56° Festival Internazionale del Film di Salonicco - Pagina 6

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56° Festival Internazionale del Film di Salonicco
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BianchiForse tutti noi viviamo in una prigione, anche se non ce ne accorgiamo. E’ quanto suggerisce la regista danese Lisa Aschan nella sua opera prima Det vita folket (Bianchi). Certo, sanno bene di essere prigionieri i personaggi del film che vivono in una galera sotterranea ipertecnologica in attesa di essere prelevati e rinviati in paesi mai ben definiti. Il discorso riguarda, ovviamente, i migranti illegali respinti dalle autorità della nazione in cui sono arrivati, ma il discorso appare ben più ampio e coinvolge tutti coloro che non sono graditi a quest’ordine sociale. Il film è ambientato in Svezia, ai nostri giorni, e la condizione di questi emarginati comporta due sole possibilità: essere espulsi o accettare di partecipare alla repressione degli altri. E’ il dilemma posto ad Alex, separata dalla figlia di cui non sa nulla e in attesa di essere forzatamente imbarcata su un volo per una destinazione non precisata. Lei tenta in ogni modo di fuggire, corrompendo uno dei guardiani o causando un finto allagamento. Tutto inutile, solo la capo sorvegliante, di cui lei ha carpito un segreto, le offrirà la possibilità di riabbracciare la figlia e sfuggire alla deportazione a prezzo di farsi a sua volta sorvegliante e aguzzina di quanti attendono di partire. Film come questo tendono a peccare di genericità proprio per voler offrire allo spettatore un quadro buono per più usi, ma in questo caso il pregio della denuncia supera questo difetto offrendo un quadro inquietante e drammatico di una situazione che ora è particolare, ma potrebbe, domani, diventare generale. L’idea di vedere la società come una grande prigione sotterranea e modernissima in cui rinchiudere tutti coloro che divergono dalle norme – si noti che le prigioniere sono bianche e fra i detenuti vi è un solo mussulmano – appare particolarmente felice e, il film, decisamente riuscito.
Sparrows posterSparrows (Passeri), opera terza dell’islandese Rúnar Rúnarsson ha, invece, un taglio decisamente psicologico nel descrivere l’uscita dalla pubertà di un giovane che la madre, divorziata e risposata, rimanda al padre naturale avendo deciso di fare un lungo giro in Africa con il nuovo compagno. Il ragazzino soffre moltissimo l’abbandono della città e lo stabilirsi in un paesino freddo e remoto le cui uniche attività sono il lavoro in una fabbrica ittica, la caccia alle foche e le colossali bevute nel miserabile pub locale. A tutto questo si aggiunge la nostalgia per il canto in un coro, di cui il giovane era uno dei punti di forza, apprezzato dal pubblico al punto di essere stato scelto per esibirsi in televisione la vigilia di Natale. Che dire poi della fauna locale, fatta di ragazzi violenti e assatanati e di ragazzine la cui unica preoccupazione è la perdita della verginità? In quesito quadro deprimente si consuma una piccola grande tragedia con la morte della nonna del giovane, l’unico essere umano che lo aveva apprezzato e trattato con affetto. Il finale è ambiguo: il ragazzo forse troverà una compagna in una coetanea che crede sia stato lui a deflorarla, mentre lo hanno fatto un paio di adulti che l’anno dragata e attirata in un’orgia alcolica. Il film è molto misurato nella descrizione delle personalità e attentissimo al tratteggio dei caratteri anche se non manca qualche sottolineatura di troppo in direzione del più feroce del gruppo. In altre parole un film costruito con abilità e precisione.