51mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 6

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51mo Karlovy Vary International Film Festival
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591-my-fathers-wingsBabamin Kanatlari (Le ali di mio padre) opera d’esordio di Kivanç Sezer è un film interessante e importante per più di una ragione. Per prima cosa si riallaccia alla tradizione del cinema sociale turco degli anni sessanta, una corrente che aveva come uno dei punti di riferimento il neorealismo italiano e che dava spazio ad importanti questioni sociali. In secondo luogo affronta uno dei temi cruciali della situazione politica: quello dell’edilizia. Il governo semidittatoriale di Recep Tayyip Erdoğan si è costruito, negli anni scorsi, una base elettorale allagata offrendo agevolazioni e sovvenzioni all’edilizia, il che ha fatto nascere decine di costruzioni che hanno deturpato le periferie e le zone non ancora sconvolte dalla speculazione del mattone, questo soprattutto nelle grandi città. La crisi intervenuta successivamente ha fatto sì che gran parte di questi appartamenti rimanesse invenduta: oggi ad Istanbul, Smirne e Ankara si contano a decine i grattaceli in cui solo alcuni appartamenti hanno trovato un compratore. Terza, ma non ultima ragione d’interesse, il quadro drammatico che il regista fa delle condizioni di sicurezza sul lavoro e della latitanza di diritti sindacali in questo settore. Ibrahim è un muratore provetto d’origine curda che lavora nel capo da trent’anni ed è arrivato nella grande città dopo aver lasciato la famiglia in seguito al terremoto che ha colpito la provincia di Elazığ l’8 marzo 2010. Lo pagano con irregolarità, ma ciò che gli danno è sufficiente a far sopravvivere a moglie e figlia. Un brutto giorno va in ospedale per un malore a lungo covato e si sente diagnosticare un cancro che gli lascia poche speranze di vita e lo costringerebbe ad abbandonare il lavoro. Va negli uffici della previdenza sociale e si dente dire che ha troppo pochi contributi per poter sperare in una pensione. In queste condizioni deve continuare a posare mattoni su mattoni nel condominio di lusso che sta costruendo e che lui e quelli come lui non potranno neppure sperare di abitare. Alla fine di un’inutile ricerca di prestiti o del pagamento di quanto dovutogli dal subappaltatore che lo ha ingaggiato, non gli resta altro che il suicidio. Fino a questo punto il film ha un andamento perfetto e, se terminasse qui, sarebbe un’opera veramente magistrale. Purtroppo il regista vi aggiunge un super finale che serve solo a esprimere due cose: chiarire che il protagonista è un curdo, cosa tutt’altro che indifferente nel quadro della società turca, e insufflare un barlume di speranza incarnato nella vedova che rifiuta, in nome della dignità del defunto, quanto gli offre il legale della società edilizia perché non adisca alle vie legali. Nonostante questa caduta, il film rimane il migliore fra quelli visti sinora in concorso e testimonia la forza di una cinematografia che da sempre si segnala per sensibilità sociale e capacità espressiva.
449-nightlifeNočno življenje (Vita notturna), nono film dello sloveno Damjan Kozole si svolge interamente in una notte, quella in cui il corpo nudo e martoriato di un noto avvocato è rinvenuto in una strada semideserta di Lubiana e trasportato d’urgenza in ospedale per essere operato. La moglie arriva quasi subito, in tempo per nascondere nella borsa un imbarazzante cintura dotata di pene di plastica che il moribondo indossava al momento dell’arrivo dell’ambulanza. Purtroppo per lei il dindo è stato segnalato in tutti i rapporti già stesi, allora la donna, che aveva con il marito un rapporto tutt’altro che pacifico, tenta di corrompere medici e poliziotti affinché la cosa sia taciuta. Il film si chiude senza che questi tentativi abbiano successo, almeno apertamente, e con non poche incognite sul futuro della coppia. E’ un testo molto ben fatto e l’interpretazione di Pia Zemijič è davvero magistrale per sfumatura di toni e intensità interiorizzata. Tuttavia nel complesso il film non va oltre il fatto narrato senza dirci nulla, seppur citandole, sulle condizioni di doppiezza morale di una nuova borghesia urbana post socialista che ha sostituito la mitologia di ieri con il culto de successo ad ogni costo.

