69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica - Pagina 5

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69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica
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altDaniele Ciprì, affermato regista in compagnia di Franco Maresco e sperimentato direttore della fotografia, ha firmato il suo primo film come unico autore adattando per lo schermo il libro E’ stato il figlio (2005) di Roberto Alajmo (1959). E’ la storia, distesa su un ampio arco temporale, della famiglia palermitana Ciraulo, il cui capo guida un’abborracciata squadra di recuperatori di metallo dalle carcasse delle navi in disarmo. Con lui vivono nella stessa casa, la moglie, due figli e i suoi genitori. Un giorno, di ritorno da una gita al mare, la figlioletta è uccisa da una pallottola vagante esplosa nel corso di un regolamento i conti mafioso. Su consiglio di un vicino di casa, ben introdotto nel sottobosco malavitoso, la famiglia avanzata una richiesta di risarcimento sulla base della legge varata per le vittime della mafia. I soldi sono deliberati, ma impiegano molto tempo per arrivare. Quando sono finalmente sul tavolo di casa il capo famiglia propone di investirli nell’acquisto di una costosa Mercedes. Ora l’improvvisa ricchezza può essere esibita al vicinato sennonché, poche ore dopo il figlio superstite, istigato da un picciotto suo coetaneo, ruba le chiavi dell’auto per esibirla a sua volta. Nel farlo urta un cartello stradale e graffia la carrozzeria. L’indomani mattina il padre scopre la cosa, va su tutte le furie e inizia a picchiarlo. Interviene in suo aiuto il vicino che uccide l’aggressore. Ora bisogna trovare una soluzione e, con il cadavere ancora caldo, è la vecchia di casa a farlo: sarà il ragazzo ad addossarsi il delitto, in cambio il vero assassino s’impegnerà a provvedere per anni al sostentamento della famiglia. Tutto questo è raccontato da uno strano tipo, seduto in un ufficio postale in attesa del suo turno. Alla fine scopriremo questi che è proprio il giovane che anni prima si era addossato, innocente, il delitto e che ora vive, solo, nello stesso appartamento. Il film è molto bello e acquista forza nelle ultime sequenze, quando il tono quasi farsesco delle parti precedenti lascia il passo a una malinconia e una tristezza esistenziali che pongono l’accento l’immodificabilità di una situazione e la rocciosità di caratteri cementati da una cultura fatalista che affonda le radici nello scorrere del tempo. E’ un racconto in cui figure simboliche, situazioni grottesche e dolore sociale si danno la mano nella costruzione di un discorso forte e limpido.
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Per costruire The Master (Il maestro) Paul Thomas Anderson, una fra le voci più interessanti del nuovo cinema americano, è partito da un tema segnato da ampie venature farsesche e ne ha tratto un quadro a due voci: quelle di una sorta di leader mistico – religioso e di un marinaio ritornato a casa folle, dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale. Siamo nella prima metà degli anni cinquanta ed entrambi hanno manie precise: il predicatore crede nella rincarnazione e nell’unicità degli spiriti umani conservata nel corso del tempo, l’ex – soldato cede facilmente alla violenza e alle tentazioni sessuali. Queste due figure s’incontrano, compiono un tratto di strada in comune, si separano per poi ritrovarsi a Londra ove il predicatore ha aperto una nuova scuola. E’ un incontro fra due ossessioni in cui il regista riversa parte dello spirito psicologico e analitico presente in There Will Be Blood (Il petroliere, 2007), ove l’analisi della follia monomaniacale raggiungeva punte altissime. E’ un film di buona costruzione anche se, in alcuni momenti, soffre di derive eccessivamente teatrali, con dialoghi adatti più al palcoscenico che non al grande schermo. Un discorso a parte merita il riferimento - evidente, ma non esclusivo – alla figura di Lafayette Ronald Hubbard (1911 – 1986) autore del volume Dianetics in cui sono esposte le idee che porteranno alla fondazione della setta Scientology. Se molti tratti del ciarlatano – predicatore su cui si incentra il film richiamano la figura del fondatore di quella chiesa, nondimeno il regista appare più interessato alla psicologia dei personaggi che alla storia biografica. Ciò nel senso che i tratti emergenti dalla figure chiave che rimpolpano il racconto riguardano più la solitudine, la follia e l’inquietudine esistenziale che non la citazione cronachistica.

altIl programma della Settimana Internazionale della Critica ha presentato Küf (Muffa) opera prima del turco Ali Aydin. Basri, un ferroviere cinquantacinquenne che percorre ogni giorno chilometri a piedi per controllare i binari e segnalare intoppi e frane, è un uomo solo ossessionato dall’idea di scoprire cosa sia realmente capitato al figlio, studente universitario scomparso diciotto anni prima dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni antigovernative. Di lui non si è saputo più nulla e la polizia continua a negare di avere notizie, nonostante questo il padre invia, il quindici di ogni mese, un esposto chiedendo si faccia luce. I polizotti s’infastidiscono e lo trattano male, oltre a frapporgli ostacoli di ogni tipo. Nonostante questo calvario alla fine riuscirà a recuperare le spoglie del ragazzo, questo sia grazie al nuovo clima politico, sia per un fortuito ritrovamento di una fossa comune piena di resti umani. Parallela a questa c’è una storia, per nulla essenziale, che ha per protagonista un operaio ferroviario, ubriacone e puttaniere, solito deridere l’anziano davanti a tutti. Un giorno, mentre gira le spalle a un treno, finisce tagliato in due. Basri ha visto arrivare il convoglio ma è stato zitto rendendosi complice, in qualche modo, dell’incidente. Il film si muove sulle linee del nuovo cinema turco caro a Nuri Bilge Ceylan, usa ritmi lenti di racconto, immagini perfette, attori straordinari. E’ un testo vitale che tocca direttamente temi politici brucianti, forse in maniera sin troppo diretta. E’ un’opera cui prestare molta attenzione e che annuncia un regista di grande forza visiva.