69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica

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69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica
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La sessantanovesima Mostra D’arte Cinematografica di Venezia segna molti punti di svolta rispetto alle edizioni passate. La più evidente riguarda il ritorno alla direzione di Alberto Barbera che sostituisce Marco Müller – andato a guidare il Festival di Roma – e che aveva già svolto questo compito fra il 1998 e il 2002, quando era stato allontanato, prima ancora che il suo mandato fosse concluso, causa  un aspro conflitto il ministro Giuliano Urbani, all’epoca responsabile del Dicastero Turismo e Spettacolo. Il passaggio di testimone non certifica solo una modifica personale dello stile di direzione, ma identifica due concezioni opposte di quali debbano essere i compiti e gli obiettivi di una grande istituzione cinematografica. Non a caso sin dalla stessa dimensione numerica dei film in cartellone siamo passati da una massa corposa e, per certi versi, culturalmente caotica (si ricordi l’apertura dello scorso anno con Box Office 3D - Il film Ezio Greggio) a una vocazione attenta alla scoperta di nuovi autori e al sostegno di maestri spesso emarginati all’interno delle stesse cinematografie in cui operano.

E’ il caso di Jonathan Demme, vincitore del Premio Oscar per la miglior regia con Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) e autore, due anni dopo, di Philadelphia che farà guadagnare l’oscar per la migliore interpretazione a Tom Hanks. Quest'anno presenterà il documentario Enzo Avitabile Music Life. Anche sul versante del cinema  italiano il nuovo direttore ha preferito la selezione alle false porte aperte del predecessore, cha aveva imbottito il cartellone di titoli nostrani, molti dei quali pessimamente accolti da pubblico e critica. In altre parole siamo davanti a due filosofie: quella della massa, spesso indifferenziata, di Marco Müller e quella che pretende di scegliere nella speranza di cogliere il meglio in circolazione, anche a rischio di lasciare fuori qualche boccone pregiato. Un atteggiamento di responsabilità contro una logica quasi fieristica. Anche sul fronte puramente mercantile i due direttori la vedono in modo diverso. A fronte di una logica, abbastanza confusa, d’inseguimento dei grandi mercati di film, il nuovo responsabile si propone la creazione di una zona d’incontro fra produttori e cineasti spesso destinati a rimanere ai margini di mercati  dominati dalle grandi produzioni hollywoodiane, spesso in accordo con alcune iniziative locali a diffusione  limitata. Un’altra differenza non trascurabile riguarda il rapporto con la struttura stessa della manifestazione. In passato si sono preferiti gli aspetti più glamour trascurando necessità più impellenti anche se meno clamorose. Si sono spesi milioni in allestimenti e feste buone, al massimo, per catturare un pugno di telecamere. Nello stesso tempo si è fatto ben poco per risolvere l’orrore del buco maleodorante aperto di fronte al palazzo del Casinò, infelice ricordo di vanagloria incompiuta legata all’ipotesi di costruzione di un nuovo palazzo del cinema. Il neo direttore, invece, ha preteso, come prima cosa, che si trovasse una soluzione a questo problema restituendo alla manifestazione dignità anche architettonica. Un'altra differenza riguarda la ricerca affannosa e costosissima di presenze divistiche. In precedenza molti sforzi sono stati fatti per assicurarsi nomi importanti, soprattutto americani, anche a costo di mettere in cartellone titoli di non altissimo valore. Con la nuova direzione questa tendenza sembra essersi attenuata, anche se non si è  rinunciato a ospitare nomi importanti, ma lo si è fatto unendo i lustrini del richiamo divistico alla qualità dei prodotti presentati. Se mancava la seconda, si è preferito rinunciare anche alla prima. Si tratta, dunque, d’ipotesi di lavoro molto diverse sia per impostazione culturale, sia per approccio imprenditoriale


altLa Mostra è iniziata con due note contrastanti: una struttura espositiva sobria ed elegante, quale non si vedeva da anni e la presentazione di un paio di film non proprio indispensabili. Iniziamo dal primo aspetto. Il colore dominante è il banco degli edifici riportati a un aspetto presentabile con le facciate ridipinte di fresco e la copertura (parziale) della voragine scavata in vista della costruzione di un nuovo palazzo del cinema, progetto sepolto si spera definitivamente. C’è stato anche un inizio di razionalizzazione degli spazi del palazzo del casinò con la costruzione di una nuova sala, intitolata come la vecchia, al Conte Volpi. Un cinema funzionale, bello e confortevole. A questo si è aggiunta la risistemazione dell’atrio del vecchio Palazzo che ora è diventato elegante punto d’appoggio per molteplici attività oltre che, come di consueto, sfondo per la tradizione passerella serale di divi e funzionari. La Biennale, infine, ha preso in carico anche il palazzetto antistante la sede principale, oltre che un intero secondo piano dell’Hotel Excelsior destinato a sede del nuovo mercato dei film. Note meno positive sono arrivate dai primi film in programma. Bait 3D (Esca in 3D) è una coproduzione fra Australia e Singapore diretta da Kimble Rendall. Vi si raccontano le tragiche avventure di un gruppo di persone intrappolate nei locali di un supermercato invaso dalle acque scatenate da uno tsunami, con squali giganteschi che nuotano fra i rottami degli scaffali in attesa che gli umani si azzardino a scendere in acqua. Ovviamente ci ritroviamo molti stereotipi del cinema horror: i grandi predatori (realizzati con molta approssimazione tecnica), il gruppo ristretto in pericolo formato da personalità contrastanti, gli ex amanti che si riconciliano e via elencando. Non c'è nulla di nuovo se non l’aggiunta delle tre dimensioni, per nulla indispensabili al racconto, ma usate solo in maniera sfacciatamente commerciale. Certo a leggerlo come parodia multigenere c’è da trarne qualche momento di divertimento, ma la regia non fa nulla – se non un finalissimo abbastanza desueto – per guidarci su questa strada.
Enzo Avitabile Music Life (Enzo Avitabile Musica Vita) è un omaggio che l’americano Jonathan Demme ha reso al musicista partenopeo e al suo lavoro per coinvolgere ritmi e strumenti provenienti dai più disparati paesi sul terreno della canzone napoletana. Il tutto è costruito con grande attenzione alla spiritualità e a importanti temi sociali. E' un ottimo documento e un toccante atto d’amore, ma più un’esaltazione che un approfondimento del percorso artistico di una grande musicista. Un film da vedere con piacere e che non annoia neppure per un minuto, anche chi non ha una sensibilità musicale particolarmente pronunciata.
altUfficialmente la mostra si è aperta con The Reluctant Fundamentalist (Il fondamentalista riluttante) che l’indiana Misa Nair ha tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore pakistano Mohsin Hamid (1971) pubblicato nel 2007. Un lungo incontro fra un professore sospettato dalla CIA di essere un fiancheggiatore dei fondamentalisti islamici e un agente americano, mascherato da romanziere e giornalista, consente ai due di raccontare parte dei loro precorsi di vita. In particolare è il docente a narrare, in lunghi flash back, il suo percorso da promettente analista finanziario, vessato dai servizi di sicurezza americani dopo la strage delle Torri Gemelle. In parallelo c'è la sua storia d’amore con una fotografa americana andata in crisi dopo aver causato, guidando ubriaca, la morte di un fidanzato. Il film è ben costruito, particolarmente sul versante della storia poliziesca, abbastanza ipocrita nel tentativo di conciliare le ragioni di entrambi i contendenti, notevolmente generico nell’appello alla pace e al rifiuto della lotta armata. Un buon prodotto commerciale in cui impegno politico e analisi sociale hanno funzioni del tutto accessorie.
altSi è aperta anche la Settimana Internazionale della Critica con la presentazione Water (Acqua), film israelo – palestinese formato da sette episodi diretti da: Ahmad Bargouthi (Kareem’s PoolLa piscina di Kereem), Mohammad Bakri (Eye DropsGocce per gli occhi), Mohammad Fuad (The Water Seller – Il venditore d’acqua), Nir Sa’ar e Maya Sarfaty (Still WatersAncora acqua), Pini Tavger (Drops - Gocce), Tal Haring (Now and ForeverOra e per sempre), Yona Rozenkier (Raz and RadjaRaz e Radia). Come capita sempre in opere corali non tutte le parti sono riuscite in egual misura. Si passa da tagli documentaristici (La piscina di Kereem, Il venditore d’acqua) a situazioni quasi comiche (Ora e per sempre) a parti più sperimentali, quasi surreali. Due i momenti più indicativi. L’attore e regista palestinese Mohammad Bakri racconta, in Gocce per gli occhi, l’incontro suo e dei suoi figli con l’ultima sopravvissuta, una maestra di musica, di una famiglia sterminata dai nazisti. La vegliarda, che morirà di lì a poco, scambia padre e figli per la stessa persona che chiama con un nome israeliano invece di quello palestinese. E’ un incontro dolce e amaro di due mondi colpiti dalla persecuzione, un quadro drammatico di due generazioni perdute. Pini Tavger traccia con Gocce il ritratto di un militare che ha (forse) una relazione incestuosa con la madre. Durante un’esercitazione il giovane si nasconde in un lavatoio e suona Il Bolero (1928) di Maurice Ravel (1875 – 1937) percuotendo un armadio al ritmo delle gocce che cadono dai rubinetti. E' un panorama quasi surreale, ma anche la contrapposizione fra i ritmi della pace e quelli della guerra.


