49°Thessaloniki Film Festival 2008

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49°Thessaloniki Film Festival 2008
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Image Il Festival Internazionale del film di Salonicco ha raggiunto la 49ma edizione con alle spalle una storia piuttosto complicata. Nato nel come rassegna nazionale, a cui si è affiancata ben presto una sezione informativa dedicata alle produzioni di altri paesi, ha subito una sorta di quasi letargo durante il settennio in cui la Grecia dovette subire la feroce dittatura della giunta militare (1967 – 1974). Chiusa quella tragica parentesi e ritornata la democrazia, anche questa manifestazione subì una profonda trasformazione, mutando in passerella della produzione nazionale senza alcuna sezione estera. Quegli anni, in cui la direzione era espressa dalle grandi organizzazioni sindacali del settore, sono stati caratterizzati da polemiche e clamorose esclusioni, come quella dell'intera produzione di Stavros Tornes, uno dei grandi nomi del nuovo cinema greco, escluso perché, novello Jean Marie Straub, girava i suoi film in assoluta povertà e, quindi, non rispettava i minimi sindacali di troupe.
La svolta arrivò con il ritorno alla dimensione internazionale, voluta da Michael Demopoulos, che riorganizzò la rassegna e la portò a fama internazionale. Mutati gli equilibri politici, con la vittoria dei partiti di destra e il cambio di governo, anche il Festival cambiò volto e alla presidenza arrivò un famoso attore d'origine greca, ma residente in Francia, Georges Corraface, mentre la direzione artistica fu affidata ad una produttrice di film di successo, Despina Mouzachi. Negli ultimi anni la manifestazione ha ricevuto sostanziose sovvenzioni pubbliche, tanto che il bilancio 2008 ha all'attivo ben 9 milioni di euro, fra contributi statali e sponsorizzazioni. L'obiettivo annunciato dalla nuova direzione è stato quello di puntare su due direttrici: allargamento dei momenti celebrativi, con omaggi e tributi a autori famosi quest'anno è stata la volta di Oliver Stone, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Takeshi Kitano, Diablo Cody, Terence Davies, William Dafoe, Gustavo Santaolalla, Richard Jobson, Michael Ondaatje, Manos Zakharias – e riservare un occhio di riguardo al mondo della produzione, con la speranza di creare (anche qui!), un florido mercato dei film. E' una scelta politica che, almeno nelle intenzioni, mira a salvare capra e cavoli, a non buttare alle ortiche il prestigio e i meriti culturali delle rassegne precedenti - è stato mantenuto, ad esempio, un concorso internazionale riservato alle opere prime e seconde - aggiungendovi qualche spezia in più a livello di evento. Stando a quanto si è visto in queste ultime edizioni l'obiettivo è stato raggiunto in modo piuttosto parziale, tanto che continua ad aleggiare sul Festival una consistente nube di rimpianto per le gestioni passate.

La polvere del tempo
La polvere del tempo
Una rassegna come questa offre un particolare interesse in quanto consente di verificare, fra le altre cose, anche lo stato di salute della cinematografia nazionale. Iniziamo da quello che, in realtà, non può essere definito solo un film greco, sia perchè di produzione internazionale, sia perchè il suo autore è uno dei più affermati cineasti a livello mondiale. Ci riferiamo a I skoni tou chronou (La polvere del tempo), ultima fatica di Theo Angelopoulos e seconda puntata della sua trilogia sul secolo appena concluso e sul futuro che ci attende. La storia ruota attorno a un cineasta americano (Williem Dafoe), d’origine greca, che sta realizzando un film sulla storia dei suoi genitori, i due combattenti antifascisti che abbiamo lasciato alla fine di La sorgente del fiume (To Livadi pou dakryzei, 2004), travolti dalla sconfitta del fronte progressista nella guerra civile greca (1946 - 49). Il racconto attuale s’intreccia con la storia di questa coppia dalla prigionia, non dichiarata come tale, in Kazakistan durante gli ultimi anni della dittatura stalinista, al ritorno in occidente, ai giorni del crollo del muro di Berlino. In questo vasto mosaico storico ci sono momenti di grandissima forza, come il passaggio degli internati dalla frontiera fra l’Ungheria e l’Austria, nel 1976, un brano da vera antologia del cinema, con l’ebreo comunista (Bruno Ganz) che così commenta: io riacquisto la libertà entrando nella terra che ha massacrato milioni di miei simili. In queste poche parole e nelle immagini che le accompagnano c’è quel senso della contraddittorietà della Storia che la regia illumina e denuncia quasi a ogni inquadratura e che costituisce la spina dorsale del film.