(U.R.)
 

520-house-of-othersSkhvisi sakhli (La casa degli altri) e’ un film ambientato subito dopo la fine della guerra in Georgia. Racconta di soldati che sono riusciti a sopravvivere e, come vincitori, ottengono case abbandonate da altri assegnatari. Nel loro microcosmo pieno di vecchi ricordi che si scontrano con gli oggetti non familiari lasciati da persone che non conoscono, sono in procinto di iniziare una nuova vita che auspicano felice. Si capisce subito che la battaglia più dura deve ancora essere vinta, quella con se stessi ed i propri timori. La quarantatreenne Rusudan Glurjidze ha vissuto in prima persona questa esperienza e riesce a raccontarla con grande sensibilità ma non sempre con una buona qualità narrativa. A tratti sembra innamorarsi di qualche personaggio – in particolare dei ragazzini Nata e Leo – dimenticandosi dell’esistenza degli altri. Tutto si svolge – quasi sempre al freddo e sotto un’alta coltre di neve - in un insieme di case di cui solo una è abitata da due sorelle e dalla figlia di una di loro: una donna-uomo. L’altra, che sente la mancanza fisica di un uomo, si inventa un suo mondo per sopportare quello che il destino le ha inflitto. Arriva una famigliola composta da un uomo taciturno e grande lavoratore, una moglie devota, un giovane figlio pronto ad affrontare la vita e una bimba che vive di coccole e di sogni infantili. Rapporti minimi di vicinato, amicizia tra i due quasi coetanei, un equilibrio che difficilmente potrà resistere. La guerra assurda tra la Georgia e l’Abkhazia, creò lutti ed ulteriore povertà. Il progetto del film era stato presentato dalla regista nel 2013 al Sarajevo Film Festival’s Regional Forum ed era stato scelto per un premio. E’ una coproduzione che coinvolge Georgia, Russia, Spagna e Croazia per un film sincero ma sicuramente perfettibile.
672-houston-we-have-a-problemHouston, imamo problem! (Houston, abbiamo un problema!), opera prima dello sloveno ventinovenne Žiga Virc, esce sotto l’egida del HBO ed è coprodotto da Slovenia, Croazia, Germania, Repubblica Ceca e Qatar. Tito, Kennedy, Johnson, Nixon, Carter e Clinton appaiono in questo docu-fiction sul programma spaziale, fino ad allora segreto, della Jugoslavia. Un’operazione che mirava a mettere gli astronauti americani sulla Luna e quindi vincere la guerra fredda. Con una dovizia incredibile di particolari suffragati da video a dir poco interessanti, il regista racconta pagine più o meno sconosciute di una nazione che ora non esiste più e che era stata creata forzosamente. Un paese che, durante la dittatura di Josip Broz detto Tito (1892 – 1980), era temuto e rispettato. Studi di astronautica ai massimi livelli, ingegneri dediti al progetto fatti morire e sparire per occuparsi solo di quello, giochi politici che coinvolgevano in prima persona J.F. Kennedy e il maresciallo, la vendita degli studi oltreoceano con un’operazione che poteva suonare come truffa, visto che quanto ceduto non aveva reali possibilità di essere utilizzato. Attraverso soprattutto la testimonianza di uno degli ingegneri a capo del progetto – allora ventottenne con moglie incinta che, credendolo morto, anni dopo si suicidò – si delinea un mondo ignoto anche agli jugoslavi. A lui si aggiunge un potente ex generale che era il più coinvolto in questo sogno di costruire una potenza a livello mondiale. La parte scientifica e storica è affidata ad un giovane studioso statunitense e il senso di disagio, di chi sapeva e voleva bloccare ogni cosa, ad un ex contestatore, un intellettuale che, in quegli anni, aveva rischiato di essere eliminato. Incredibile il ritratto che scaturisce di Tito, emozionanti le immagini scelte.

(F.F.)