altIl cartellone del concorso ha presentato il primo film importante: Izmena (Tradimento) del russo Kirill Serebrennikov. E’ la storia di una doppia infedeltà coniugale. Un uomo, appartenente alla nuova borghesia russa, apprende dalla dottoressa che gli sta praticando un check-up di routine che sua moglie ha una relazione con il marito del medico che lo sta esaminando. La donna gli fornisce anche molti particolari, compresi i luoghi in cui i due sono soliti incontrarsi e la camera d’albergo dove si rifugiano. L’uomo affronta la moglie, ma questa nega ogni cosa indignata. La dottoressa tuttavia insiste e, piano piano, s’instaura un legame anche tra i due traditi, che assistono, dal terrazzo sovrastante la camera affittata dagli amanti, alla fine dei due che, spinti soprattutto dalla donna, fanno l’amore sul poggiolo della stanza, provocando la rottura della balaustra e la conseguente caduta mortale. A questo punto il regista ha una trovata veramente geniale. Per segnalare allo spettatore lo scorrere del tempo – cinque anni - ci mostra la donna che corre nella foresta, trova un sacco pieno di abiti, si spoglia e riveste con i panni appena trovati, poi va incontro a un uomo che la stava aspettando in auto: il suo nuovo marito. Da questo punto parte un’altra vicenda: entrambi i vedovi hanno nuovi compagni – lui ha anche un figlio – ma nessuno dei due ha dimenticato la passione di un tempo, che riesplode violenta sino alla morte dell’uomo, causa un infarto che lo coglie proprio nella camera d’albergo che hanno ereditato di defunti amanti. E’ un film limpido nella costruzione visiva, complesso in quella narrativa, straordinario nella descrizione dell’evolversi dei sentimenti. Franziska Petri, che da corpo e volto alla dottoressa, descrive perfettamente l’evoluzione di una donna da una quasi frigidità a una tempesta erotica. Accompagna in modo preciso il passaggio graduale dalla freddezza professionale e dalle umiliazioni sessuali domestiche al calore passionale di una relazione clandestina.
altSuperstar, che il francese Xavier Giannoli ha tratto dal libro L’idole (L’idolo, 2004) di Serge Joncourt, è un’opera riuscita a metà. La storia, in partenza abbastanza originale, è quella di un lavoratore di un centro per il recupero di parti di macchinari elettronici in disuso, una fabbrica in cui lavorano soprattutto minorati leggeri, che una mattina scopre che tutti vogliono fotografarlo e chiedergli autografi. Lui non ha fatto nulla per diventare famoso, se non la vita tranquilla di un uomo qualunque, ciononostante è conosciuto da tutti, inseguito da fotografi e cineoperatori. Il film innesta, con un talk show televisivo, un inizio di riflessione sulla responsabilità dei media e la loro propensione a creare fatti anche laddove nulla è successo. Il discorso apre prospettive molto interessanti, ma nella seconda metà il film svolta verso la più classica delle storie d’amore – venate di moralismo – fra il poveraccio e una produttrice televisiva che non ha ancora messo da parte tutte le ragioni dell’etica e della morale. Certo il racconto è ben costruito e il film regge abbastanza sul piano della semplice storia ma approda a un bilancio più vicino all’occasione perduta che non alla proposta valida.
altE’ quanto capita anche a La città ideale opera prima dell’attore Luigi Lo Cascio. Il film, presentato nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica, racconta di un ecologista estremista – vuole vivere a Siena per un intero anno senza acqua corrente né elettricità – che incappa in un drammatico fatto di cronaca: è accusato ingiustamente di avere travolto in auto e ucciso un maggiorente della città. I suoi guai aumentano quando, contro il parere dell'avvocato, accetta di raccontare la sua versione dei fatti. Prede il lavoro, finisce a vivere in una cantina, è scartato da tutti gli ex –amici. Uscirà – forse – dai guai solo grazie alle manovre di un legale siciliano, maneggione esperto nella tecnica di difendere i mafiosi. I temi dell’estremismo ambientalista e della cecità sostanziale della giustizia non sono argomenti da poco e al regista va riconosciuto il merito di averli affrontati di petto. Peccato che il linguaggio utilizzato, in particolare nei numerosi sogni e incubi, scivoli sul versante delle peggiori scelte linguistiche e non mostri neppure un briciolo di autentica originalità. In poche parole è un testo generoso raccontato in un modo non all’altezza della complessità dei temi affrontati.