Non meno toccante la sequenza dell’incontro, dopo anni, fra Eleni e Spiros (Irène Jacob e Michel Piccoli), i due rivoluzionari erranti, che fanno l’amore su un tram fermo in una piazza deserta e coperta di neve. Lo stesso luogo dove, poco prima, era stato dato l’annuncio della morte del dittatore georgiano davanti a una folla segnata da commozione, smarrimento e sollievo. In questo modo l’atto d’amore ha il senso di una liberazione, meglio di un tentativo di liberazione. E’ un brano mirabile per pudore, costruito su un’immagine, quasi fissa del mezzo di trasporto accompagnata dagli ansimi della coppia. I due, scoperti da occhiuti vigilanti della morale, saranno nuovamente separati e internati. La caduta del piccolo padre sarà rappresentata, altro momento straordinario, da un lungo piano sequenza in cui i personaggi percorrono un deposito polveroso pieno di sue statue. Né il discorso si limita al passato comunista, come testimonia la bellissima invenzione, nata da dati reali, dei controlli che denudano le persone sottoponendole ad analisi radiografica negli aeroporti, umiliandole non meno di quanto facevano i poliziotti del regime realsocialista. C’è, in questa intuizione, un’altra delle linee guida del film, quella di guardare con occhi attenti e inesorabili alla ferocia dei regimi, agli orrori delle ideologie, alla violenza del potere sotto qualsiasi insegna sia gestito. La parte più debole, se proprio si vuole trovare un difetto, è quella del rapporto fra il cineasta e la figlia giovanissima che fugge dal padre per unirsi a un gruppo di diseredati che occupano, a Berlino, un fabbricato deruto. La piccola abita una stanza piena di fotografie e poster che sintetizzano le icone di un intero mezzo secolo: da Che Guevara a Jim Morrison a Frank Zappa, non trascurando il manifesto del film Il silenzio degli innocenti (The silence of the lambs, 1991) di Jonathan Demme. E' questo uno dei numerosi omaggi che il regista riserva ai cineasti che ammira, come il protagonista che lavora nel mitico Teatro Cinque di Cinecittà, caro a Federico Fellini. La conclusione dell’intero discorso è, a un tempo, pessimista e lucidamente protesa al futuro. Se Eleni muore, la sua figura ha attraversato mezzo secolo incarnandone speranze e drammi, e Jacob si uccide, simboleggiando la tragedia di un ebreo errante da tutti martoriato e che oggi non ha più posto nel mondo, la ragazzina e il nonno riprendono a correre lasciandosi alle spalle la Porta di Brandeburgo, simbolo di un muro e di una città che divideva due mondi. Il loro gesto è il segno che la storia cammina, ferisce, uccide, delude, ma va avanti. Il film è molto bello, lo attraversa un vento di commozione e lucida indagine che strappa la carne a chi quei fatti li ha conosciuti o vi è stato coinvolto, seppur da lontano. Quello che il regista sviluppa e propone è un esame di coscienza doloroso, preciso nell’analisi e impietoso. Un’opera che sconvolge, inquieta e costringe a riflettere..


