56° Festival Internazionale del Film di Salonicco

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56° Festival Internazionale del Film di Salonicco
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logoSito del festival: http://tiff.filmfestival.gr/

Il festival di Salonicco è il più vecchio della Grecia di cui ha attraversato tutte le fasi storiche dall’inizio quasi pionieristico ai giorni bui della dittatura militare, alla rinascita alla democrazia e alla dura crisi economica degli ultimi anni. Riornare qui oggi a distanza di due anni dai giorni che hanno fatto intravvedere un’uscita di questo paese dalla Comunità Europea non significa solo parlare di cinema, ma anche saggiare il clima del paese. A prima vista la nota dominante è quella di una tristezza diffusa con alcuni vecchi negozi chiusi e molti esercizi passati di mano ed entrati nell’area della grandi multinazionali. Il traffico è, come sempre, impossibile e sembra l’unica cosa che non ha subito in peggio il precipitare della situazione. Per quanto riguarda la manifestazione cinematografica la primissima impressione è quella di un restringimento delle ambizioni e una riduzione drastica delle spese, ad iniziare da quelle degli ospiti il cui numero appare decisamente ridotto rispetto al passato. Son prime impressioni che dovranno trovare conferma o smentita nei prossimi giorni quando avremo la possibilità di misurare da vicino la condizione complessiva della rassegna. .

altIn concorso si è visto Sarmaşık (Edera), opera seconda del regista turco Tolga Karaçelik, un dramma fantastico coprodotto da turchi e tedeschi. Il film prende il nome da uno dei tanti cargo che solcano il mare, non particolarmente nuovo, ma neppure una classica carretta, che naviga con un equipaggio ridotto ma che rappresenta varie religioni e diversi paesi. La convivenza è possibile solo quando tutto va per il meglio, gli stipendi sono pagati, non ci sono grandi tensioni, ma capita che la nave si debba rifugiare lungo la costa egiziana causa i debiti dell’armatore, l’equipaggio non sia retribuito, che si sia appena imbarcato un curdo ed ecco che l’apparente armonia volge all’incubo e alla tragedia. Anche il comandante, quando iniziano a scarseggiare i viveri, mostra ben poco equilibrio al punto che, tra i suoi uomini, c’è qualcuno che medita di ucciderlo. Ecco allora che si debbono fare i conti con un’improvvisa invasione di lumache e che rami d’edera sbuchino dalle ferite dei marinai. Il film sfodera un buon numero di immagini da incubo i cui riferimenti, si pensi al misterioso curdo scomparso e riapparso come fantasma, sono percepibili più a livello di subconscio profondo che di realtà. Il regista guida con abilità un gruppo di attori non particolarmente noti ma decisamente bravi.

altSempre nella competizione maggiore si è visto Petting Zoo (Zoo per piccoli animali) opera d’esordio dell’americana Micah Magee. Sono davvero dei piccoli animali quelli che popolano il film ad iniziare dalla diciasettenne Lyla che si ritrova incinta sulla soglia del diploma e proprio nel momento in cui si aprono pel lei le porta di una buona università. Rompe con i genitori bigotti e decise si allevare da sola il figlio che porta in grembo. Per riuscire nell’impresa cerca e trova un lavoretto da cameriera e intreccia un amore giovanile con un coetaneo. Quando i medici scoprono che il feto è morto tutto è rimesso in discussione e la strada dell’Università diventa nuovamente percorribile. Il film ha il pregio di disegnare con precisione quasi documentaristica sia un ambiente, quello della provincia profonda americana, sa una condizione giovanile in bulico fra l’abuso di alcol e droghe e scarse possibilità di redenzione. Devon Keller è molto brava nel disegno di questa ragazza non più bambina e non ancora donna matura.