altParadies: Glaube (Paradiso: fede) dell’austriaco Ulrich Seidl è il secondo capitolo di una trilogia avviata con Paradise: Liebe (Paradiso: amore) dedicata alle donne e al rapporto con il proprio corpo. Nel primo film questa relazione esplodeva nel turismo sessuale compiuto da una donna di mezza età in Kenya, ove cerca in amori mercenari una qualche compensazione alla mancanza d’affetto che si porta dentro. Nel nuovo film il tema è identico, ma la situazione è capovolta: laddove l’eccesso di sesso cercava, senza riuscirci, di mascherare un profondo vuoto esistenziale, qui la situazione è antitetica e ruota attorno alla denuncia della fallacità dei mezzi cui si chiede una risposta esistenziale. Ove c'era abbondanza ora c'è un'astinenza assoluta che rivolta ogni istinto verso la religione al punto di trasformare un crocefisso in una sorta di vibratore. Il quadro è quello offerto da una matura paramedica, sorella della protagonista del primo film, che si fa militante cattolica di prima linea portando in giro statuette della madonna da offrire a famiglie sconosciute come occasione di preghiera e ravvedimento religioso. Queste Madonne pellegrine artigianali sembra siano una prassi di qualche successo nell’area germanica. Solo che questa donna ha un passato assai meno pio: sposata con un islamico ritornato in patria dopo essere stato vittima di un incidente che l’ha paralizzato, se lo vede ritornare a casa con tanto di reclamo dei doveri coniugali. Lo scontro ideologico e religioso fra i due non potrebbe essere più violento, arrivando sino al confronto fisico. E’ un film straordinario e di grande valore metaforico in cui il regista osserva con occhio freddo, ma tutt’altro che imparziale, il fanatismo religioso. Ci sono momenti agghiaccianti, come la preghiera collettiva di questi militanti di Cristo chiusa con la promessa di battersi strenuamente affinché l’Australia ritorni cattolica. In altre parole è un testo complesso nella sostanza, lineare nella forma, straordinario nella rappresentazione psicologica. Per noi è il primo serio candidato al Leone d’Oro.
altAnche At Any Price (A qualsiasi prezzo) dell’americano Ramin Bahrani sviluppa un ritratto sociale feroce, costruito in forma di vicenda personale. Siamo in piena corn belt, qui un agricoltore e venditore di sementi cerca di espandere la propria attività coinvolgendo il figlio, promettente corridore automobilistica, e accaparrandosi quanti più acri possibili, anche a costo di usare metodi eticamente non ortodossi. Il quadro è quello dell’America profonda, immersa in una panorama piatto e sconfinato. Le cose si mettono male quando un vicino, cui ha soffiato un importante lotto di terreno, lo denuncia alla società che ha brevettato un certo tipo di seme. In realtà, contravvenendo al contratto, il possidente lava i semi consentendone la riutilizzazione nella stagione successiva. Le cose sembrano precipitare quando un cruento colpo di scena – l’uccisione del figlio di un concorrente – apre la strada a una soluzione (forse) positiva. E’ una feroce parabola sulla corsa al denaro e sul successo economico quale unica misura del valore umano. C’è ben poco di originale, ma un buon film commerciale costruito con abilità e gusto. La nota veramente dominante è in un paesaggio fatto di campi assolati e di cieli abbaglianti che sembrano guardare con assoluta indifferenza i triboli degli esseri umani.

altUna giovane donna ritorna a Bruxelles dopo tre mesi d’assenza passati all’estero. Durante questo periodo non ha dato notizia di sé, neppure all’uomo con cui viveva e di cui sostiene di essere ancora innamorata. Con Welcome Home (Bentornata a casa), presentato nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica, l’artista audiovisivo belga Tom Heene racconta questo ritorno mettendo in scena tre possibili incontri slegati da una qualsiasi cronologia. La donna è investita da un‘auto si cui viaggiano alcuni giovani funzionari della Comunità Europea, l’incidente è grave e la ragazza potrebbe morire o sopravvivere. Qui il film imbocca le due strade: ritorno a casa e tentativo di riconciliazione con l’amante o ricovero in ospedale e morte. Prima, all’arrivo all’aeroporto, c’era stato l’incontro con un iraniano che ritorna in Belgio ad anni di distanza dal soggiorno di studio che vi ha fatto da giovane. Sono altrettanti pretesti per tratteggiare i cambiamenti intervenuti negli anni e le profonde trasformazioni intervenute nella città e testa di uomini e donne. E’ anche un modo per rilevare come non sia possibile sfuggire al proprio destino, anche a costo di allontanarsi per mesi dalla vita di tutti i giorni. I tre incontri sono rappresentati anche da altrettanti stili cinematografici: toni solari all’arrivo, cupi e notturni nelle ore dell’incidente, freddi nelle sequenze ospedaliere. Per la verità non tutto è facilmente comprensibile e, nonostante l’ottima performance degli attori, non pochi momenti rimangono oscuri. E' un esordio maturo più sul versante della confezione stilistica che non su quello della narrazione.


 

altDaniele Ciprì, affermato regista in compagnia di Franco Maresco e sperimentato direttore della fotografia, ha firmato il suo primo film come unico autore adattando per lo schermo il libro E’ stato il figlio (2005) di Roberto Alajmo (1959). E’ la storia, distesa su un ampio arco temporale, della famiglia palermitana Ciraulo, il cui capo guida un’abborracciata squadra di recuperatori di metallo dalle carcasse delle navi in disarmo. Con lui vivono nella stessa casa, la moglie, due figli e i suoi genitori. Un giorno, di ritorno da una gita al mare, la figlioletta è uccisa da una pallottola vagante esplosa nel corso di un regolamento i conti mafioso. Su consiglio di un vicino di casa, ben introdotto nel sottobosco malavitoso, la famiglia avanzata una richiesta di risarcimento sulla base della legge varata per le vittime della mafia. I soldi sono deliberati, ma impiegano molto tempo per arrivare. Quando sono finalmente sul tavolo di casa il capo famiglia propone di investirli nell’acquisto di una costosa Mercedes. Ora l’improvvisa ricchezza può essere esibita al vicinato sennonché, poche ore dopo il figlio superstite, istigato da un picciotto suo coetaneo, ruba le chiavi dell’auto per esibirla a sua volta. Nel farlo urta un cartello stradale e graffia la carrozzeria. L’indomani mattina il padre scopre la cosa, va su tutte le furie e inizia a picchiarlo. Interviene in suo aiuto il vicino che uccide l’aggressore. Ora bisogna trovare una soluzione e, con il cadavere ancora caldo, è la vecchia di casa a farlo: sarà il ragazzo ad addossarsi il delitto, in cambio il vero assassino s’impegnerà a provvedere per anni al sostentamento della famiglia. Tutto questo è raccontato da uno strano tipo, seduto in un ufficio postale in attesa del suo turno. Alla fine scopriremo questi che è proprio il giovane che anni prima si era addossato, innocente, il delitto e che ora vive, solo, nello stesso appartamento. Il film è molto bello e acquista forza nelle ultime sequenze, quando il tono quasi farsesco delle parti precedenti lascia il passo a una malinconia e una tristezza esistenziali che pongono l’accento l’immodificabilità di una situazione e la rocciosità di caratteri cementati da una cultura fatalista che affonda le radici nello scorrere del tempo. E’ un racconto in cui figure simboliche, situazioni grottesche e dolore sociale si danno la mano nella costruzione di un discorso forte e limpido.
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Per costruire The Master (Il maestro) Paul Thomas Anderson, una fra le voci più interessanti del nuovo cinema americano, è partito da un tema segnato da ampie venature farsesche e ne ha tratto un quadro a due voci: quelle di una sorta di leader mistico – religioso e di un marinaio ritornato a casa folle, dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale. Siamo nella prima metà degli anni cinquanta ed entrambi hanno manie precise: il predicatore crede nella rincarnazione e nell’unicità degli spiriti umani conservata nel corso del tempo, l’ex – soldato cede facilmente alla violenza e alle tentazioni sessuali. Queste due figure s’incontrano, compiono un tratto di strada in comune, si separano per poi ritrovarsi a Londra ove il predicatore ha aperto una nuova scuola. E’ un incontro fra due ossessioni in cui il regista riversa parte dello spirito psicologico e analitico presente in There Will Be Blood (Il petroliere, 2007), ove l’analisi della follia monomaniacale raggiungeva punte altissime. E’ un film di buona costruzione anche se, in alcuni momenti, soffre di derive eccessivamente teatrali, con dialoghi adatti più al palcoscenico che non al grande schermo. Un discorso a parte merita il riferimento - evidente, ma non esclusivo – alla figura di Lafayette Ronald Hubbard (1911 – 1986) autore del volume Dianetics in cui sono esposte le idee che porteranno alla fondazione della setta Scientology. Se molti tratti del ciarlatano – predicatore su cui si incentra il film richiamano la figura del fondatore di quella chiesa, nondimeno il regista appare più interessato alla psicologia dei personaggi che alla storia biografica. Ciò nel senso che i tratti emergenti dalla figure chiave che rimpolpano il racconto riguardano più la solitudine, la follia e l’inquietudine esistenziale che non la citazione cronachistica.

