23 Novembre 2008
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49°Thessaloniki Film Festival 2008 |
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C'erano, sempre nella sezione concorso, tre film provenienti dall'estremo oriente di diverso valore e interesse. Firaaq porta la firma dell'attrice indiana Nandita Das, che qui esordisce nella regia. La vicenda nasce da un terribile fatto di cronaca: nel 2002, nella regione di Gujarat, ci fu una strage anti-islamica che costò la vita a 3.000 mussulmani le cui abitazioni e botteghe furono incendiate, spesso con i proprietari dentro. Il film è ambientato un mese dopo quella carneficina e segue le storie di alcuni superstiti, tuttora terrorizzati dai fanatici indù e dalla polizia che li appoggia. Al centro del racconto cè un intellettuale che ha sposato una donna non mussulmana e che accetta, in un primo tempo, di fingersi indù, anche se non riuscirà a mentire sino alla fine. E' un film pieno di impeto sociale, forte nella denuncia e parziale, come è quasi obbligatorio in questi casi, nel senso che le vittime sono viste come angeli, mentre gli aguzzini sembrano emersi da un qualche manicomio criminale. Naturalmente è difficile, forse impossibile, affrontare una materia tanto coinvolgente mantenendo un minimo distacco, ma è proprio questa mancanza di lucidità a tarpare le ali al film.
Bityaru, geumbungeo doeda (Una scopa diventa un pesce rosso) opera prima del sudcoreano Kim Dong-joo parte da una base decisamente interessante, anche se le condizioni in cui ci è stato presentato, un DVD proiettato in modo scadente, rendono difficile valutare sino a che punto sia da considerarsi un'opera riuscita. La storia, quasi inesistente se misurata in termini di eventi, ha per sfondo un albergo miserabile in cui vivono, in stanzette minuscole e con servizi in comune, un gruppo di poveracci, studenti squattrinati, giovani disoccupati, anziani alla fame. Il tutto cadenzato dai gesti quotidiani indispensabili a continuare un'esistenza stentata e difficilissima. E' un mondo terribile, ove ci si accapiglia per un boccone di pane, un pezzo di sapone, qualche spicciolo. Un panorama in cui tutti sono contro tutti e chi, come il personaggio su cui indugia la cinepresa, mostra umanità e sensibilità verso gli altri è travolto dai suoi stessi compagni di sventura, messo da parte, derubato e tradito. Il film ha tinte cupe, del tutto consone al quadro che racconta. Una valutazione complessiva e, come dicevamo in apertura, decisamente parziale, segnala uno sguardo fermo e lucido su un sub-mondo degno dei grandi romanzi ottocenteschi rivolti al popolo dei bassifondi.
Jiu Jiang Feng (Venti di settembre) opera prima del taiwanese Tom Shu-Yu Lin è qualche cosa a mezzo fra il film giovanilistico e quello criminale. Lo scenario è l' ultimo anno in un liceo di Taipei nel 1996, anno in cui scoppiò un clamoroso scandalo sulle infiltrazioni mafiose nel campionato di baseball, sport nazionale dell'isola. L'obiettivo segue le azioni di una banda giovanile di studenti che si deliziano in piccole marachelle, azzardando sempre più sino a causare veri crimini. Il film è banale, prevedibile, girato non mano non molto ferma, non spiega quasi nulla preferendo limitarsi al seguire i riti giovanili e le varie birbonate cui danno vita questi ragazzini. Il finale, con la cerimonia della consegna dei diplomi e gli alunni in lacrime, aggiunge un tono moralistico ad una storia che proprio non ne aveva bisogno.