 


In alt Box (Pugilato) del rumeno Florin Şerban si raccontano due delusioni parallele. La prima è quella che travolge l’attrice ungherese impegnata, senza troppo successo, in una versione rumena di Le tre sorelle (Три сестры, 1900) di Anton Čechov (1860 – 1904). Nonostante si dia molto da fare non riesce a dare vita ad un’interpretazione che soddisfi pienamente il regista. A questo si aggiunge la difficile convivenza con un attore di successo in un matrimonio segnato da una passione ormai sopita. A fronte di questa storia al tramonto, c’è quella in piena ascesa del diciannovenne Rafael, un promettente pugilatore che ha appena ottenuto un ingaggio da pare di un importante manager. Purtroppo scopre quasi subito che fra ciò che ci si aspetta da lui c’è anche che perda a comando per lasciare strada libera ad un altro giovane su cui punta l’organizzazione controllata dal suo capo. Sarà proprio il primo incontro in cui sarà impegnato a far emergere la drammaticità della sua condizione, lasciandolo deluso e ferito anche fisicamente perché non ha subito obbedito agli ordini che gli sono stati impartiti. Queste due storie di delusione s’intrecciano quando il giovane incontra l’attrice e se ne innamora. La segue per settimane senza riuscire neppure a conoscerla e quando lei lo affronta si sente dire che è troppo giovane. Il finale è volutamente ambiguo con i due che entrano separatamente in un alberghetto. L’adulterio classico è il solo lenitivo delle ferite della vita o sono proprio queste ad aver dato coscienza alla coppia della realtà del vivere? Il film è costruito decisamente bene, anche se la narrazione lascia non pochi punti non chiariti.

 

altDa un’attrice in attività ad una in pieno vale del tramonto. Eva Nová, il titolo del film dello slovacco Marko Škop è lo stesso del nome della protagonista, è stata una diva di cinema, teatro e televisione negli anni del socialismo reale. Ha sposato un regista famoso, ma è stata travolta da uno scandalo segnato da alcolismo e droghe. Oggi, sulla sessantina, esce da una centro di disintossicazione, ma nessuno ha più fiducia in lei. La famiglia la mette alla porta e il figlio, alcolizzato e marginale ancor più di lei, tenta di sfruttare quel poco che ancora possiede, i vecchi amici di set fanno quasi finta di non conoscerla, le amiche continuano a tentarla offrendole da bere. E’ una progressiva discesa agli inferi senza possibilità di risalita e i soli lavori che le offrono sono quelli di commessa in un supermercato o donna delle pulizie in una ricca magione. Sull’orlo della disperazione senza via d’uscita troverà nel figlio e nella nuora, nel frattempo andata via di casa ed emigrata a Vienna con i figli e un nuovo compagno, un’ultima difesa davanti alla disperazione. Se il finale è persino troppo ottimistico, ciò che conta è il quadro psicologico che lo precede. Un panorama in cui il regista traccia un ritratto credibile e sofferto di una donna un tempo ricca e famosa oggi povera e dimenticata.

altDa una madre ripudiata dal figlio ad una che proprio nel rampollo trova l’ultimo appiglio alla vita. Glassland (potrebbe essere tradotto mondo di bicchieri) terza opera dell’irlandese Gerard Barrett, racconta la dedizione di un figlio per la madre alcolizzata. Il giovane campa facendo il tassista a Dublino, sceglie i turni che altri non piacciono e accettando ogni incarico, anche quelli al limite della legalità, pur di raccoglie il denaro necessario a pagare la retta del centro di smonticazione a cui vuole affidare la madre. Il film scandaglia questo rapporto intenso e drammatico, mettendo in luce l’amore di un figlio per la donna che lo ha partorito, per quanto indegna di tanto affetto. E’ un’opera in cui la ricerca delle psicologie fa premio su ogni altra cosa e il risultato è un piccolo gioiello d’amore filiale e di introspezione.


