti), due bimbi rimangono soli dopo che i genitori sono stati ammazzati dalla polizia in una vera e propria imboscata e una zia è stata imprigionata e torturata. Non resta loro che vivere per strada, vendendo fazzoletti e accendini, mangiare quando possono e affidarsi alla carità, pelosa, degli adulti. Tale è quella di una giovane prostituta che prende sotto le sue ali, la bambina, forse con mire sul suo futuro, usandola come scudo contro aggressioni e polizia. La bimba, lavorando con la meretrice, incontra uno dei poliziotti che hanno assassinato i suoi e, assieme ad altri piccoli amici, lo sputtana nel quartiere in cui vive affiggendo manifesti che lo denunciano come assassino e torturatore. Piccola vendetta, poiché per i due bimbi non ci sono altre vie d’uscita se non farsi trasportare a Istanbul, città in cui, lo s’intuisce, avranno una vita ancor più dura e dovranno far fronte violenze ancora più crudeli. E’ un film disperato, costruito con taglio neorealista, poco originale nel linguaggio, ma molto coraggioso e commuovente. Per capre questo giudizio si tenga conto che in Turchia la questione curda è tuttora dolorante e aperta, al punto che nessuno parla apertamente di questo popolo preferendo far ricorso all’ipocrita parafrasi: turchi del sud.


 

Dalle 10 alle 11
Dalle 10 alle 11

 

11’ e 10 kala (Dalle 10 alle 11) di Pelin Esmer è un bel ritratto della solitudine di un anziano collezionista che vive in un grande appartamento di un immobile vetusto. Dal 1950 raccoglie minuziosamente tutto ciò che ha attraversato la sua esistenza: giornali, oggetti rigorosamente etichettati, registrazioni di trasmissioni radio, piccole cose dalla vita di tutti i giorni. Ha riempito l’appartamento sino all’inverosimile, suscitando le ire dei vicini che temono crolli e incendi, anche se lui, ingegnere elettronico, ha fatto calcolare la portata del peso che ogni metro quadrato del pavimento può sopportare. L’unico con cui ha un rapporto normale è il portiere che gli fa piccole commissioni e lentamente lo deruba di alcuni libri e oggetti di valore sommersi da quest’enorme ammasso carte. Le cose precipitano quando una società immobiliare mette gli occhi sul terreno su cui sorge la vecchia casa, compera tutti gli appartamenti, tranne quello dell’anziano che tenta di sfrattare con ogni pretesto. Alla fine anche il portinaio andrà, via verso un impiego pubblico, ma gli lascerà l’introvabile undicesimo volume dell’enciclopedia di Istanbul, che il vecchio aveva cercato per tutta la vita e che l’ex- portinaio ha rubato all’antiquario cui ha venduto i libri e gli oggetti sottratti al collezionista. Racconta in questo modo sembra una piccola storia ed è merito del regista averla mantenuta in questi termini, nello stesso tempo riempiendola di significati di secondo livello che vanno dal rapporto fra le generazioni, alla messa in discussione dei legami fra memoria e denaro, alle riflessioni sulla modernità. E un film lineare e denso di significati, semplice nella costruzione, ma di grande ricchezza.

 

40
40

 

Anche 40 di Emre Sahin è un testo a suo modo sorprendente, ma lo è in senso negativo. Il film racconta l’ennesima storia di un bottino che passa di mano in mano accompagnato da uccisioni, torture, delusioni e speranze, per finire nelle mani di una banda di bambini poveri dopo che tutti i precedenti protagonisti sono morti, rientrati nell‘ordine o emigrati. Una storia banale ammantata di modernità linguistica videoclippara con tanto di zoom improvvisi, salti narrativi, inquadrature inconsuete, ritmo forsennato. Il regista ha un’esperienza pubblicitaria acquisita negli Stati Uniti e la cosa si vede in ogni inquadratura. In poche parole un film che riveste con un florilegio di fuochi d’artificio un racconto banale e ben poco originale.

