25 Agosto 2014
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71ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia |
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Gratta, gratta Loin des Hommes (Lontano dagli uomini) del francese David Oelhoffen segue i binari di uno degli archetipi del genere western, in particolare in quella sottocategoria che è il viaggio di un prigioniero e del suo guardiano in un territorio ostile. A compire questo percorso, nell’Algeria del 1954 ove sta muovendo i primi passi quella che sarà la lotta di liberazione nazionale guidata dalla FNL, è un insegnante, francese ma di origini spagnola, a cui i gendarmi affidano un algerino che ha ucciso un cugino e che deve essere condotto in una città più grande per essere giudicato da un tribunale e, con tutta probabilità, condannato a morte. Il maestro non ha nessuna voglia di adempiere al compito, ma ne è costretto dall’arrivo di uomini in armi del villaggio d’origine dell’assassino che ne reclamano la consegna per farne giustizia sommaria. Il percorso è accidentato e termina in un massacro compiuto dall’esercito francese ai danni di una banda indipendentista che aveva catturato i due viaggiatori. Dovrebbe essere un film sulla storia del tormentato paese africano, lo spunto – in gran parte manipolato – lo offrono alcune pagine di Albert Camus (1913 - 1960) in cui lo scrittore parla delle sue esperienza d’insegnate in quella terra. Dovrebbe essere, ma il gusto per l’azione tradisce il regista e lo spinge sul terreno della storia avventurosa mettendo da parte, quasi per intero, la riflessione sia sulla guerra sia sulla violenza. La parte più suggestiva del film è negli aspri paesaggi marocchini (il film è stato girato lì per indisponibilità delle location algerine) che la regia utilizza come riflesso della durezza di carattere dei protagonisti e quale riferimento indiretto alla violenza dei tempi.
The Cut (Il taglio) del tedesco d’origine turca Fatih Akin distende su poco meno di tre ore e venti minuti il dramma del genocidio armeno compiuto dall’esercito turco, sia quello del sultano, sia l’armata nata dalla ribellione dei giovani ufficiali contro il reggitore dell’impero ottomano. La storia inizia nel 1915, in piene prima guerra mondiale, e termina nel 1923 seguendo l’odissea di un piccolo artigiano la cui famiglia è travolta dalla persecuzione contro la sua gente. S’inizia in Anatolia, per poi spostarsi in Siria, quindi a Cuba, infine negli Stati Uniti dove il protagonista rintraccia l’ultima superstite della famiglia, una giovane zoppa. Il tono vorrebbe essere quello della grande epopea, ma la sostanza del racconto, retto da una fotografia stupenda, tende più la melodramma ad uso televisivo che non al un film vero e proprio originalmente costruito. Sono molti argomenti sfiorati, nessuno dei quali affrontato seriamente, si va dalle ragioni stesse del genocidio (i turchi sono dipinti, secondo la migliore tradizione di genere, come i turchi visti come bruti dediti quasi solo allo stupro e alla violenza) alle motivazioni più squisitamente politiche (il rifiuto degli americani di accogliere menomati fisici), dal malcontento siriano verso gli occupanti alla benevolenza degli armeni cubani verso gli esuli della loro etnia. Se aggiungiamo che il film è stato girato interamente in inglese, con effetti spesso grotteschi, si avrà un’idea abbastanza precisa della funzione quasi unicamente commerciale del film.
Il secondo dei tre film italiani in concorso porta la firma di Saverio Costanzo e il titolo Hungry Hearts (Cuori affamati) stesso titolo dalla canzone di Bruce Springsteen, ma riferimento al romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso.. E’ interamente ambientato a New York e dialogato, per la stragrande parte, in inglese. E’ la storia di una coppia italo (lei) americana (lui) che si vive una situazione drammaticamente tesa quando la donna ha un figlio e vuole allevarlo secondo rigide regole vegane anche a costo di comprometterne la salute. La donna rifiuta ogni contatto con medici e nutrizionisti, convinta che il figlio sia una sorta di predestinato da mantenere puro ad ogni costo e che vi sia un futuro solo nella naturalità della vita. Coltiva verdure biologiche sul terrazzino, non dà al piccolo né carne né prosciutto, non vuole veder circolare in casa telefonini o altre diavolerie moderne, obbliga tutti a levarsi le scarpe e lavarsi le mani prima di toccare le cose di casa e, in particolare, il piccolo. E’ preda di una vera propria nevrosi che compromette il rapporto con il marito e induce la suocera a spararle onde sottrarre l’infante alla sua follia. E’ un film molto ben costruito su quello che si può definire un caso limite di scelta vegetariana, ma non innova molto nel repertorio cinematografico che già conosciamo né aggiunge forza alla filmografia di questo regista.
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