RAM STILL 1 HILa sezione competitiva del Festival ha presentato Hrútar (Montoni) dell’islandese Grimur Hakonarson. E’ la storia del conflitto tra due fratelli allevatori di ovini che abitano uno accanto all’altro in una remota valle di quella fredda nazione, ma non si parlano da quarant’anni. Si riavvicinano, sempre con non poche rudezze, quando debbono fronteggiare un’epidemia che colpisce le greggi e costringe le autorità ad emanare un ordine di abbattimento e disinfestazione generale. Uno dei due, quello che ha denunciato per primo la possibile infezione, accetta la disposizione ma cerca di aggirala nascondendo in cantina un montone e sette pecore, spera così facendo di preservare la razza ovina che, altrimenti, andrebbe estinta. L’altro si ribella e si fa arrestare. I due ritroveranno un momento di solidarietà quando si uniranno per salvare da una nuova requisizione le bestie nascoste. Finiranno in una tempesta di neve e rischieranno la morte per assideramento. A questo punto sarà proprio il fratello più ribelle a salvare la vita all’altro. Il film non ha nulla di straordinario se non la maestosità dei paesaggi e l’immagine della frugalità di vita di questi allevatori usi restare soli per molti mesi con l’unica compagnia degli animali a cui badano. Un altro dato positivo è la miscela fa la condizione drammatica in cui sono immersi e l’ironia che il regista dissemina con misura e intelligenza.
HeavyHeartHerbert – A Heavy Heart (Herbert – Un cuore pesante) del Tedesco Thomas Stuber è un altro fra i titoli ospitati in concorso. E’ il ritratto piscologico di un ex – puglie arrivato sulla soglia della fama europea, per poi precipitare in un’esistenza ben poco brillante. Per campare fa il manesco esattore di un strozzino invischiato in traffici piuttosto loschi. L’unico legane nobile che mantiene con la boxe è l’allenamento un giovane promettente in cui vede se stesso molti anni prima. La sua situazione precipita quando gli diagnosticano la SLA, vale a dire una condanna irreversibile alle degenerazione delle facoltà intellettive e muscolari. Un cruccio ulteriore gli e lo impone la figlia, oggi madre di una bambina, che di fatto lui ha abbandonato anni prima e che ora non vuole saperne del padre. Il regista racconta in dettaglio questa lunga caduta verso la morte, un percorso tragico non attenuato dalla presenza di una antica amante la cui pietà l’ammalato rifiuta, all’inizio, con feroce cocciutaggine. E’ un film doloroso e psicologicamente preciso, pregevole proprio perché il cineasta che lo firma non fa nulla par conquistarsi la simpatia degli spettatori.


Aesde AllàIn concorso si è visto Desde allá (Da lontano), primo lungometraggio narrativo del venezuelano Lorenzo Vigas che con questo titolo ha vinto, con qualche polemica polemiche, il massimo riconoscimento all’ultima Mostra Internazionale di Venezia. Il film racconta una storia d’amore fra un guardone omosessuale e un ragazzino marginale. Il primo è un odontoiatra proprietario di un laboratorio ben avviato, il secondo un delinquentello che vive nelle zone povere di Caracas, campando di furti e piccoli traffici. S’incontrato quasi per caso, il ragazzo picchia e deruba l’uomo più maturo e quest’ultimo finisce per innamorarsi di lui. Il giovane prova, a sua volta, affetto per il signore benestante che gli confessa di odiare suo padre senza spiegarne la ragione. Per fargli un favore, il giovane marginale uccide l’odiato genitore dell’altro, ma l’amante lo denuncia alla polizia. Siamo nei pressi del cinema melodrammatico sullo sfondo di una città caotica. Una storia d’amore e ripulsa che non si cura di offrire allo spettatore tutte le chiavi di lettura per dipanarla, ma presenta a chi la segue una confezione accurata e psicologicamente motivata. E’ un film non originale, ma sorretto da una buona capacità narrativa.
Sempre in area latinoamericana è piaciuta la semplicità e il sentimento che reggono un’altra opera prima: poster-movie-camino-a-la-paz-2015Camino a La Paz (Strada verso La Paz) dell’argentino Francisco Varone. Un tassista indipendente ottiene da un anziano mussulmano l’incarico di portarlo dalla capitale argentina a quella boliviana. Qui il vecchio dovrà incontrarsi con un fratello, più anziano di lui, per raggiungere Caracas dove imbarcarsi per la Mecca. In questo modo compirà il viaggio prescritto a ogni buon credente per adempiere a uno dei precetti dell’Islam. L’autista all’inizio è dubbioso, ma si lascia convincere dalla cospicua somma che gli è promessa. Inizia in questo modo un singolare road movie che presenta due punti d’interesse: il rapporto fra i due e l’immagine delle comunità islamiche latinoamericane. Alternando momenti drammatici come la rapina che i due subiscono ad opera di alcuni banditi travestiti da venditori di salami, a aspetti decisamente ironici come l’intera parte dedicata al cane raccolto per via. Sono momenti indispensabili a giustificare il legame che, lentamente, sale fra sino a sfociare in una bella amicizia aperta. E’ un film, come si suole dire, fatto di niente o di poco ma che ha il merito di tratteggiare con affetto e intelligenza due caratteri diversi, ma, a un tempo, solidali.
3b475b12e99a0f5e9a33330e43f2ecb1Sempre in concorso si è visto anche il film Silent (Silente) opera seconda del greco Yorgos Gkkapeppas. E’ il ritratto di una giovane cantante lirica che, ad un tratto, rimane muta. Fisicamente non ha nulla, accertano gli specialisti, è solo che il suo rifiuto psicologico di continuare a vivere si è tradotto in un’afonia volontaria. A nulla valgono le sollecitazioni di amici e parenti, la ragazza si chiude in una casa abbandonata da tempo e non risponde a nessuno. Riprenderà ad articolare qualche suono solo dopo una serie di violente scene madri, protagonisti i genitori che hanno non poche responsabilità nei confronti delle figlie. E’ il classico film basato su una forte interpretazione, la protagonista Kika Georgiou è davvero molto brava, e su un inanellarsi di scontri segnati da toni recitativi costantemente alti. Un film ben costruito, ma che non porta niente di nuovo a ciò che già sappiamo del cinema e della psichiatria.