 

Invidia
Invidia

 

Kiskanmak (Invidia), ultima fatica di Zeki Demirkubuz, era particolarmente atteso e non ha deluso. Il regista conferma la sua passione per la grande letteratura, in particolare per Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881) il cui Delitto e castigo (Prestuplenie i nakazanie, 1866) compare più volte fra le mani della protagonista del film. Lo spunto, questa volta, viene da un classico della letteratura turca: 1930 di Nahit Sirri Örik (1985 - 1960) in cui si racconta l’amara vendetta che Seniha compie nei confronti del fratello e della cognata. La donna ha amato, quando era giovane, un ragazzo che l’ha abbandonata lasciandola alle cure pelose e autoritarie dei familiari. Suo fratello, in particolare, si è distinto per comandi e restrizioni. Ora lui lavora come ingegnere minerario a Zanguldak, una città situata nel nord della Turchia, in cui ha trascinato la giovane moglie Mükerrem e sorella. Durante una festa per la celebrazione della repubblica, siamo nel 1930, Mükerrem inizia una relazione con il figlio del maggiorente locale, tresca che si trasforma presto in torrida passione da parte della donna. Seniha scopre l’adulterio e lo usa per istigare il fratello, che uccide il rivale e subisce una pesante condanna. In questo modo lei consuma una doppia vendetta: verso il parente autoritario e la cognata giovane e bella. Solo che ora le resta, e rimarrà per il resto della vita, l’invidia per chi ha conosciuto e praticato un amore pieno e passionale. Il film raduna tutti i temi tipici di quest’autore: la letterarietà, l’accuratezza nelle ricostruzioni ambientali, il gusto per lo scandaglio psicologico, la diffidenza verso le donne, la capacità di tradurre storie apparentemente personali e non prive di spunti melodrammatici in ritratti di epoche, costumi e mentalità ben precise. E’ un film solido costruito in maniera impeccabile, di grande complessità. Forse il testo migliore di quest’autore, sicuramente il più bel film visto al festival.

 


 

 

Theo Angelopoulos
Theo Angelopoulos

 

Il festival ha chiuso i battenti con una bella sorpresa: l’incontro fra Theo Angelopoulos e Citto Maselli che, dopo la proiezione dei rispettivi ultimi film - La polvere del tempo (I skoni tou chronou, 2008) e Le ombre rosse - hanno dialogato a lungo con il pubblico, per la verità, più che sulle opere appena viste di politica e filosofia della storia. Sin dalle prime dichiarazioni si sono viste affinità e differenze, per il regista greco il sentimento oggi dominante è la malinconia che sorge dal vedere il mondo segnato da una condizione di feroce individualismo e mancanza culturale. Negli anni sessanta, ha detto, quando vivevo a Parigi, in una situazione economicamente molto difficile le strade cantavano, la gente leggeva, si guardava, aiutava, confrontava, amava. Oggi ciascuno pensa solo a se stesso e abbiamo totalmente perso la capacità, come ricorda Platone, di capirci guardandoci negli occhi degli altri. L’opinione di Maselli tende, invece, più verso la tragedia, un tragico che nasce dalla constatazione degli errori enormi commessi dalla sinistra europea. Entrambi, poi, hanno convenuto sul fatto che la storia non è finita, ma che ci troviamo nel punto più basso di una spirale di cui non si vede la fine - Theo Angelopoulos - che, forse, preclude ogni speranza di riscatto alla generazione che ha superato i sessant’anni e ha creduto nell’impegno e degli ideali. Citto Maselli ha tenuto a segnare come il finale del suo film, con le due donne che cercano un rudere in cui impiantare un nuovo centro sociale, ha il valore di un filo di speranza, forse solo testimoniale ma ancora viva. Giudizio unanime, poi, sul fatto che ogni vero regista realizza sempre lo stesso film, un filo conduttore speso facilmente individuabile sin dall’opera prima o seconda. Poi, il lavoro che segue, rappresenta solo una serie di variazioni sul quel tema. E’ stato chiesto a Theo Angelopoulos perché parli solo della Grecia. Il regista ha risposto, con una vena di risentimento, che i suoi film non hanno confini, riguardano il mondo intero, parlano di tutti gli uomini e non solo dei greci. Per rafforzare l’argomento ha ricordato come, anni or sono, visitando il museo dedicato alla tragedia atomica a Hiroshima si sia trovato davanti ad un anziano giapponese che aveva appena visto La recita (O thiasos, 1975), e che gli disse, fra le lacrime, che quel film era lo specchio della sua vita. Una cosa del tutto simile gli capitò a Toronto, a una proiezione da cui l’ambasciatore greco era uscito indignato dopo pochi minuti. Andando al bar incontrò un portoghese che gli disse la stessa cosa del giapponese. Questo vuol dire, ha concluso, che i miei film non riguardano solo i greci.

