69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica - Pagina 6

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69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica
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altTerence Malik, Palma d’oro al festival di Cannes 2011 con The Tree of Life (L'albero della vita), con To the Wonder (Verso la meraviglia) ritorna su uno dei temi che gli sono cari: l’amore. Tre sono i protagonisti di questa nuova storia: un americano e una francese che s’incontrano in Francia (c’è una lunga sequenza ambientata nella zona del Mont Saint-Michel, il cui monastero era conosciuto un tempo come la Meraviglia) e un sacerdote d’origine spagnola che non sente più la voce di Dio. La coppia si ama e, con la figlia di lei, ritorna negli Stati Uniti andando a vivere assieme sino a che il visto della donna scade, ma già sono palesati i premi segnali di frattura. Dopo una breve relazione di lui con un’americana che lavora in un ranch e le delusioni che lei incontra nella capitale francese, si rimettono insieme e si sposano. Nel frattempo la ragazzina è ritornata a vivere con il padre. La vita di coppia è un alternarsi di momenti di passione e scontri, anche fisici, una convivenza turbata da un’inquietudine che nella donna assume toni di vera e propria insofferenza. Dopo che lei lo ha tradito con un compagno occasionale e glielo ha confessato, il rapporto si rompe – forse - definitivamente e lei ritorna in Europa. È un testo di taglio nettamente poetico, sorretto da immagini che rasentano la perfezione. Il tema dell’inquietudine e del degrado ambientale, l'uomo è un funzionario addetto al controllo dell’inquinamento industriale, sono tipici di questo regista le cui opere destano sentimenti profondamente contrastanti. E’ uno di quegli autori che alcuni amano follemente, altri detestano in maniera ugualmente netta. Questa sua ultima fatica, arrivata in tempi straordinariamente rapidi – dall’esordio nel 1973 con il mitico La rabbia giovane (Badlands) questo cineasta ha diretto solo sei film, questo compreso. Il testo odierno conferma in ogni sfumatura sia la vena poetica dell'autore, sia riafferma la coerenza del suo lavoro rispetto ad alcuni temi molto precisi: il dolore per la distruzione del mondo, l’analisi pessimistica dei rapporti umani, il silenzio di Dio. Un testo di non facile lettura, quasi privo di dialoghi, che chiede allo spettatore pazienza, complicità e attenzione.
altLmale et Ha’Chal (Riempire il vuoto) dell’ebrea americana Rama Burshein ci immerge nel mono chiudo delle comunità cassidiche. E’ la storia della diciottenne Shira che vive con la famiglia ultraortodossa a Tel Aviv in attesa di maritarsi con un coetaneo del suo stesso credo. Sennonché la morte durante il parto di sua sorella sconvolge ogni progetto, spingendo la madre a gettarla nelle braccia del vedovo, ben più anziano di lei, affinché questi lasci in famiglia il neonato anziché portalo con sé in Belgio, ove lo attende una fresca vedova. Il film è preciso, quasi pedante, nella ricostruzione di questo universo a parte ove vigono regole che, viste dal difuori possono apparire insensate: i coniugi dormono in letti diversi, non si guarda la televisione, né si ascolta la radio, il solo lavoro degli uomini di prestigio è lo studio della torah, si ricorre al rabbino anche per consigli sugli elettrodomestici da comprare, …. Un universo arcaico cui la regista guarda con ammirazione – non a caso dedica il film a suo marito – senza alcuna presa di distanza. L’autrice è molto religiosa e vuole usare il cinema a favore dei modi di vivere della comunità ortodossa, ha tutto il diritto di farlo, ma noi siamo altrettanto liberi di valutare il suo lavoro più come opera di propaganda che non quale elaborazione artistica.
altGiusto il contrario di Äta sova dö (Mangia dormi muori) della svedese Gabriela Pichler, presentato nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica. E’ il bel ritratto di una giovane operaia svedese, d’origine balcanica, che, nonostante la massima buona volontà e rispettando ogni norma sociale, finisce nel vortice della disoccupazione e della povertà. Raša è una ragazzona che lavora in una fabbrica, ove confeziona vaschette di verdure destinate ai supermercati. Licenziata, stenta a trovare un altro impiego, tanto che, per far quadrare il bilancio famigliare, suo padre, con cui coabita e che è seriamente ammalato, deve partire con altri operai per la Norvegia, alla ricerca di un lavoro precario. E’ un quadro desolante e realistico, quasi neorealista, di una condizione umana in un paese e in un momento storico in cui si presta scarsa attenzione alle sorti di milioni di lavoratori che rischiano il precipizio nella povertà. Il taglio stilistico evita con cura gli acuti melodrammatici, preferendo uno sguardo freddo e oggettivo denso di sottotoni socialmente indicativi. In quest’ottica la vicenda dell’immigrata e di suo padre funziona come un esempio di minuscoli drammi individuali immersi in una grande tragedia collettiva. Una nota di merito va ascritta all’interpretazione di Nermina Lukač che racconta una condizione dolorosamente lacerante senza la minima sbavatura, rendendo normale una quotidianità intrisa di dolore e disperazione.