600-miles-poster600 miles (600 miglia) è l’opera prima del regista messicano Gabriel Ripstein, figlio del maestro del cinema melodrammatico Arturo. Diversamente dal padre l sua predilezione, almeno a stare a quest’ esordio, va più cinema noir che non a quello con forti scontri di sentimenti. Nel film in questione un paio di teppistelli, uno americano particolarmente feroce e un messicano ancora ragazzino, aggrediscono e sequestrano un poliziotto dell’Arizona della squadra che contrasta il contrabbando di armi tra gli Stati Uniti e il Messico. Il prigioniero è affidato al messicano che lo porta oltre confine anche se travagliato dalla consapevolezza di aver commesso un’azione più grande di lui. Il prigioniero, da parte sua, sfrutta ogni risorsa psicologica e fisica per riconquistare la libertà e salvare la vita al ragazzino, anche se poi lo abbandona nel bel mezzo del deserto per ritornare alla vita di tutti i giorni. Il film gioca molto sulle psicologie dei personaggi e la regia sfrutta a fondo l’abilità attoriale di Tim Roth per cesellare un personaggio che, oltre la superficie, presenta un fondo di cinismo e disperazione che contratta con l’entusiasmo e l’ingenuità del piccolo delinquente. In altre prole un film interessante, in modo particolare per il disegno dei caratteri dei personaggi.
interruptionE’ un’opera prima, quantomeno a livello di lungometraggio, anche Interruption (Interruzione) del greco Yorgos Zois che vi è arrivato dopo tre cortometraggi visti e premiati nei maggiori festival. Per la verità si tratta di un classico cinema di teatro in cui l’autore propone una lettura modernissima della trilogia di Eschilo (525 a.C. – 456 a.C.) dedicata all’Orestea (Agamennone, Coefore e Eumenidi) rappresentata per la prima volta nel 458 a.C. In queste tragedie si narra l’uccisione di Cletennestra da parte del figlio Oreste, teso a vendicare la morte del padre Agamennone assassinato, dopo il ritorno dalla guerra di Troia, da una congiura ordita dalla moglie e dall’amante Egisto. Il regista affronta questa materia collocandola in un modernissimo teatro del centro di Atene, ricorrendo a spettatori apparentemente presi a caso a cui è affidato una sorta di coro e denudamenti sotto la pioggia degli attori per concludere con una scena di ballo del tutto avulsa dalle parti precedenti. Molto probabilmente l’intento, particolarmente in quest’ultima sequenza, era quello di ricondurre ogni cosa al senso del gioco e dello spettacolo, anche de siamo in piena ipotesi non legittimata da alcun indizio offerto dal regista. In poche parole un film volutamente oscuro e complesso in cui risalta l’abilità del cineasta a manovrare scene e interpreti, ma quasi avulsa da qualsiasi elemento narrativo vero e proprio.
La  tierre y la sombrasTutto chiaro, invece, ne La tierra y la sombras (La terra e l’ombra) del colombiano César Acevedo che descrive con grande realismo la vita durissima dei tagliatori di canna da zucchero del suo paese. Un lavoratore ritorna a casa dopo essere stato lontano molti anni. Ritrova il figlio morente, la moglie ferocemente tesa a rimproveragli la lontananza, la nuora e il nipote distrutti dalla vita a cui sono costretti. Tenta in ogni modo di far ricoverare l’ammalato, ma non ci riesce e un medico arriva a solo quando è già morto. Il film palpita di vita dolorosa, inanella personaggi che sembrano abitare un inferno dantesco, offre allo spettatore un quadro di sfruttamento e ferocia che fa inorridire anche il peggior capitalismo. Il film ha vinto il premio quale migliore opera prima all’ultimo Festival di Cannes e una serie di altri riconoscimenti, tutti più che meritati.