altIl programma della Settimana Internazionale della Critica ha presentato Küf (Muffa) opera prima del turco Ali Aydin. Basri, un ferroviere cinquantacinquenne che percorre ogni giorno chilometri a piedi per controllare i binari e segnalare intoppi e frane, è un uomo solo ossessionato dall’idea di scoprire cosa sia realmente capitato al figlio, studente universitario scomparso diciotto anni prima dopo essere stato arrestato con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni antigovernative. Di lui non si è saputo più nulla e la polizia continua a negare di avere notizie, nonostante questo il padre invia, il quindici di ogni mese, un esposto chiedendo si faccia luce. I polizotti s’infastidiscono e lo trattano male, oltre a frapporgli ostacoli di ogni tipo. Nonostante questo calvario alla fine riuscirà a recuperare le spoglie del ragazzo, questo sia grazie al nuovo clima politico, sia per un fortuito ritrovamento di una fossa comune piena di resti umani. Parallela a questa c’è una storia, per nulla essenziale, che ha per protagonista un operaio ferroviario, ubriacone e puttaniere, solito deridere l’anziano davanti a tutti. Un giorno, mentre gira le spalle a un treno, finisce tagliato in due. Basri ha visto arrivare il convoglio ma è stato zitto rendendosi complice, in qualche modo, dell’incidente. Il film si muove sulle linee del nuovo cinema turco caro a Nuri Bilge Ceylan, usa ritmi lenti di racconto, immagini perfette, attori straordinari. E’ un testo vitale che tocca direttamente temi politici brucianti, forse in maniera sin troppo diretta. E’ un’opera cui prestare molta attenzione e che annuncia un regista di grande forza visiva.


altTerence Malik, Palma d’oro al festival di Cannes 2011 con The Tree of Life (L'albero della vita), con To the Wonder (Verso la meraviglia) ritorna su uno dei temi che gli sono cari: l’amore. Tre sono i protagonisti di questa nuova storia: un americano e una francese che s’incontrano in Francia (c’è una lunga sequenza ambientata nella zona del Mont Saint-Michel, il cui monastero era conosciuto un tempo come la Meraviglia) e un sacerdote d’origine spagnola che non sente più la voce di Dio. La coppia si ama e, con la figlia di lei, ritorna negli Stati Uniti andando a vivere assieme sino a che il visto della donna scade, ma già sono palesati i premi segnali di frattura. Dopo una breve relazione di lui con un’americana che lavora in un ranch e le delusioni che lei incontra nella capitale francese, si rimettono insieme e si sposano. Nel frattempo la ragazzina è ritornata a vivere con il padre. La vita di coppia è un alternarsi di momenti di passione e scontri, anche fisici, una convivenza turbata da un’inquietudine che nella donna assume toni di vera e propria insofferenza. Dopo che lei lo ha tradito con un compagno occasionale e glielo ha confessato, il rapporto si rompe – forse - definitivamente e lei ritorna in Europa. È un testo di taglio nettamente poetico, sorretto da immagini che rasentano la perfezione. Il tema dell’inquietudine e del degrado ambientale, l'uomo è un funzionario addetto al controllo dell’inquinamento industriale, sono tipici di questo regista le cui opere destano sentimenti profondamente contrastanti. E’ uno di quegli autori che alcuni amano follemente, altri detestano in maniera ugualmente netta. Questa sua ultima fatica, arrivata in tempi straordinariamente rapidi – dall’esordio nel 1973 con il mitico La rabbia giovane (Badlands) questo cineasta ha diretto solo sei film, questo compreso. Il testo odierno conferma in ogni sfumatura sia la vena poetica dell'autore, sia riafferma la coerenza del suo lavoro rispetto ad alcuni temi molto precisi: il dolore per la distruzione del mondo, l’analisi pessimistica dei rapporti umani, il silenzio di Dio. Un testo di non facile lettura, quasi privo di dialoghi, che chiede allo spettatore pazienza, complicità e attenzione.
altLmale et Ha’Chal (Riempire il vuoto) dell’ebrea americana Rama Burshein ci immerge nel mono chiudo delle comunità cassidiche. E’ la storia della diciottenne Shira che vive con la famiglia ultraortodossa a Tel Aviv in attesa di maritarsi con un coetaneo del suo stesso credo. Sennonché la morte durante il parto di sua sorella sconvolge ogni progetto, spingendo la madre a gettarla nelle braccia del vedovo, ben più anziano di lei, affinché questi lasci in famiglia il neonato anziché portalo con sé in Belgio, ove lo attende una fresca vedova. Il film è preciso, quasi pedante, nella ricostruzione di questo universo a parte ove vigono regole che, viste dal difuori possono apparire insensate: i coniugi dormono in letti diversi, non si guarda la televisione, né si ascolta la radio, il solo lavoro degli uomini di prestigio è lo studio della torah, si ricorre al rabbino anche per consigli sugli elettrodomestici da comprare, …. Un universo arcaico cui la regista guarda con ammirazione – non a caso dedica il film a suo marito – senza alcuna presa di distanza. L’autrice è molto religiosa e vuole usare il cinema a favore dei modi di vivere della comunità ortodossa, ha tutto il diritto di farlo, ma noi siamo altrettanto liberi di valutare il suo lavoro più come opera di propaganda che non quale elaborazione artistica.
altGiusto il contrario di Äta sova dö (Mangia dormi muori) della svedese Gabriela Pichler, presentato nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica. E’ il bel ritratto di una giovane operaia svedese, d’origine balcanica, che, nonostante la massima buona volontà e rispettando ogni norma sociale, finisce nel vortice della disoccupazione e della povertà. Raša è una ragazzona che lavora in una fabbrica, ove confeziona vaschette di verdure destinate ai supermercati. Licenziata, stenta a trovare un altro impiego, tanto che, per far quadrare il bilancio famigliare, suo padre, con cui coabita e che è seriamente ammalato, deve partire con altri operai per la Norvegia, alla ricerca di un lavoro precario. E’ un quadro desolante e realistico, quasi neorealista, di una condizione umana in un paese e in un momento storico in cui si presta scarsa attenzione alle sorti di milioni di lavoratori che rischiano il precipizio nella povertà. Il taglio stilistico evita con cura gli acuti melodrammatici, preferendo uno sguardo freddo e oggettivo denso di sottotoni socialmente indicativi. In quest’ottica la vicenda dell’immigrata e di suo padre funziona come un esempio di minuscoli drammi individuali immersi in una grande tragedia collettiva. Una nota di merito va ascritta all’interpretazione di Nermina Lukač che racconta una condizione dolorosamente lacerante senza la minima sbavatura, rendendo normale una quotidianità intrisa di dolore e disperazione.