Senza
Senza
Fra i titoli più recenti che potremmo definire veramente e unicamente greci l’opera più interessante è stata sicuramente Without (senza) che segna l'esordio nel lungometraggio di Alexander Avranas, un debutto di grande rispetto. Il film appartiene al filone delle opere che raccontano storie – non storie, nel senso che radiografa, apparentemente senza interventi, la vita di una giovane coppia immersa in una profonda crisi esistenziale, erotica, economica. Moglie, marito e figlio di otto anni vivono una vita modesta, lui ha un lavoro di spedizioniere che non lo soddisfa e lo sottomette all'imperio dei superiori, lei fa la casalinga, beve, e gioca d'azzardo con le amiche, è insoddisfatta sia economicamente che sessualmente. Una coppia in piena crisi radiografata con luci scure, colori marci, parole centellinate, diluvio di sigarette e alcool. L'ambiente di lavoro e quello di casa sono saldati da un'unica tristezza: la mancanza di prospettive e un futuro che si annuncia disperato e grigio peggio del presente. Merito della regia è guardare a questa situazione di degrado senza ricorrere ad alcun evento straordinario, riuscendo, tuttavia, a superare il quadro del semplice documento per diventare narrazione a tutto tondo. Un film di buon valore espressivo e, nonostante le lungaggini, di importanza non meno grande da un punto di vista stilistico.
Racconto 52
Racconto 52
Meno riuscito, anche se di qualche interesse Istoria 52 (Racconto 52) opera prima di Alexis Alexiou che porta sullo schermo la cartella cinica di un paranoico ossessivo, assassino della sua compagna perché ha deciso di abbandonarlo per passare alcuni mesi in Germania allo scopo di fare carriera. Storia semplice a dirsi, ma ingarbugliata nella narrazione cinematografica che sovrappone e ripete momenti temporali e sottolinea le situazioni sino alla noia. Il protagonista finge di nascondere l'esito infausto della vicenda, anche se qualsiasi spettatore minimamente attento capisce subito dove si vuole andare a parare. L'interpretazione di Yorgos Kakanakis è più gridata e piena di stereotipi che non realmente interiorizzata, più di superficie che profonda. Un film molto pensato, ma poco sentito.
Tre momenti
Tre momenti
Assai più pretenzioso, anche se amato da alcuni critici, Tris stigmes (Tre momenti) di Petros Sevastikoglu è una di quei film che tanto piacciono a certi registi greci. Un misto di barocca fantasia, intellettualismo sfrenato, scenografie claustrofobiche, snodi cervellotici, fotografia insopportabilmente pesante. Nel caso specifico sei personaggi, tre uomini e tre donne, si ritrovano per un pomeriggio e una notte in una vecchia villa, debitamente riempita di polvere, velluti e trovarobato vario. A fatica e solo dopo molta pazienza riusciamo a capire che in realtà, si tratta della stessa coppia colta in tre momenti diversi della vita: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia, tutti debitamente mescolati e interagenti. La riflessione dovrebbe riguardare l'amore, le tensioni fra i sessi, il tramonto della gioventù, la morte, ma il film naufraga nell‘inutilità e nel barocchismo stilistico per cui non si sa se sottolineare maggiormente la noia o la prevedibilità.

Piccoli Crimini Coniugali
Piccoli crimini
Ci sono poi stati alcuni titoli di scarso o nullo interesse, ma che possono essere utili per indicare alcune tendenze del cinema ellenico contemporaneo. Mikro englima (Piccoli crimini) di Christos Georgiou è una brutta commedia basata su uno dei classici pastoni cari al cinema leggero di questo paese: qualche battuta prevedibile, panorami mozzafiato a uso di promozione turistica, moderato erotismo sintetizzato, al massimo, in qualche fugace nudo femminile integrale. Questa volta si parla di un agente di polizia che opera su un'isoletta dell'Egeo e sogna il trasferimento ad Atene. Il suo capo, che al lavoro ufficiale preferisce la pesca e la coltivazione della vite, lo sconsiglia in ogni maniera. Il suo momento di gloria sembra arrivare quando un anziano ubriacone è trovato morto dopo una caduta da un dirupo. Il capo liquida subito il caso come disgrazia, mentre l'agente continua ad indagare convinto dietro quella morte si nasconda qualche cosa di losco. Lo aiuta una giovane star della televisione, nata da quelle parti, e rientrata a casa proprio per i funerali dello scomparso che, in realtà, era suo padre. Soluzione facile e prevedibile, con possibile storia sentimentale fra l'agente e la presentatrice. Il film è banale, noioso, prevedibile, insopportabile nel'ovvietà della regia e dello stile.