BianchiForse tutti noi viviamo in una prigione, anche se non ce ne accorgiamo. E’ quanto suggerisce la regista danese Lisa Aschan nella sua opera prima Det vita folket (Bianchi). Certo, sanno bene di essere prigionieri i personaggi del film che vivono in una galera sotterranea ipertecnologica in attesa di essere prelevati e rinviati in paesi mai ben definiti. Il discorso riguarda, ovviamente, i migranti illegali respinti dalle autorità della nazione in cui sono arrivati, ma il discorso appare ben più ampio e coinvolge tutti coloro che non sono graditi a quest’ordine sociale. Il film è ambientato in Svezia, ai nostri giorni, e la condizione di questi emarginati comporta due sole possibilità: essere espulsi o accettare di partecipare alla repressione degli altri. E’ il dilemma posto ad Alex, separata dalla figlia di cui non sa nulla e in attesa di essere forzatamente imbarcata su un volo per una destinazione non precisata. Lei tenta in ogni modo di fuggire, corrompendo uno dei guardiani o causando un finto allagamento. Tutto inutile, solo la capo sorvegliante, di cui lei ha carpito un segreto, le offrirà la possibilità di riabbracciare la figlia e sfuggire alla deportazione a prezzo di farsi a sua volta sorvegliante e aguzzina di quanti attendono di partire. Film come questo tendono a peccare di genericità proprio per voler offrire allo spettatore un quadro buono per più usi, ma in questo caso il pregio della denuncia supera questo difetto offrendo un quadro inquietante e drammatico di una situazione che ora è particolare, ma potrebbe, domani, diventare generale. L’idea di vedere la società come una grande prigione sotterranea e modernissima in cui rinchiudere tutti coloro che divergono dalle norme – si noti che le prigioniere sono bianche e fra i detenuti vi è un solo mussulmano – appare particolarmente felice e, il film, decisamente riuscito.
Sparrows posterSparrows (Passeri), opera terza dell’islandese Rúnar Rúnarsson ha, invece, un taglio decisamente psicologico nel descrivere l’uscita dalla pubertà di un giovane che la madre, divorziata e risposata, rimanda al padre naturale avendo deciso di fare un lungo giro in Africa con il nuovo compagno. Il ragazzino soffre moltissimo l’abbandono della città e lo stabilirsi in un paesino freddo e remoto le cui uniche attività sono il lavoro in una fabbrica ittica, la caccia alle foche e le colossali bevute nel miserabile pub locale. A tutto questo si aggiunge la nostalgia per il canto in un coro, di cui il giovane era uno dei punti di forza, apprezzato dal pubblico al punto di essere stato scelto per esibirsi in televisione la vigilia di Natale. Che dire poi della fauna locale, fatta di ragazzi violenti e assatanati e di ragazzine la cui unica preoccupazione è la perdita della verginità? In quesito quadro deprimente si consuma una piccola grande tragedia con la morte della nonna del giovane, l’unico essere umano che lo aveva apprezzato e trattato con affetto. Il finale è ambiguo: il ragazzo forse troverà una compagna in una coetanea che crede sia stato lui a deflorarla, mentre lo hanno fatto un paio di adulti che l’anno dragata e attirata in un’orgia alcolica. Il film è molto misurato nella descrizione delle personalità e attentissimo al tratteggio dei caratteri anche se non manca qualche sottolineatura di troppo in direzione del più feroce del gruppo. In altre parole un film costruito con abilità e precisione.


hrutur-1Premi ufficiali

Miglior film - Alessandro d’oro - Theo Angelopoulos:
HRÚTAR (Montoni) di Grímur Hákonarson (Islanda).

