49°Thessaloniki Film Festival 2008 - Pagina 2

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49°Thessaloniki Film Festival 2008
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La polvere del tempo
La polvere del tempo
Una rassegna come questa offre un particolare interesse in quanto consente di verificare, fra le altre cose, anche lo stato di salute della cinematografia nazionale. Iniziamo da quello che, in realtà, non può essere definito solo un film greco, sia perchè di produzione internazionale, sia perchè il suo autore è uno dei più affermati cineasti a livello mondiale. Ci riferiamo a I skoni tou chronou (La polvere del tempo), ultima fatica di Theo Angelopoulos e seconda puntata della sua trilogia sul secolo appena concluso e sul futuro che ci attende. La storia ruota attorno a un cineasta americano (Williem Dafoe), d’origine greca, che sta realizzando un film sulla storia dei suoi genitori, i due combattenti antifascisti che abbiamo lasciato alla fine di La sorgente del fiume (To Livadi pou dakryzei, 2004), travolti dalla sconfitta del fronte progressista nella guerra civile greca (1946 - 49). Il racconto attuale s’intreccia con la storia di questa coppia dalla prigionia, non dichiarata come tale, in Kazakistan durante gli ultimi anni della dittatura stalinista, al ritorno in occidente, ai giorni del crollo del muro di Berlino. In questo vasto mosaico storico ci sono momenti di grandissima forza, come il passaggio degli internati dalla frontiera fra l’Ungheria e l’Austria, nel 1976, un brano da vera antologia del cinema, con l’ebreo comunista (Bruno Ganz) che così commenta: io riacquisto la libertà entrando nella terra che ha massacrato milioni di miei simili. In queste poche parole e nelle immagini che le accompagnano c’è quel senso della contraddittorietà della Storia che la regia illumina e denuncia quasi a ogni inquadratura e che costituisce la spina dorsale del film.
Non meno toccante la sequenza dell’incontro, dopo anni, fra Eleni e Spiros (Irène Jacob e Michel Piccoli), i due rivoluzionari erranti, che fanno l’amore su un tram fermo in una piazza deserta e coperta di neve. Lo stesso luogo dove, poco prima, era stato dato l’annuncio della morte del dittatore georgiano davanti a una folla segnata da commozione, smarrimento e sollievo. In questo modo l’atto d’amore ha il senso di una liberazione, meglio di un tentativo di liberazione. E’ un brano mirabile per pudore, costruito su un’immagine, quasi fissa del mezzo di trasporto accompagnata dagli ansimi della coppia. I due, scoperti da occhiuti vigilanti della morale, saranno nuovamente separati e internati. La caduta del piccolo padre sarà rappresentata, altro momento straordinario, da un lungo piano sequenza in cui i personaggi percorrono un deposito polveroso pieno di sue statue. Né il discorso si limita al passato comunista, come testimonia la bellissima invenzione, nata da dati reali, dei controlli che denudano le persone sottoponendole ad analisi radiografica negli aeroporti, umiliandole non meno di quanto facevano i poliziotti del regime realsocialista. C’è, in questa intuizione, un’altra delle linee guida del film, quella di guardare con occhi attenti e inesorabili alla ferocia dei regimi, agli orrori delle ideologie, alla violenza del potere sotto qualsiasi insegna sia gestito. La parte più debole, se proprio si vuole trovare un difetto, è quella del rapporto fra il cineasta e la figlia giovanissima che fugge dal padre per unirsi a un gruppo di diseredati che occupano, a Berlino, un fabbricato deruto. La piccola abita una stanza piena di fotografie e poster che sintetizzano le icone di un intero mezzo secolo: da Che Guevara a Jim Morrison a Frank Zappa, non trascurando il manifesto del film Il silenzio degli innocenti (The silence of the lambs, 1991) di Jonathan Demme. E' questo uno dei numerosi omaggi che il regista riserva ai cineasti che ammira, come il protagonista che lavora nel mitico Teatro Cinque di Cinecittà, caro a Federico Fellini. La conclusione dell’intero discorso è, a un tempo, pessimista e lucidamente protesa al futuro. Se Eleni muore, la sua figura ha attraversato mezzo secolo incarnandone speranze e drammi, e Jacob si uccide, simboleggiando la tragedia di un ebreo errante da tutti martoriato e che oggi non ha più posto nel mondo, la ragazzina e il nonno riprendono a correre lasciandosi alle spalle la Porta di Brandeburgo, simbolo di un muro e di una città che divideva due mondi. Il loro gesto è il segno che la storia cammina, ferisce, uccide, delude, ma va avanti. Il film è molto bello, lo attraversa un vento di commozione e lucida indagine che strappa la carne a chi quei fatti li ha conosciuti o vi è stato coinvolto, seppur da lontano. Quello che il regista sviluppa e propone è un esame di coscienza doloroso, preciso nell’analisi e impietoso. Un’opera che sconvolge, inquieta e costringe a riflettere..