La montagna di fronte
La montagna di fronte
To vouno brosta (La montagna di fronte), opera seconda di Vassilis Douros, segue la strada dell'inserimento di temi socialmente scottanti nel più classico melodramma paesano. In una regione montana, al confine con l'Albania, una piccola comunità emargina e odia un pastore venuto, con la famiglia, d'oltre confine. I nativi sono ortodossi, gli altri mussulmani e questo basta a dare una parvenza di giustificazione alla pesante emarginazione. Un giorno un camioncino pieno di fuochi d'artificio è costretto a fermarsi in paese per un guasto e il piccolo albanese chiede al padre di veder esplodere un razzo. Siamo la notte precedente la Pasqua, ricorrenza che i locali festeggiano in modo particolarmente solenne sparando anche modesti petardi. Spinto dal figlio e dal dileggio dei greci, il pastore paga gli artificieri affinché sparino i loro fuochi proprio la Notte Santa. L'odio monta e sfocia in una tragedia che costa la vita ad un giovane d'origine schippettara, ma di cittadinanza greca. Un monito contro il rischio di spezzare anche qual poco di omologazione che già si è verificato, soprattutto grazie alle nuove generazioni, in un film è generoso, ma stilisticamente vecchio, democratico, ma polveroso.
Fine profonda
Fine profonda
Deep End (Fine profonda) di Thanassis Antoniou vorrebbe essere un thriller con componenti erotiche, ma costruisce solo una storia lesbica grossolana, immersa in una paesaggio che sembra tratto da un opuscolo per la promozione turistica delle isole greche. Due donne, che sono anche amanti ma lo scopriremo solo alla fine, spingono i rispettivi mariti ad uccidersi reciprocamente per poter dare sfogo all'amore che le anima. Il tutto su una spiaggia magnifica in cui il quartetto è andato a campeggiare. Il film è ripetitivo, noioso e mal costruito.

W
W
Per quanto riguarda i film a contorno della manifestazione un rilievo importante ha avuto la presentazione di W si Oliver Stone che rientra nella trilogia dedicata da questo cineasta ai presidenti americani. Dopo JFK – Un caso ancora aperto (JFK, 1991) rivolto a John Fitzgerald Kennedy e Gli intrighi del potere (Nixon, 1995) con protagonista il politico travolto dallo scandalo Watergate (1972-1975), ecco ora W consacrato a George W. Bush. Anche questa nuova opera, come le precedenti, mette in evidenza pregi e difetti dell’autore. I primi, decisamente minori rispetto ai secondi, riguardano una provetta capacità di spettacolarizzazione, una discreta abilità nel costruire mosaici che alternano momenti ed epoche diverse, una sicura padronanza nella direzione degli interpreti. A proposito di quest'ultimo argomento bisogna dire che qui pesa negativamente una ancora più accentuata tendenza a costruire una sorta di museo delle cere con attori scelti e truccati in modo da rassomigliare ai personaggi che interpretano, un'identificazione accentuata dal fatto che i protagonisti compaiono nel film con i nomi veri. Le note negative iniziano dall'incertezza mostrata dalla regia nel non saper scegliere fra il quadro psicologico e l’approccio storico, saltabeccando da uno all’altro fronte e finendo col confezionare un pasticcio degno dei riassunti di storia ad uso di lettori frettolosi, magari insaporiti con qualche aneddoto personale. Questa incertezza impedisce al film di assumere un preciso punto di vista: allinea cose già note, colleziona storielle, poche delle quali inedite, ma non ci dice nulla delle ragioni profonde che hanno motivato le scelte di uno dei leader più discussi e discutibili della storia degli Stati Uniti. Questo Bush il giovane, sembra una figura ad una dimensione, pieno di tic, che la regia mette impietosamente in mostra sin dall'inizio, ma avaro nel far capire le ragioni delle sue scelte. Allo stesso modo i personaggi che lo contornano sono ritagliati come altrettanti burattini, alcuni dei quali visti con antipatia, ma senza reali motivazioni, come nel caso di Condoleezza (Condy) Rice e Dick Cheney, altri con live simpatia, Colin Powell, ma sempre senza ragioni logiche o politiche. Sono difetti di grande peso che rendono il film simile a qui riassunti di famosi capolavori letterari un tempo pubblicati dalla rivista americana Selezione (Reader's Digest), vale a dire involucri brillanti e pieni di colori, ma del tutto privi di una qualsiasi sostanza stilistica o politica.