altAprès Mai (Dopo maggio, ma da noi uscirà con il titolo Qualcosa nell'aria) del francese Olivier Assayas (1955) mira a tracciare è un quadro, se non della generazione del mitico 1968, di quella dei loro fratelli minori. Siamo in una scuola della periferia parigina, nel 1971, ove si scontrano anarchici, maoisti, trotskisti, ciascuno con la sua verità preconfezionata in tasca, uniti solo dall’odio verso la borghesia e il Partito Comunista Francese. Il film segue, è un dato autobiografico, un giovane aspirante pittore, poi cineasta, che milita fra i libertari estremi avendo sempre di mira più l’arte che la rivoluzione. Anche se vorrebbe essere il ritratto di un’intera generazione, il regista ci dice poco sulle scelte che faranno questi ribelli, scelte che porteranno non pochi di loro a ritornare, a capo chino, nelle file della borghesia diventando manager, grandi avvocati, intellettuali osannati, banchieri, direttori di giornali o di reti televisive. Diceva Italo Calvino, lo citiamo a memoria, che l’estremismo è la posizione più vicina al cedimento. Ciò che manca al film è lo scavo delle ragioni profonde che, nel caos generale, hanno indotto molti a rientrare nei ranghi da cui provenivano, altri a sprofondare nell’inferno della droga – l’accento alla ragazza che si fa d’eroina è più scenografico che analitico - altri ancora ad abbandonarsi fino alla follia terrorista. A proposito di quest’ultimo argomento va detto che la breve sequenza dell’auto incendiata, perché utilizzata per un qualche reato politicamente mascherato, dice poco e niente su un tema di bruciante drammaticità. Si obietterà che questo è solo un film e non un saggio storico, ma quando un artista decide di mettere in scena il clima che ha segnato un’intera generazione, il minimo che gli si può chiedere e di essere attento agli elementi fondamentali che hanno contribuito a creare quel clima. Per il resto il film scorre bene, gli attori hanno i volti e i fisici giusti, la storia segue un percorso scarno ma lineare. Le obiezioni riguardano, dunque, il complesso del discorso, ma non sono tali da invalidare completamente l’opera.
altIl giapponese Takeshi Kitano si muove su vari fronti, uno è quello delle storie su yakuza e scontri fra bande criminali. E’ il terreno su ci ha ottenuto maggiori consensi di pubblico e che l’ha reso famoso in tutto il mondo, mentre i suoi film più fantasiosi o romantici non sono approdati a risultati analoghi. Outrage Beyond (Oltre l’indignazione) appartiene al filone gangsteristico di cui ripropone non pochi stilemi: il giustiziere silenzioso e sostanzialmente solitario – affidato all’interpretazione dello stesso regista – lo scontro fra famiglie criminali con tradimenti, agguati, sparatorie. Il tutto confezionato con abilità, cura e intelligenza badando, in modo particolare, a conservare un ritmo narrativo accattivante. Rimane il dubbio, espresso già in altre occasioni, se tutta questa messa in scena di uccisioni, dita mozzate e delizie simili contribuisca realmente a ironizzare e a smitizzare la violenza o se, invece, non finisca col magnificarla.
altO luna in Thailanda (Un mese in Tailandia) è l' opera prima del rumeno Paul Negoescu, vista nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica. Il film si svolge nelle ore che precedono e seguono la mezzanotte dell’ultimo dell’anno. Radu e Adina, giovani laureati, si apprestano a festeggiare con alcuni amici dopo aver fatto l’amore e pranzato con i genitori di lei. Nel bel mezzo del veglione di fine d’anno il giovane dice alla fidanzata che la loro storia è finita e che lui vuole rimettersi con la vecchia fiamma che aveva lasciato per unirsi a lei. Inizia a questo punto una lunga ricerca fra bar e discoteche per ritrovare l’ex amata, che è finalmente scovata e che, dopo qualche timida esitazione, accetta di ritornare fra le sue braccia. Una storia che appare bannale e che potrebbe meritare, al massimo, il tempo di un cortometraggio, ma che il regista riesce a trasformare in un quadro efficace dello smarrimento di un’intera generazione incerta fra i lustrini di un capitalismo di cui inizia a intravvedere le dure regole e la disperazione di una società chiusa e povera, non ancora del tutto archiviata. Un film lineare, ricco di lunghe pause che cadenzano una narrazione distesa, riflessiva dai molti significati.


altPieta (Pietà) è il diciottesimo film del coreano Kim Ki-duk, un cineasta il cui lavoro spazia dai temi religiosi (Primavera estate autunno inverno … e ancora ... - Bom yeorum gaeul gyeoul gurigo bom , 2003), ai drammi psicologici (Samaria La Samaritana, 2004) non trascurando argomenti apertamente politici (Hae anseonLa guardia costiera, 2002). In tutto questo girovagare ha sempre mantenuto ferma una linea poetica ben precisa: non c’è premio per i peccatori, nessuna redenzione attende i malvagi, anche se si pentono sinceramente delle loro azioni. Potremmo definirla una morale piuttosto protestante che buddista e la ritroviamo anche in quest’ultimo lavoro in cui si raccontano i giorni e le cattive azioni di un giovane incaricato da uno strozzino di recuperare prestiti concessi a interessi esosi. E’ un tipo che non si ferma davanti a nulla e storpia chi non può pagare, fracassandogli gambe e braccia. Per tutelarsi ha fatto sottoscrivere a ogni debitore una polizza assicurativa favore del creditore, in modo che il rimborso causato dalla menomazione copra quanto dovuto. La sua fama è così diffusa che uno dei debitori si uccide – è l’inizio del film – anziché subire le sue angherie. Lo sfrondo è un quartiere di casupole in cui vivono e lavorano modesti artigiani, uno spazio assediato da grattacieli e mastodontici centri commerciali. Un giorno una donna bussa alla sua porta sostenendo di essere sua madre e di averlo abbandonato appena nato perché costretta da insormontabili difficoltà economiche. Il picchiatore dapprima la respinge, poi inizia ad apprezzate la presenza di qualcuno che si prenda cura di lui disinteressatamente. Alla fine scopriremo che non si tratta di sua madre bensì della mamma di una delle vittime e ha ordito una sottile vendetta. Il film abbonda d’immagini dure, quasi oltre la sopportazione fisica, com’è nello stile di quest’autore. Sangue e violenza sono posti al servizio di un discorso che ruota attorno, come già detto, dell’incancellabilità della colpa, l’impossibilità di porre rimedio a ciò che si è fatto. E’ un film forte, violento, meno originale di altre opere di questo cineasta, ma pur sempre un testo apprezzabile e di ottimo livello.
altValeria Sermiento, documentarista e regista cilena di televisione e cinema, ha portato a termine, per conto del produttore portoghese Paulo Branco, Linhas de Wellington (Le linee di Wellington), film ideato da un altro cileno: Raoul Ruiz. Lo scenario è quello delle guerre napoleoniche, in particolare la fallimentare spedizione comandata dal maresciallo André Masséna (1758 –1817) – fu proprio questa guerra a segnare la sua fine come comandante militare - lanciata nel 1810 e indirizzata all’invasione del Portogallo per allargare i confini dell’impero francese. La spedizione terminò con il mesto ritorno in patria della grand armée dopo che il comandante aveva dovuto costatare l’insuperabilità delle linee di difesa fatte erigere dal generale inglese sulla via per Lisbona. E’ un grande affresco storico, dominato dalle sofferenze della popolazione civile – gli inglesi costrinsero migliaia di contadini a bruciare campi e case e ad aggregarsi a una migrazione biblica verso il sud del paese – in cui i grandi condottieri hanno ruoli farseschi: il maresciallo francese è un incompetente borioso, il generale inglese, un vanitoso preoccupato più della sua immagine che non del benessere delle truppe. Probabilmente il tema che stava a cuore a Raoul Ruiz era proprio il dolore degli umili e l’indifferenza dei potenti, ma nel film visto oggi questi argomenti restano sullo sfondo, annegano in uno scenario grandioso popolato di decine di personaggi, oggetto di cammei di grandi divi. Come dire è un film storico – colossale, mirabile nella confezione, ma più patriottardo che non anticonformista.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha presentato due toccanti ritratti di donne. No quiero dormir sola (Non voglio dormire da sola) opera prima della messicana Natalia Beristain ruota su due figure femminili e su una marginale, maschile. Amanda è la giovane figlia di un attore di successo convinto che per assolvere i suoi doveri basti riempirla di regali. Dolores è sua nonna e madre del divo. L’anziana sprofonda, giorno dopo giorno, nell’alcolismo e nella demenza senile. Abbandonata dal figlio, trova nella nipote una ruvida ancora di salvezza che la sorregge anche quando finisce in una casa di riposo per ex attori. Il film è tutto nel dialogo – confronto fra queste due donne, una alla fine della vita, oppressa dal ricordo di una gloria passata, l’altra incapace di trovar una strada personale in un mondo che abita più che vivere. Ovvio che un film così impostato richieda attrici sublimi. Tali sono Adriana Roel e Mariana Gajá che recitano impegnandosi completamente e riservando uno spazio fondamentale ai rispettivi corpi: quello giovane, ma già imperfetto, della ragazza e quello deliziosamente, umanamente, sfasciato dell’anziana. In casi come questo si apprezza in modo particolare il coraggio di attori e attrici capaci di mettersi in gioco senza remore o barriere, spingendo sino all’estremo quella straordinaria attività che è il recitare.