 

Francesco Maselli
Francesco Maselli

 

Da parte sua Citto Maselli ha ricordato di aver raccontato il progetto di Le ombre rosse a Ken Loach, il quale gli disse che era un film da fare assolutamente, ma da costruire in modo che fosse comprensibile dall’Australia al Canada. Un’altra domanda ha riguardato il ruolo della musica. Theo Angelopoulos ne ha sottolineato l’importanza, citando il suo rapporto con Eleni Karaindrou che lui considera un vero e proprio alter ego al punto che lei non legge la sceneggiatura, né vede le immagini, ma gli chiede di raccontargli il film, poi, ascoltando la registrazione delle sue parole, inizia a comporre. Anche Citto Maselli ha ricordato di avere una musicista preferita, Giovanna Marini, con cui ha una grande sintonia. Sempre a proposito di musica, il cineasta greco ha detto di detestarne l’uso hollywoodiano che la vede utilizzata solo per sottolineare e rafforzare il pathos delle immagini o creare un ritmo narrativo carente. A questo proposito ha invitato il pubblico a fare un esperimento: prendere un qualunque film di John Ford e guardarlo senza audio, si scoprirà quanto è lento e che solo la musica gli conferisce un certo ritmo. È stato chiesto a Francesco Maselli la ragione per cui ha preferito fare film sulle sconfitte della sinistra (Lettera aperta a un giornale della sera, 1970, Il sospetto, 1975 e Le ombre rosse, 2009) anziché magnificarne le vittorie. Il cineasta italiano ha risposto che il compito degli intellettuali e dei creatori è soprattutto quello di porre domande e non avanzare incitamenti, per cui è assai più utile invitare alla riflessione sugli errori che esaltare i fatti positivi. Finale con nuova riflessione sulla storia che, non è per nulla finita, neppure per questi cineasti, poiché Theo Angelopoulos è già a buon punto della lavorazione dell’ultimo episodio della trilogia sulla storia aperta da La sorgente del fiume (Trilogia: To livadi pou dakryzei, 2004) e proseguita con La polvere del tempo, mentre Citto Maselli non ha alcuna intenzione di mettersi da parte né come cineasta, né come militante.

 


 

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Conclusioni

La 46ma edizione del Festival di Antalya presenta un bilancio positivo, questo se si considera, in particolare il pochissimo tempo che il nuovo direttore, Vecdi Sayar, ha avuto a disposizione per preparare la manifestazione. Come di consueto non sono mancati i disguidi, alcuni anche gravi come la presentazione di un paio di titoli turchi privi di sottotitoli, ma nel complesso si è trattato di magagne trascurabili. Ciò che è cambiato in modo deciso è stato il clima complessivo, meno hollywoodiano che in passato e più dedicato al cinema e ai suoi problemi. Non a caso ci sono stati moltissimi convegni cui hanno partecipato anche ospiti stranieri, uno per tutti il nostro Francesco Maselli. Discussioni nel cui corso sono stati affrontati temi legati al futuro del cinema nazionale e di quello mondiale. E’ una strada proficua, su cui converrà insistere nelle prossime edizioni. La sezione internazionale ha allineato vari titoli pregevoli, molti dei quali stanno per essere distribuiti in Turchia ma, con il poco tempo a disposizione, il direttore ha firmato il contratto solo alla fine di maggio, non si poteva fare di più. In poche parole è stato un inizio promettente che ha individuato alcune linee di lavoro che, se mantenute, potranno dare, in futuro, risultati ancor più positivi.