Pesca sportiva
Pesca sportiva
Fra i film in concorso è piaciuto abbastanza Pescuit sportiv (Pesca sportiva) del rumeno Adrian Sitaru, un'opera che guarda, forse con eccessiva insistenza, ai film basati su un estraneo che si inserisce in una coppia, apparentemente felice, facendone esplodere le contraddizioni. Qui a far saltare l’equilibrio è una giovane prostituta, casualmente investita dall'auto dei due, un professore di matematica idealista e la sua amante , che stanno andando a fare un picnic. La presenza dell'estranea rovescia l’apparente sicurezza della coppia e le sue provocazioni, prima si offre all'uomo poi pretende di toccare la donna, rompono il fragile equilibrio che regna fra i due e li sospingono sin quasi alla rottura. Il film è girato con la macchina sempre in soggettiva che salta dallo sguardo di un personaggio ad quello di un altro, una scelta espressiva che, alla lunga, finisce col disturbare un poco senza ottenete un effetto stilisticamente pregevole.
Il rumore della gente attorno
Il rumore della gente attorno
Interessante anche Le bruit des gens autour (Il rumore della gente attorno) titolo d'esordio del francese Diatème ed è il classico prodotto d'oltralpe sorretto da una bella sceneggiatura, animato da dialoghi perfetti, fotografato con abilità. I membri di tre gruppi teatrali s’incontrano durante il Festival de Teatro di Avignone: una danzatrice con il suo assistente omosessuale, che lei vuol convertire all'eterosessualità, un regista, una pianista e una cantante, che mettono in scena famose canzoni francesi, un attore e un'attrice, che presentano una pièce di uno scrittore rimasto vedovo da pochi mesi. Intreccio d'amori, riflessioni sulla vita e la morte, coppie che si disfano e riformano, nuove relazioni che nascono. Cose banali e già viste molte volte, ma rese lievi da un tocco quasi poetico che le fa sembrare nuove. Un ottimo prodotto che conferma lottiamo qualità media del cinema francese.

Firaaq
Firaaq
C'erano, sempre nella sezione concorso, tre film provenienti dall'estremo oriente di diverso valore e interesse. Firaaq porta la firma dell'attrice indiana Nandita Das, che qui esordisce nella regia. La vicenda nasce da un terribile fatto di cronaca: nel 2002, nella regione di Gujarat, ci fu una strage anti-islamica che costò la vita a 3.000 mussulmani le cui abitazioni e botteghe furono incendiate, spesso con i proprietari dentro. Il film è ambientato un mese dopo quella carneficina e segue le storie di alcuni superstiti, tuttora terrorizzati dai fanatici indù e dalla polizia che li appoggia. Al centro del racconto c’è un intellettuale che ha sposato una donna non mussulmana e che accetta, in un primo tempo, di fingersi indù, anche se non riuscirà a mentire sino alla fine. E' un film pieno di impeto sociale, forte nella denuncia e parziale, come è quasi obbligatorio in questi casi, nel senso che le vittime sono viste come angeli, mentre gli aguzzini sembrano emersi da un qualche manicomio criminale. Naturalmente è difficile, forse impossibile, affrontare una materia tanto coinvolgente mantenendo un minimo distacco, ma è proprio questa mancanza di lucidità a tarpare le ali al film.
