30° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier

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30° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier
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Sito ufficiale del festival: http://www.cinemed.tm.fr/
30mo Festival du Cinema Méditerranéen
ImageIl Festival du Cinema Méditerranéen (Festival del cinema mediterraneo) di Montpellier ha girato la boa delle trenta edizioni, un traguardo non di poco conto per qualsiasi rassegna di film e un obiettivo di grande rilievo per un’iniziativa che è riuscita a mantenere, durante un così lungo periodo, una straordinaria coerenza di rigore e attenzione al nuovo. L’area scandagliata, un vasto terreno che va dalla Spagna all’Algeria non trascurando deviazioni sul Mar Nero, ha offerto, nel tempo, occasione per interessanti riflessioni sulle varie cinematografie prese in esame. Si è passati dalla rinascita del film spagnolo, a quella, recentissima, del cinema italiano sino ai fermenti che si agitano nelle produzione algerine come in quelle turche, marocchine e tunisine. Se si vuol legare questo quadro, complesso e variegato, con un flebile, ma tenace filo rosso lo si può individuare in una tendenza costante a coniugare la ricerca di linguaggi originali con una continua riflessione sulle realtà politiche e sociali dei vari paesi.
Tourneè
Tourneè
Il verdetto di quest’anno offre una limpida testimonianza di quest’andamento. Il premio più ambito, l’Antigone d’Oro, è andato a Turneja (Tournée) del serbo Goran Markovic, autore di lungo corso, ha all’attivo una ventina di titoli fra film e telefilm fra i quali va ricordato almeno Tito i ja (Tito ed io, 1992). Questa sua ultima fatica affronta con mano ferma il dramma della guerra serbo – bosniaca (1992-1995) collocandone la vicenda nel pieno degli scontri. Siamo nel 1993, a Belgrado, ove una compagnia teatrale sta lavorando al solito repertorio classico con gli attori che, quasi inconsapevoli della carneficina che si sta sviluppando a pochi chilometri di distanza, continuano in una routine fatta di chiacchiere, interminabili partite a carte, colossali bevute. Un giorno cedono ad un attore, improvvisatosi impresario, che propone una scrittura per spettacoli a beneficio dei combattenti. Con leggerezza e incoscienza si trovano a fare i conti con gli orrori degli sconti, le uccisioni, i massacri, le violenze a uomini e donne. Sballottati da una parte all’altra del fronte, questi intellettuali egoisti e incoscienti sono costretti a prendere coscienza, loro malgrado, del mondo in cui sono immersi e degli orrori di cui si nutre. Il film ha il taglio classico di un racconto morale di guerra con sequenze molto efficaci e un filo conduttore intessuto attorno alla denuncia della ferocia e disumanità del conflitto. La regia, anche se apparentemente non prende posizione, in realtà guarda con maggior simpatia ai bosniaci rispetto ai serbi, infiltrati come sono da militari crudeli e cinici – il riferimento è al mitico Zeljko Raznatovic il comandante delle Tigri di Arkan – che non si fermano davanti a nulla nell’infliggere sofferenze a nemici e civili. Il taglio da racconto classico rende il film particolarmente popolare, nel senso migliore del termine.
Il canto delle spose
Il canto delle spose
La giuria ha decretato anche due menzioni speciali a Le Chant des mariées (Il canto delle spose) della tunisina Karin Albou e a Schimb valutar (Cambio) del veterano del cinema rumeno Nicolae Margineanu. Sul primo titolo i pareri sono stati decisamente discordi, oscillando fra l’apprezzamento e il sospetto di un’operazione furba che cavalca, con modi vecchiotti, un cinema dalla struttura molto tradizionale. L’ambientazione è nella Tunisia del 1942, in piena occupazione nazista del paese. Due ragazze, una mussulmana e una ebrea, sono alle prese con i primi problemi d’amore, la prima ama un ragazzo inviso alla famiglia e lo vede di nascosto, l’altra è spinta dalla madre vedova a sposare un medico, molto più anziano di lei, per fornire un sostegno ad entrambe. Tutto attorno caccia agli ebrei, attesa tremebonda dell’arrivo degli alleati, bombardamenti ed episodi di vita quotidiana. Il racconto ha toni più che prevedibili, taglio sommario dei personaggi e ricostruzione ambientale a dir poco inaccurata. Lo pervade una giusta indignazione per l’orrore dell’olocausto, ma vi serpeggia anche un fastidioso ammiccamento all’immagine degli arabi come massa indistinta di terroristi e collaborazionisti dei nazisti. In fin dei conti una proposta che nulla aggiunge a quanto già sappiamo.
Cambio
Cambio
Ben diverso il caso di Schimb valutar (Cambio), nuovo esempio dell’attuale forza del cinema rumeno. In una città di provincia un giovane operaio perde il posto per la chiusura della fabbrica in cui lavorava. Rifiuta di ritornare a lavorare nei campi con il suocero e convince la moglie a vendere ogni cosa per emigrare in Australia. Per riuscirci occorre trasformare in dollari i leu ottenuti dall’alienazione dei beni di famiglia, cosa che può essere fatta solo a Bucarest. Qui è subito derubato di quanto ha in tasca e costretto a rimontare da zero la scala sociale. Grazie all’aiuto di una prostituta dal cuore d’oro ci riesce, ma al prezzo di trasformandosi in truffatore e ladro. Quando, imbottito di valuta, sta per salire sull’aereo per l’Australia, un banale incidente rimetterà tutto in discussione. Il film vale, soprattutto per la straordinaria e lucida descrizione del degrado morale, economico ed ambientale di un paese ex-comunista, piombato nelle fauci del capitalismo più animale. La descrizione dei tuguri in cui vivono migliaia di rumeni, la ferocia della vita di tutti i giorni, l’alluvione di crimini che costellano la quotidianità, tutto questo concorre a dare al racconto il valore di un quasi documentario e alla storia il ruolo di un esempio, fra i tanti, della barbarie in cui è piombata la Romania al pari dei molti altri paesi un tempo appartenenti al blocco sovietico. Lo stile è quasi televisivo, con luci che imitano quelle naturali e personaggi che nulla hanno di eccezionale se non il peso delle disgrazie che li opprimono.