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Bella addormentata di Marco Bellocchio è il secondo film italiano compreso nel calendario della sezione competitiva. Di quest’opera si è molto parlato, per ragioni più politiche che artistiche, soprattutto dopo che i responsabili del settore cinema della Regione Friuli Venezia – Giulia hanno concesso al produttore un contributo negato in seguito dall’assessore alla cultura della regione, infine ripristinato dopo una lunga polemica che ha coinvolto intellettuali, cineasti e politici. Ha fatto discutere anche il fatto che il film ricostruisse la drammatica storia di Eluana Englaro (1970 – 2009), la ragazza rimasta in coma irreversibile per ben diciassette anni, deceduta dopo che il padre Peppino l’aveva fatta trasportare in una clinica di Udine affinché le fosse staccata la spina, cosa avvenuta la sera del nove febbraio 2009. La vicenda scatenò polemiche roventi fra i sostenitori della vita ad ogni costo e i fautori della libertà di scelta. Il governo di Silvio Berlusconi, all’epoca in carica, tentò una sorta di blitz presentando un disegno di legge teso a impedire la messa in partica dell’interruzione di alimentazione, progetto naufragato, anch’esso fra polemiche tutt’altro che disinteressate, per la sopraggiunta morte della donna. Il film utilizza questa vicenda come sfondo per tre storie. La prima ha al centro un senatore di Forza Italia in crisi di coscienza, poiché il disegno di legge che è chiamato ad approvare contrasta frontalmente con i suoi principi. Il parlamentare, inoltre, ha alle spalle un episodio analogo: anni prima lui ha spento la macchina che manteneva in vita la moglie, malata terminale. In queste stesse ore sua figlia, militante del movimento per la vita, s’innamora del fratello di un sostenitore del padre di Eluana. La seconda vicenda ha al centro una tossicodipendente che tenta più volte di uccidersi ed è salvata da un medico che s’innamora di lei. L’ultima vicenda è quella di un’attrice famosa che abbandona tutto pur di stare vicina alla figlia, in coma irreversibile. Si circonda di suore e infermiere e mette da parte non solo la professione, ma anche gli affetti familiari, figlio in primo luogo. Il film è molto ben costruito, politicamente violento nella denuncia dell’ipocrisia dei politici, Silvio Berlusconi sopra di tutti con il suo delirante discorso sulla possibilità che la donna in coma potesse ancora avere un figlio. Ciò che convince di meno è il collegamento fra le varie storie - che appaiono abbastanza estranee l’una alle altre tranne la prima - rispetto allo sfondo prescelto. Sono spunti per altrettanti film e rimane il rimpianto che il regista non li abbia conservati per altre opere. Nel complesso è un film molto interessante e coraggioso, denso di notazioni e personaggi di grade spessore, ma non tutti ugualmente essenziali al racconto.
altIn concorso è comparso anche Spring Breakers (Vacanze di primavera) dell’americano Harmony Korine. Confessiamo che questo è il primo titolo che ci ha spinti a chiederci per quale ragione sia stato messo in cartellone. E’ la storia di quattro liceali che compiono una rapina per procurarsi i denari indispensabili a passare un periodo di vacanza in Florida. Qui - in un’atmosfera piena di seni, sederi e giovani vocianti degna del Playboy degli anni ottanta – cadono nelle mani di un gangster che presto sottomettono alle loro voglie. Quando questi si scontra con un boss della droga due di loro – le altre nel frattempo sono tornate all’ovile – sterminano accoliti e capo dopo di che ritornano anche loro a casa su una fiammante Ferrari. In tutto il film - qualunque siano le situazioni, compreso un rapido soggiorno in prigione – si presentano in bikini fosforescenti, bevono a garganella, sniffano cocaina e fanno l’amore nei luoghi più disparati fra loro e con il capo. E' difficile dare un significato a questo groviglio d’immagini più vicine a uno spot pubblicitario vecchia maniera che con un vero film.
altPer fortuna è arrivato a soccorrerci l’ultracentenario (1908) Manoel de Oliveira che ha portato, fuori concorso, la sua ultima fatica: O gebo e a sombra (Gebo e l’ombra) tratto dal romanzo omonimo di Raul Germano Brandão (1867 – 1930). Tutto si svolge nel giro di poche ore, quando un contabile, capo di una famiglia povera, ritorna a casa con l’incasso della ditta per cui lavora. La moglie è continuamente in lacrime, causa il figlio andato via per condurre una vita libera e criminale, la nuora attende mestamente il ritorno del marito, lui passa le ore accudendo alle solite, monotone incombenze. Ogni cosa precipita quando il figlio ritorna improvvisamente all’ovile e ruba i soldi che il padre ha in custodia. A questo punto al vecchio non resta che incolparsi del furto per salvare il resto della famiglia. Nel film, girato quasi per intero con i protagonisti seduti a tavola, molti sono gli echi cechoviani e dostoevskiani, in particolare sul destino degli umili e l’impossibilità per i poveri a sfuggire al loro stato. Interpreti d’eccezione sono Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, Leonor Silveira, Luis Miguel Cintra. E’ un film stilisticamente lineare, limpido nello stile e coerente con la corposa filmografia di questo cineasta.
altLe trasformazioni sociali non colpiscono solo la società, ma cambiano profondamente la condizione psicologica di milioni di persone. Tale è il caso di Lotus, giovane insegnante di cinese in una scuola nel nord della Cina. Indipendente, sensibile, colta è invisa a colleghe e colleghi legati a metodi tradizionali e precettisti, la sua condizione peggiora quando la moglie del suo amante, un funzionario capitato in città da fuori, le fa una piazzata a scuola, davanti a tutti. Ora la sua condizione è diventata del tutto insostenibile e deve lasciare l’impiego e trasferirsi nella capitale. Qui le condizioni sono ancora più difficili fra poliziotti corrotti, lavori umilianti, padroni arroganti. E’ una lenta discesa agli inferi da cui emerge, in un finale apparentemente lieto, sposando un riccone che non ama, ma che le assicura un alto stato economico. L’immagine di questa donna somma le contraddizioni di un paese impegnato a unire autoritarismo politico a sviluppo economico, anche a prezzo di innescare una macelleria sociale tragica e violenta. Xiao He (Loto), opera d’esordio della cinese Liu Shu presentato nel cartellone della Settimana Internazionale della critica, è un film equilibrato che affronta con un taglio quasi documentario l’altra faccia del miracolo cinese. Più della vicenda della giovane insegnante quelle che contano sono le ambientazioni in pulciose camere d’albergo, cucine unte di prestigiosi ristoranti, uffici di polizia simili ad anticamere di campi di prigionia. E’ tutto quello che si cela dietro un luccichio economico attento al denaro e al profitto, ma del tutto indifferente alla condizione degli esseri umani. Per completare il quadro un finale moralmente tragico: la donna si sistemerà diventando la compagna di un nuovo ricco. Avrà auto e denaro, ma a prezzo di perdere ogni speranza di reale autonomia.