Una scopa diventa un pesce rosso
Una scopa diventa un pesce rosso
Bityaru, geumbungeo doeda (Una scopa diventa un pesce rosso) opera prima del sudcoreano Kim Dong-joo parte da una base decisamente interessante, anche se le condizioni in cui ci è stato presentato, un DVD proiettato in modo scadente, rendono difficile valutare sino a che punto sia da considerarsi un'opera riuscita. La storia, quasi inesistente se misurata in termini di eventi, ha per sfondo un albergo miserabile in cui vivono, in stanzette minuscole e con servizi in comune, un gruppo di poveracci, studenti squattrinati, giovani disoccupati, anziani alla fame. Il tutto cadenzato dai gesti quotidiani indispensabili a continuare un'esistenza stentata e difficilissima. E' un mondo terribile, ove ci si accapiglia per un boccone di pane, un pezzo di sapone, qualche spicciolo. Un panorama in cui tutti sono contro tutti e chi, come il personaggio su cui indugia la cinepresa, mostra umanità e sensibilità verso gli altri è travolto dai suoi stessi compagni di sventura, messo da parte, derubato e tradito. Il film ha tinte cupe, del tutto consone al quadro che racconta. Una valutazione complessiva e, come dicevamo in apertura, decisamente parziale, segnala uno sguardo fermo e lucido su un sub-mondo degno dei grandi romanzi ottocenteschi rivolti al popolo dei bassifondi.
Venti di settembre
Venti di settembre
Jiu Jiang Feng (Venti di settembre) opera prima del taiwanese Tom Shu-Yu Lin è qualche cosa a mezzo fra il film giovanilistico e quello criminale. Lo scenario è l' ultimo anno in un liceo di Taipei nel 1996, anno in cui scoppiò un clamoroso scandalo sulle infiltrazioni mafiose nel campionato di baseball, sport nazionale dell'isola. L'obiettivo segue le azioni di una banda giovanile di studenti che si deliziano in piccole marachelle, azzardando sempre più sino a causare veri crimini. Il film è banale, prevedibile, girato non mano non molto ferma, non spiega quasi nulla preferendo limitarsi al seguire i riti giovanili e le varie birbonate cui danno vita questi ragazzini. Il finale, con la cerimonia della consegna dei diplomi e gli alunni in lacrime, aggiunge un tono moralistico ad una storia che proprio non ne aveva bisogno.

Di là
Di là
Aan Ja (Di là) dell’iraniano Abdolreza Kahani è un piccolo film in bianco e nero che segue le vane peripezie di un pianista che ha ottenuto la Carta Verde per poter lavorare negli Stati Uniti. Costretto a rientrare in Iran per ragioni burocratiche, dovrà riprendere la via degli States entro una certa data, purtroppo sua moglie, convinta che la tradisca con un’altra, gli impone di pagare un risarcimento prima di ritornare negli USA. Privo di denaro, il musicista, tenta ogni strada per levarsi d’impaccio, ma non ci riesce ed è costretto a rimanere a Teheran. Il film è davvero piccolo e conferma le difficoltà censorie cui è sottoposta una cinematografia che, per lungo tempo, è stata fra le maggiori del mondo. Una storia banale che sarebbe potuto essere utilizzata per importanti riflessioni sociali e politiche - la legislazione islamica, la burocrazia, la voglia di abbandonare il paese, … - ma che rimangono a livello di pura possibilità, senza alcun riscontro sullo schermo.
