26° Torino Film Festivall 2008

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26° Torino Film Festivall 2008
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I premi
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26° Torino Film Festival
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Non ci sono dubbi: Nanni Moretti ha fatto centro. Se la sua prima direzione del Torino Film Festival aveva ottenuto un grande successo, anche venato da qualche problema organizzativo, quella di quest’anno si è retta su una struttura ancor più precisa e ha offerto, cosa della massima importanza, una selezione di alto livello. Concorso, sezioni collaterali, omaggi e retrospettive hanno proposto titoli di ottimo livello e grande interesse il che non è merito da poco in un anno in cui tutte le grandi rassegne cinematografiche, da Berlino a Cannes a Venezia hanno proposto cartelloni di livello medio – basso. Accanto a questo merito culturale, c’è il risultato ottenuto a livello di pubblico con tassi di crescita che hanno sfiorato il quaranta per cento negli accrediti e il venti nelle vendite di biglietti e abbonamenti. Sono dati che confermano il successo, anche cinefilo, di una formula che non trascura l’appeal dei grandi titoli in uscita, ma mantiene la barra ferma su scelte che privilegiano sempre il valore culturale su quello commerciale.
Tony Manero
Tony Manero
Anche il verdetto della giuria appare largamente condivisibile, perciò possiamo iniziare a riferire di questa manifestazione proprio seguendo il catalogo dei premi. Il maggior riconoscimento della sezione competitiva, riservata a opere prime o seconde, assieme al verdetto della giuria della critica internazionale (FIPRESCI) sono andati a Tony Manero, seconda regia del cileno Pablo Larraín. Inoltre l’interprete del film, Alfredo Castro, ha ottenuto il riconoscimento per la migliore interpretazione maschile. Siamo in Cile alla fine degli anni settanta. La dittatura nata dal colpo di stato (1973) ordito dai militari guidati dal generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte (1915 –2006) si sta stabilizzando facendo ricorso a un terrore diffuso che si nutre di arresti, bastonature, omicidi, sequestri di persona, persecuzione di dissidenti, tortura e incarcerazioni. In quest'atmosfera, segnata da paura e povertà, un cinquantenne aspirante ballerino vuole diventare il Tony Manero del Cile a imitazione del personaggio, interpretato da John Travolta, che anima La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977) di John Badham. Vede e rivede il film, ne manda a memoria i dialoghi, si confeziona un vestito bianco che è la copia esatta di quello visto sullo schermo nella sequenza del ballo finale. Il tutto per mettere in scena uno spettacolino, da recitarsi in uno spazio faticosamente trasformato in teatro ricavato in una saletta di una pensione miserabile gestita da una matura signora, sessualmente ancora vogliosa. In questo microcosmo, in cui s'intrecciano sesso e speranze destinate inevitabilmente a essere deluse, il protagonista consuma i suoi sogni di gloria e, per realizzarli, non si ferma davanti a nulla: uccide, ruba, sfrutta le donne che lo contornano. Il tutto sino alla delusione finale, che segna la sua sconfitta nel corso di un becero spettacolo televisivo per imitatori. Ciò che gli resta è solo la prospettiva di cadere nelle mani di quei poliziotti – macellai la cui violenza ha avuto modo di osservare in altre parti del film. In poche parole siamo in presenza di un'opera che mescola mirabilmente storia individuale e metafora sociale. Quest'assassino – sognatore è il simbolo di un paese in preda della tirannia e privato di ogni speranza ed è, nello stesso tempo, il prodotto di una dominazione culturale, quella nordamericana, che distrugge ogni forma di originalità nazionale, condiziona qualsiasi creatività asservendola a miti importati dall'esterno e industrialmente confezionati. In questo modo il film raggiunge uno spessore straordinario e segnala un regista da cui è legittimo attendersi molto.
Il Principe di Broadway
Il Principe di Broadway
l premio speciale a disposizione della giuria è stato assegnato a Prince of Broadway (Il Principe di Broadway) dell’americano Sean Baker in cui si raccontano le traversie di un gruppo di immigrati irregolari che vivono nel Fashion District di New York. Luchy è un clandestino proveniente dal Ghana che batte la strada convogliando passanti e turisti verso il retrobottega del negozio di Levon, un armeno d’origini libanesi che ha acquistato la cittadinanza USA sposando, con un matrimonio di convenienza, una ragazza americana. Il commercio a cui si dedicano i due è di merce taroccata: borse cintura, scarpe che altro non sono se non repliche di quelle fabbricate dai grandi marchi della moda. Un giorno si presenta a Luchy una sua ex, una rifugiata cubana ora accasata con un connazionale, e gli lascia un bimbetto di pochi mesi sostenendo che è suo figlio. La donna scompare prima che il poveretto abbia modo di riprendersi dalla sorpresa, per cui è costretto a conciliare il lavoro con la cura dell’infante. Buon per lui che la sua attuale fidanzata si presti, dopo un’iniziale arrabbiatura, a dargli una mano. Nel film, in pratica, non succede nulla d’eccezionale, se si esclude il gioco a rimpiattino con la polizia, gli sforzi per smerciare scarpe e borse false e altri eventi quotidiani. Il filo conduttore vero è nel rapporto fra il piccolo e l’adulto con quest’ultimo che finirà per accettarlo come figlio anche se, ma lui non lo sa, tale non è. La forza del film è nella descrizione di questo piccolo mondo di trafficanti bonari che tirano la vita con i denti a pochi metri dalle luci di Broadway, nel cuore di una metropoli che, per alcuni, è tempio del lusso e della rochezza. Un buon film che sposa armoniosamente documentazione sociale con storie individuali, sguardo sulla miseria e lotta per la sopravvivenza.