Premio speciale della giuria – Alessandro d’argento:
LA TIERRA Y LA SOMBRA (La terra e l’ombra) di César Acevedo (Colombia, Francia, Olanda, Cile, Brasile).

Premio speciale della giuria – Alessandro di bronzo:
CAMINO A LA PAZ (La strada per La Paz) di Francisco Varone (Argentina, Olanda, Qatar).

Migliore regia:
Gabriel Ripstein per 600 MILLAS (600 Miglia) (Messico).

Migliore sceneggiatura:
LORENZO VIGAS per DESDE ALLÁ (Da lontano) di Lorenzo Vigas (Venezuela, Messico).

Migliore interpretazione femminile:
Devon Keller per la sua interpretazione in PETTING ZOO (Zoo per piccoli animali) di Micah Magee (Germania, Grecia, Stati Uniti).

Migliore interpretazione maschile:
ALFREDO CASTRO per la sua interpretazione in DESDE ALLÁ (Da lontano) di Lorenzo Vigas (Venezuela, Messico).

Miglior contributo artistico:
SPARROWS (Passeri) di Rúnar Rúnarssom (Islanda, Danimarca, Croazia).

Premi FIPRESCI

Sezione concorso internazionale:
SILENT (Silente) di Yorgos Gkikapeppas (Grecia).

Sezione cinema greco:
BLIND SUN (Sole cieco) di Oyce A. Nashawati (Grecia, Francia)


Premio ai valori umani

LA TIERRA Y LA SOMBRA (La terra e l’ombra) di César Acevedo (Colombia, Francia, Olanda, Cile, Brasile).

Premio Fischer del pubblico

Sezione concorso internazionale:
LA TIERRA Y LA SOMBRA (La terra e l’ombra) di César Acevedo (Colombia, Francia, Olanda, Cile, Brasile).

Sezione del cinema greco – Premio MICHAEL CACOYANNIS:
SPRING AWAKENING (Risveglio primaverile) di Costantine Giannaris (Grecia)

ex aequo con

CHEVALIER (Cavaliere) di Athina Rachel Tsangari (Grecia).

Premio a un film nella sezione rassegna balcanica

MUSTANG di Deniz Gamze Ergüven (Francia, Turchia, Germania, Qatar).


Premio a un film della sezione Orizzonti Aperti

ME AND EARL AND THE DYING GIRL (Io, Earl e la ragazza morente) di Alfonso Gomez-Rejon (USA).


Premi della sezione AGORA

L’11a sezione del Forum degli incroci produttivi ha premiato il progetto:

USUD di Stefan Malisevic (Serbia, Bosnia – Erzegovina). Al produttore del film va anche la garanzia di un accredito gratuito al PRODUCER’S NETWORK del Festival di Cannes 2016.

Il premio di 10.000 euro del CNC (CENTRE NATIONAL DU CINEMA ET DE L’ IMAGE ANIMÉE) per lo sviluppo è stato assegnato a

THE LAND OF NO ONE (Terra di nessuno) di Christina Koutsospyrou e Aran Hughes (Gracia).

Menzione speciale al progetto

THE T FACTOR di Francesco Costabile (Italia).

Premio per la sceneggiatura del secondo Film WORKSHOPS del Mediterranean Film Institute (MFI) al progetto del film

TIDE (Marea) di Hussen Ibraheem (Labano)

assieme al progetto

THE DISAPPEARED (Lo scomparso) di Ramin Matin (Turchia).

Per il sesto anno la società Initiative Film ha offerto i suoi servizi a un film greco, è stato scelto

ELEFSINA di Alexandros Skouras.

Per la sezione film in sviluppo Agora è stato selezionato il progetto

CITY WITH NO COMPASS (Città senza bussola) di Antonio Savinelli (Spagna).

Una menzione d’onore è stata assegnata a THE LAST DAY (L’ultimo giorno) di Gabriel Achim (Romania).

Premio dell’associazione dei critici cinematografici greci (PEKK)

WEDNESDAY 04:45 (Mercoledì 04:45) di Alexis Alexiou (Germania, Israele, Grecia).


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