Neve
Neve


Snijeg (Neve) della bosniaca Aida Begic affronta il dramma dei sopravvissuti, soprattutto vedove e figli, dei massacri legati alla guerra serbo – bosniaca (1992 - 95). Un gruppo di donne, bambini e un vecchio religioso vivono stentatamente in un villaggio semidistrutto facendo marmellate e conserve che vendono per pochi dinari sulla strada. Un giorno arriva un serbo che accompagna il responsabile di una ditta tedesca che vuole comperare i loro terreni per costruirvi un villaggio turistico. In un primo tempo i sopravvissuti accettano, ma quando, complice il maltempo, gli affaristi rimangono bloccati fra le montagne, ci ripensano e stracciano i contratti già firmati. Il film contiene una denuncia accorata e generosa di uno dei maggiori crimini di guerra del secolo scorso, ma è anche ben poco originale e ricalca modelli noti privilegiando la denuncia alla ricerca stilistica. Indubbiamente c'è anche bisogno di opere come questa, solo che il loro contributi all'arte del film restano deboli.
Tre gatti ciechi
Tre gatti ciech


Tre ufficiali della marina australiana hanno una notte di permesso prima di imbarcarsi per l’Iraq. Vogliono divertirsi, ma appena si supera quest’idea generica, ecco emergere differenze, problemi modi quasi inconciliabili d’intendere la vita. C’è chi pensa solo alla donne, chi, nel profondo, ricerca un rapporto realmente affettivo, chi cova una sorda disperazione, mascherata d’ironia e cinismo. Three Blind Mice (Tre gatti ciechi) del regista e attore Matthew Newton è quello che, un tempo, si sarebbe definito un film da camera, tutto giocato su psicologie e dialoghi. La guerra rimane costantemente sullo sfondo e vengono in primo piano le psicologie dei personaggi, le loro insicurezze e turbe interiori. Un buon film, ma assai poco importante per quanto concerne le novità del linguaggio.
Il recluso
Il recluso


Selda (Il recluso) dei filippini Ellen Ramos e Paolo Villaluna è un film carcerario, nella prima parte, che diventa, nella seconda, un melodramma d’amore omosessuale. Una doppia veste che non facilita l’unità stilistica di un’opera che appare composta da due racconti diversi. Rommel finisce in prigione per avere ucciso, investendolo accidentalmente, un ladruncolo. Durante la detenzione subisce il classico calvario descritto in opere di questo tipo, ma trova rifugio fra le braccia di un altro detenuto che si innamora di lui. Passati sette anni lo ritroviamo che vive, con moglie e figlia, in campagna coltivando riso. Qui lo raggiunge l’ex amante che non lo ha dimenticato. Per un momento la loro storia sembra rinascere, ma una nuova disgrazia – Rommel ammazza casualmente la figlia – rompe ogni possibilità di futuro e lo precipita nella più nera disperazione. Due film diversi si è detto, ciascuno con un suo taglio, ma uniti da un modo di fare cinema che guarda con favore ad effetti piuttosto pesanti e ad una narrazione che sposa scene madri a notazioni psicologiche. In definitiva, un testo interessante, ma tutt’altro che ben costruito.

Di là
Di là
49th INTERNATIONAL THESSALONIKI FILM FESTIVAL
I premi
Miglior film – Alessandro d’oro (37.000 euro)
AAN JA (Di là) di Abdolreza Kahani, Iran.
Premio speciale delle giuria – Alessandro d’argento (22.000 euro)
PESCUIT SPORTIV (Pesca sportiva) di Adrian Sitaru, Romania / Francia.
Miglior regia
CELINA MURGA per Una Semana Solos (Una settimana da sola), Argentina.
Miglior sceneggiatura
MATTHEW NEWTON per Three Blind Mice (Tre gatti ciechi), Australia.
Migliore attrice ex aequo
IOANA FLORA e MARIA DINULESCU per la loro interpretazione in PESCUIT SPORTIV (Pesca sportiva), di Adrian Sitaru, Romania / Francia.