altBrillante Mendoza è un regista filippino che alterna opere di grande violenza come Captive (Prigioniera, 2012) a testi pervasi di un forte sentimento umano (Nonna, 2009). Sinapupunan (Il tuo ventre) appartiene a quest’ultimo filone e racconta la vita difficile della matura Shaleha Sarail, levatrice in alcuni isolotti dell’arcipelago. Per vivere aiuta il marito nella pesca e intreccia stuoie, ma è oppressa dal rimorso di non aver dato un figlio al coniuge, che tanto lo desidera anche per compire il volere di Allah. La strada per uscire dall’impaccio sembra essere quella di trovare una seconda moglie. Inizia a questo punto il giro delle possibili fidanzate, ma le doti pretese costano troppo, oppure le famiglie non sono d’accordo. Alla fine si trova una giovane, ma lei pretende che lo sposo s’impegni a ripudiare la vecchia moglie non appena lei avrà partorito. Così avviene e la prima moglie è messa alla porta subito dopo aver collaborato al parto della seconda. Il film allinea paesaggi meravigliosi e scenari particolari – i villaggi sull’acqua che costellano l’arcipelago – e tratteggia una condizione femminile che i dettami religiosi e la tradizione spingono assai vicino a quella di un animale da soma. E’ un film forte, dal ritmo molto lento ma funzionale alle cadenze del racconto.
altPaesaggi straordinari, ma scenario apocalittico, quelli che compaiono in La cinquième saison (La quinta stagione) della coppia belga Jessica Woodwort e Peter Brosens. In un villaggio nel cuore delle Ardenne si sta per celebrare la fine dell’inverno, ma il falò che dovrebbe simboleggiare l’addio alla cattiva stagione rifiuta di incendiarsi. Inizia in questo modo un totale sconvolgimento del tempo: la primavera non arriva, le piante non crescono, le mucche non danno latte, l’estate brucia ogni cosa, l’autunno è segnato da rigurgiti di fanatismo e uccisioni di pseudo – untori. La colonna sonora di questo percorso luttuoso cadenza rumori di aerei, suoni di guerra, annunci d’inquinamento globale. In altre parole è la fine del mondo civile, spazzato via dalla follia degli uomini o dall’impazzimento della natura. Un film apocalittico che fa crescere una tensione quasi insopportabile accompagnata da bellissime immagini della natura che riecheggiano la grande pittura fiamminga, da Pieter Bruegel (1530 circa – 1569), a Rembrandt van Rijn (1606 –1669), a Jan Vermeer (1632 – 1675). E’ questo contrasto fra la seraficità del paesaggio e le immagini terribili che, progressivamente, lo popolano a dare al film un fascino del tutto particolare.
altDel tutto diverso il bilancio di The Company You Keep (Tutti i miei) che Robert Redford ha diretto e interpretato traendolo da un romanzo di Neil Gordon edito nel 2004. E’ la storia di un membro del gruppo terrorista Weather Underground (1969-76), i cui membri si resero responsabili di una lunga serie di attentati a istituzioni pubbliche e a banche. Nel 1981, durante uno di questi espropri proletari, fu uccisa una guardia giurata. Per questo delitto l’FBI emise una serie di mandati di cattura, pochi dei quali realmente eseguiti. Il film inizia con l’arresto, trent’anni dopo quel delitto, di una delle appartenenti al gruppo, complice nella rapina omicida, ma da oltre tre decenni insospettabile casalinga. La cosa rimette in moto la caccia agli altri latitanti, fra questi un distinto avvocato, da poco vedovo, costretto a darsi alla fuga nella speranza di provare che a quel delitto non ha preso parte. Il tutto è raccontato dal giovane reporter di un giornale di provincia che avvia la caccia al fuggitivo e, progressivamente, è coinvolto nei sogni dei vecchi rivoltosi. Il film cede molto sul versante del melodramma, con inutili scoperte di figli dati in adozione e zoppicanti storie d’amore, ma conferma la vocazione democratica di un autore e attore fra i più longevi della scena americana.
altIl vampirismo è un argomento che ha sempre affascinato il cinema e, prima ancora la letteratura. Sin da quando lo scrittore irlandese Abraham – Bram - Stoker (1847 – 1912) ottenne un grande successo con Dracula (1897), un racconto gotico che rielaborava storie in circolazione da secoli nei Balcani attorno alla leggenda del principe rumeno Vlad Ţepeş Dracul. Il cinema si è subito impadronito di questo personaggio da Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau (1888 – 1931) sino a Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula, 1992) di Francis Ford Coppola (1939). Recentemente è nata una versione romantica di questo mito, creata sull’onda dei romanzi della scrittrice americana Stephenie Meyer (1973) utilizzati per quella che è stata definita The Twilight Saga: Breaking Dawn (parti 1 – 2011 - e 2 – 2012) per la regia di William Condon (1955). Kiss of the Damned (Il bacio dei dannati), opera prima dell’attrice e regista Xan Cassavetes, figlia del famoso e John, ha agganci molto forti con quest’ultima utilizzazione della figura del principe vampiro. Il film, presentato fuori concorso alla Settimana Internazionale della Critica, ha al centro Djuna, un’affascinante vampira ritiratasi a vivere in una bellissima casa di campagna. Qui incontra uno sceneggiatore che s’innamora di lei. La donna non vorrebbe coinvolgerlo nel suo destino, ma poi cede alla passione. Tutto si complica con l’arrivo di Mimi, sorella della protagonista e anche lei vampira. Alla fine l’amore trionferà anche a rischio di metter a repentaglio la comunità vampiresca. Il film è girato con grande maestria e professionalità anche se aggiunge poco a ciò che ci è già stato offerto dal genere. In particolare il contrasto, molto romantico, fra amore e morte non aggiunge nulla a quanto propostoci da altri autori. Unica aggiunta quella di un erotismo piuttosto spinto, ma anche quest’elemento ha ben poco di originale.


