71ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia - Pagina 10

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71ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia
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chuangru zhe 1Il cinema cinese continua ad interrogarsi sul passato e il presente del paese. Ne dà prova Chuangru Zhe (Amnesia Rossa) di Wang Xiaoshuai che ha come protagonista un’anziana ex – militante fra i giovani che hanno portato avanti la rivoluzione culturale (1966 – 1969). Durante quel periodo lei aveva dato prova di osservanza alle regole politiche, ma aveva anche scalzato fraudolentemente un altro militante che aveva diritto più di lei di ritornare a Pechino. Oggi, quarant’anni dopo, sente ancora il peso di quell’imbroglio e della sue conseguenze, prima fra tutte quella che ha visto l’altra famiglia è rimare sta in campagna ove vive tutt’ora. Oggi lei abita in città, i suoi due figli hanno una vita abbastanza serena anche se uno, che è omosessuale, appare perseguitato dai pregiudizi della gente comune. Un giorno incontra l’anziana incontra un ragazzo, ricercato dalla polizia per furto e omicidio, che si rivelerà essere il figlio dell’uomo che lei aveva contribuito ad emarginare. Il film prosegue con l’acuirsi dei sensi di colpa e approda a una conclusione tragica, con il giovane che muore nel tentativo di sfuggire alla polizia. Il film è ricco di dettagli chiari e significativi per il pubblico cinese ed è realizzato con grande maestria dall’autore. Una nota di merito particolare merita Zhong Lü che dà vita con grande sensibilità alla figura dell’anziana militante travolta dai tempi nuovi. In questo la sua immagine di vecchia comunista riassume molto bene la disperazione di una generazione che si è vista sfuggire tra le dita il sogno di una società egualitaria e che ora è chiamata a fronteggiare fenomeni di arricchimento personale e modernizzazione incompatibili con le speranze e le terribili violenze del passato. Un segno di tutto ciò è rilevabile in due immagini molto significative: l’occhio malinconico e felice con cui la donna sta ad ascoltare il coro che canta vecchi canti rivoluzionari e il gruppo di anziane guardiane della morale rivoluzionaria che, munite di bracciale rosso, si riuniscono in cortile a difesa di sentimenti e ideali che non esistono più.
pasolini 3C’era attesa per il Pasolini portato sullo schermo dall’americano Abel Ferrara. Aspettative che sono andate quasi del tutto deluse da un film pasticciato, parlato per buona parte in inglese e dedicato all’ultimo giorno di vita del grande scrittore e cineasta. Si deve ammettere che non era facile recuperare la complessità del pensiero e della personalità di P.P.P. La sua idea del mondo e la pratica dell’arte sono stati sia profetici (il corsivo sul divorzio, comparso su Il corriere della sera l’indomani della sconfitta del referendum abrogazionista sulla legge Fortuna – Baslini, rimane un esempio di chiaroveggenza controcorrente) sia fortemente innovativi ed è proprio quest’aspetto a latitare nel film che oscilla fra il collage di sentenze totalmente decontestualizzate e il ritratto personale di un intellettuale che, a detta di questo regista, sembra dover essere ricordato quasi solo per le stravaganze sessuali.  In definitiva un’opera modesta, culturalmente faziosa del tutto inadeguata al personaggio e all’epoca in cui si è inserito.
burying the ex-ashley greeneanton yelchin-suzannetennerFuori concorso si è visto anche Burying the Ex (Seppellire la ex) dell’americano Joe Dante, specialista in B movie. Lo schermo trabocca di zombi, donne pettorute, ettolitri di sangue falso. La storia è quella di una ex – fidanzata, ambientalista petulante che, dopo essere morta investita da un autobus, ritorna in vita per rovinare l’esistenza dell’ex – moroso che stava per lasciarla quando lei è morta. E’ un’alluvione si squartamenti, morsi mortali, teste rovesciate e tutto il repertorio del genere con effetti anche comici, ma sostanzialmente prevedibili.
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Ničije dete (Figlio di nessuno) primo lungometraggio del serbo Vuk Ršumović (1975) che parte da una situazione già vista: alcuni cacciatori trovano casualmente, in mezzo alle montagne bosniache, un ragazzo selvaggio seminudo, vissuto sino a quel momento a contatto con i lupi. Un inizio che cita apertamente uno fra i più famosi 29.sic-no ones child-7film di François Truffaut (1932 – 1984), Il ragazzo selvaggio (L'enfant sauvage, 1969), che a sua volta prendeva spunto da una storia accaduta nel 1800 nella regione francese di Averyon che ebbe come protagonista il celebre medico, pedagogista ed educatore Jean Marc Gaspard Itard (1775 – 1838), da molti considerato il fondatore della pedagogia speciale. Come in quel caso anche il piccolo bosniaco non parla, è sporco, mangia solo se le cose sono sul pavimento e dovrà percorrere un lungo calvario per apprendere i rudimenti del vivere civile e pronunciare qualche parole. Siamo nel 1988, alla vigilia della dissoluzione dello stato jugoslavo. Qualche anno dopo le istituzioni assistenziali della neonata Repubblica di Bosnia-Erzegovina (1992) reclamano alla direzione dell’orfanatrofio di Belgrado la consegna del piccolo selvaggio, ma le autorità bosniache che non sapranno fare di meglio se non vestirlo con una divisa, mettergli in mano un mitra e mandarlo a combattere contro i serbi. L’orrore della guerra è tale che il giovane, appena ne ha l’occasione, fugge dalle trincee e ritorna a vivere nei boschi. Lo sfondo di questa tragedia individuale sono gli orrori della mattanza che ha sconvolto i Balcani con massacri (Sarajevo, Mostar, Srebrenica) di inaudita ferocia, qui citati da un cumulo si cadaveri ammassati in un bosco. La morale è chiara: la ferinità naturale è preferibile alla ferocia degli esseri umani, un discorso che rischia di cadere nel vago mentre dietro il bagno di sangue che ha sconvolto la ex-Jugoslavia c’erano ragioni precise, le radici di alcune della quali affondano negli anni. In questo modo un discorso dai tratti interessati finisce con l’apparire quasi assolutorio nei confronti di tutti.