 


 

 

Bornova Bornova
Bornova Bornova

 

I premi

Film narrativi turchi:
Miglior film: Bornova Bornova di Inan Temeklkuran e Kosmos (Cosmo) di Reha Erdem.
Miglior opera prima: İki Dil Bir Bavul (Sulla strada della scuola) di Orhan Eskiköy e Özgür Dogan.
Miglio regista: Reha Erdem per Kosmos (Cosmo).
Migliore sceneggiatura: Onur Ünlü per Beş Şehir (Cinque città) di Onur Ünlü.
Migliore attrice: Nergis Öztürk interprete di Kıskanmak (Invidia) di Zeki Demirkubuz.
Miglior attore: Öner Erkan interprete di Bornova Bornova di Inan Temeklkuran.
Migliore fotografia: Florent Herry per Kosmos (Cosmo) di Reha Erdem.
Migliore musica: Mehmet Erdem e Özgür Akgül per Deli Deli Olma (La pianista) di Murat Saraçoglu.
Migliore attrice non protagonista: Damla Sönmez interprete di Bornova Bornova di Inan Temeklkuran.
Migliore attore non protagonista: Volga Sorgu interprete di Kara Köpekler Havlarken di (Cani neri abbaianti) di Mehmet Bahadir Er e Maryna Gorbach.
Miglior montaggio: Erkan Tekemen per Bornova Bornova di Inan Temeklkuran.
Migliore direzione artistica: Zeynep Koloğlu per Usta (Il maestro) di Bahadır Karataş.
Premio speciale della giuria: Bahadır Karataş per Usta (Il maestro) di Bahadır Karataş, Evrim Alataş per Min Dit (Davanti ai miei occhi) di Miraz Bezar, Tansu Biçer per Beş Şehir (Cinque città) di Onur Ünlü, Emre Şahin per 40 di Mehmet Bahadir Er e Maryna Gorbach.
Premio speciale della giuria per il migliore sonoro: Kosmos di Reha Erdem.


Film narrativi, sezione internazionale:
Miglior film: Bumažny soldat (Soldato di carta) di Alexey German jr e Sahman (Frontiera) di Harutyun Khachatryan.
Miglior regista: George Ovashvili per Gagma Napiri (L’altro lato).
Miglior attore: Tedo Bekhauri per Gagma Napiri (L’altro lato) di George Ovashvili.
Migliore attrice: Hilda Peter per Katalin Varga di Peter Strickland.

 

Cosmo
Cosmo

 

Premio SİYAD per il miglior film nazionale: Bornova Bornova di Inan Temeklkuran.

Premio SİYAD per il miglior film internazionale: Gagma Napiri (L’altro lato) di George Ovashvili.

Miglior primo documentario: 100 Bin Kişiydiler (Eravamo in 100 mila) di Metin Kaya e Ben ve Nuri Bala (Io e Nuri Bala) di Melisa Önel.

Miglior documentario: Ziyaretçiler (Il visitatore) di Melis Birder e 5 Nolu Cezaevi (La prigione n° 5) di Çayan Demirel.

Miglior cortometraggio: Kısır Döngü (Circolo vizioso) di Aksel Zeydan Göz.

Premio dell’accademia per il film digitale: Geri Dönüşüm Günlüğü (Diario del riciclo) di Efe Conker, Tamirci Çırağı (Apprendista riparatore) di Akin Andirin, Köy (Il villaggio) di Mustafa Dok.

Premio della giuria NETPAC per il miglior film: Bak-jwi (Sete – Questo è il mio sangue) del sudcoreano Park Chan-Wook.

Premio della municipalità di Antalya: Başka Dilde Aşk (Amore in un’altra lingua) di Ilksen Bașarir.