Miglior attore ex aequo SID LUCERO e EMILIO GARCIA per la loro interpretazione in SELDA (Il recluso) di Ellen Ramos e Paolo Villaluna, Filippine.
Riconoscimento alla qualità artistica
SZABOLCS TOLNAI per FÖVENYÓRA (Clessidra), Ungheria / Serbia / Montenegro.
Menzione speciale a DIASTÉME per LE BRUIT DES GENS AUTOUR (Il rumore della gente attorno), Francia.
Premio per i valori umani di 15.000 euro concesso dal canale televisivo del parlamento ellenico
ΤΕΖΑ di Haile Gerima, Germania.
Premio per le pari opportunità di 5.500 euro offerti dal Segretariato Generale per la pari opportunità, divisione del Ministero dell’Interno, amministrazione pubblica e decentramento
SNIJEG (Neve) di Aida Begić, Bosnia Erzegovina, Germania, Francia, Iran.
Premio della vita quotidiana, trascendenza o riconciliazione di 15.000 euro offerti dal Ministero per la Macedonia e Tracia.
FIRAAQ di Nandita Das, India.
Premio Il cinema e la città di 10.000 euro offerti dalla municipalità di Salonicco
OF TIME AND THE CITY (Del tempo e la città) di Terence Davies, Gran Bretagna.
Premi FIPRESCI
Per la sezione internazionale
VOY A EXPLOTAR (Io sto per esplodere) di Gerardo Naranjo, Messico.
Per la sezione riservata al cinema greco
KALA KRYMMENA MYSTIKA - ATHANASSIA (Un segreto ben mantenuto -– Athanassia) di Panos Karkanevatos, Grecia / Belgio / Olanda / USA.
Premio del pubblico per la sezione competitiva (3.000 euro)
LE BRUIT DES GENS AUTOUR (Il rumore della gente attorno) di Diasteme, France.
Premio del pubblico per la sezione riservata al cinema greco (3.000 euro)
MAKRONISSOS (L’sola dell’esilio) di Εlias Yannakakis e Evi Karabatsou, Grecia.
Premio del pubblico per la sezione Sguardo Balcanico (2.000 euro)
TURNEJA (La torre) di Goran Marković, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia.
Premio del pubblico per la sezione Onda Digitale del cinema Greco (2.000 euro)
TO SYNDROMO TIS HIONATIS (La sindrome di Biancaneve) di Angelos Spartalis, Grecia.
Premio dell’associazione dei critici greci (PEKK)
TI NYCHTA POU A FERNANDO PESSOA SYNASTISE TON COSTANTINO KAVAFI (La notte in cui Fernando Pessoa incontrò Costantino Cavafi) di Stelios Charalambopoulos, Grecia, Portogallo, Cipro.
Premio del Sindacato dei tecnici cinematografici e televisivi greci (ETEKT)
WITHOUT (Senza) di Alexander Avranas, Grecia.
Incroci, premio riservato ai progetti di coproduzione dotato di 16.000 euro offerti dalla società Nokia
AMERICA SQUARE (Piazza America) di Yiannis Sakaridis, Grecia
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FALSE WITNESS (Falso testimone) di Iglika Triffonova, Bulgaria.
Fondo Balkan, quattro riconoscimenti di sostegno allo sviluppo delle sceneggiature pari a 10.000 euro ciascuno
ZINCOGRAPH (Zincografia) di Vladislav Todorov (sceneggiatore), Javor Gardev (regista) e Buriana Zakharieva (produzione), Bulgaria.
NUMBER ZERO (Numero zero) di Sirri Sureyya Onder (regista e sceneggiatore), Necati Akpinar (produzione), Turchia.
WHITE THREAD, BLACK THREAD (Filo bianco, folo nero) di Natassa Segou (sceneggiatura), Christos Karakepelis (regia), Zoe Lisgara (produzione), Grecia.
SUBMISSION (Sottomissione) di Zeynep Ozcan (sceneggiatura), Emre Yalgin (regia), Ayfer Tuncer (produzione), Turchia.