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Francesca Comencini, figlia dell’indimenticabile Luigi e sorella di Cristina, ha tratto Un giorno speciale, ultimo film italiano in concorso, dal romanzo Il cielo con un dito (2010) di Claudio Bigagli (1955). Una squillo, con speranze di diventare un’attrice, deve incontrare un politico importante che ha promesso di raccomandarla per un ruolo in televisione. Questi manda a prenderla una macchina con un autista che è al primo giorno di lavoro. Un intoppo impedisce al politico di mantenere l’impegno, rinviando l’incontro di ora in ora. In questo modo la ragazza e il neoassunto passano assieme un’intera giornata, fra incomprensioni, rancori e progressivo innamoramento. Alla fine, quasi in piena notte, arriva la disponibilità del parlamentare a incontrare la giovane, onde ricevere il compenso sessuale per la raccomandazione. E’ un brusco ritorno alla realtà, che divide le strade dei due, salvo, nel finale, un (improbabile) ritorno amoroso del ragazzo. E’ una storia di dimensione perfetta per un mediometraggio – il romanzo non arriva alle 150 pagine - che la regista stiracchia sino alle dimensioni di un film di normale durata. Lo stile narrativo è piano e le immagini prediligono scorci di grande bellezza, ma il risultato complessivo è in parte compromesso da un esito incongruentemente quasi ottimistico. In conclusione siamo alla presenza di un’opera, professionalmente matura, ma non troppo originale.
altBrian De Palma è ritornato in Europa, più precisamente a Berlino, per girare Passion (Passione), nuova versione di Crime d'amour (Crimine d’amore, 2010) di Alain Corneau (1943 – 2010). L’ambientazione è in una grande agenzia pubblicitaria diretta da una manager cinica e arrivista che non esita ad appropriarsi del lavoro di una creativa per far carriera. La cosa innesca uno scontro senza esclusione di colpi fra le due donne, lotta che sfocia in un delitto con tanto di colpo di scena finale. Ritroviamo in quest’opera lo stile e gli interessi che segnano l’intera filmografia di questo cineasta, da Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) sino a Femme Fatale (2002). Opere da cui traspare un forte interesse per passioni e crimini. In questo caso c’è anche una notevole parte sessuale, caratterizzata dalla dissolutezza libertina della grande manager e dalla passione saffica di una segretaria verso l’altra donna. E’ un film costruito molto bene, attento alla purezza delle immagini, preciso negli snodi narrativi, teso dalla prima all’ultima immagine. Anche in questo caso un’opera professionalmente altissima, ma che aggiunge ben poco a quanto sapevamo del suo autore.
altCon questi due titoli si è chiusa la passerella del concorso e non resta che attendere il verdetto dei giurati. Da parte nostra abbiamo già espresso preferenze nei confronti di cinque titoli: La cinquième saison (La quinta stagione) di Jessica Woodworth e Peter Brosens, E’ stato il figlio di Daniele Ciprì, Pieta (Pietà) di Kim Ki-duk, Paradies: Glaube (Paradiso: fede) di Ulrich Seidl e Izmena (Tradimento) di Kirill Serebrennikov. Dubitiamo che il nostro giudizio coincida con quello della giuria che, nel decidere, deve tener conto sia di sensibilità molto diverse, sia di precise opportunità diplomatiche. In ogni caso saremmo felici se almeno uno di questi titoli comparisse nel palmares.


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PREMI UFFICIALI

LEONE D’ORO
PIETA (Pietà) di Kim Ki-duk (Corea del Sud)
LEONE D’ARGENTO
THE MASTER (Il maestro) di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA
Paradies: Glaube (Paradiso: Fede) di Ulrich Seidl (Austria, Germania, Francia)
COPPA VOLPI
migliore interpretazione maschile
Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix nel film THE MASTER (Il maestro) di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
migliore interpretazione femminile
Hadas Yaron nel film LEMALE ET HA’CHALAL (Riempire il vuoto) di Rama Bursthein (Israele)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente
Fabrizio Falco nel film BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio (Italia) ed È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprí (Italia)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA
Olivier Assayas per il film APRES MAI (Dopo maggio) di Olivier Assayas (Francia)
PREMIO PER IL MIGLIORE CONTRIBUTO TECNICO, PER LA FOTOGRAFIA
Daniele Ciprì per il film È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì (Italia)
LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIIS) e un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.
KÜF (Muffa) di Ali Aydin (Turchia, Germania) presentato dalla SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
PREMI ORIZZONTI
SAN ZIMEI (Tre sorelle) di Wang Bing (Francia, Hong Kong)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI
Per i lungometraggi
TANGO LIBRE (Tango libero) di Frédéric Fonteyne (Francia, Belgio, Lussemburgo)
Peri il miglior cortometraggio
CHO-DE (Invito) di Yoo Min-young (Corea del Sud)
EUROPEAN FILM AWARDS 2012-EFA a:
TITLOI TELOUS (Il Sutra del diamante) di Yorgos Zois (Grecia)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2012
Francesco Rosi
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER
Spike Lee
PREMIO PERSOL
Michael Cimino
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA
Giulia Bevilacqua


PREMI COLLATERALI


Premio FIPRESCI
sezione competitiva
The Master (Il maestro) di Paul Thomas Anderson
Sezioni Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
Premio SIGNIS
To The Wonder (Verso il magnifico) di Terrence Malick
Menzione speciale
LEMALE ET HA’CHALAL (Riempire il vuoto) di Rama Burshtein
Premio del pubblico “RaroVideo” – Settimana della Critica
Äta Sova Dö (Mangia dormi muori) di Gabriela Pichler
Premio Label Europa Cinemas
Crawl (Strisciare) di Hervé Lasgouttes
Leoncino d'Oro Agiscuola
Pieta (Pietà) di Kim Ki-duk
Segnalazione Cinema for UNICEF
È stato il figlio di Daniele Ciprì
Premio Francesco Pasinetti (SNGCI)
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
miglior documentario
La nave dolce di Daniele Vicari
miglior interpretazione
Valerio Mastandrea per Gli Equilibristi
Pasinetti speciale
Clarisse di Liliana Cavani
Premio Brian
Bella Addormentata di Marco Bellocchio
Premio Queer Lion (Associazione Cinemarte)
The Weight (Il peso) di Jeon Kyu-Hwan
Premio Arca CinemaGiovani
Sezione competitiva
La Cinquième saison (La quinta stagione) di Peter Brosens e Jessica Woodworth
miglior film italiano
La città ideale di Luigi Lo Cascio
Biografilm Lancia Award
ex aequo a La nave dolce di Daniele Vicari e Bad25 di Spike Lee
Premio CICT - UNESCO “Enrico Fulchignoni”
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
Premio CICAE - Cinema d’Arte e d’Essai
Wadjda di Haifaa Al Mansour
Premio CinemAvvenire
sezione competitiva
Paradies: Glaube (Paradiso: fede) di Ulrich Seidl
miglior film
Wadjda di Haifaa Al Mansour
Premio FEDIC
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
menzione speciale
Bellas Mariposas (Belle farfalle) di Salvatore Mereu
Premio Fondazione Mimmo Rotella
Après Mai (Dopo maggio) di Olivier Assayas
Future Film Festival Digital Award
Bad25 di Spike Lee
menzione speciale
Spring Breakers (Vacanze di primavera) di Harmony Korine
Premio P. Nazareno Taddei
Pieta (Pietà) di Kim Ki-duk
menzione speciale
Sinapupunan (Il grembo) di Brillante Mendoza
Premio Lanterna Magica (CGS)
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
Premio Open
The Company You Keep (Tutti i miei) di Robert Redford
Premio La Navicella – Venezia Cinema
Sinapupunan (Il grembo) di Brillante Mendoza
Premio Lina Mangiacapre
Queen Of Montreuil (La regina di Montreuil) di Sòlveig Anspach
Premio AIF - FORFILMFEST
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
Mouse d'Oro
Pieta (Pietà) di Kim Ki-duk
Mouse d’Argento
Anton tut ryadom (I diritti di Anton) di Lyubov Arkus
Premio Uk - Italy Creative Industries Award – Best Innovative Budget
L’intervallo di Leonardo Di Costanzo
Premio Gillo Pontecorvo - Arcobaleno Latino
Laura Delli Colli
Premio Christopher D. Smithers Foundation
Low Tide (Bassa marea) di Roberto Minervini
Interfilm Award for Promoting Interreligious Dialogue
Wadjda di Haifaa Al Mansour
Premio Giovani Giurati del Vittorio Veneto Film Festival
The Company You Keep (Tutti i miei) di Robert Redford
menzione speciale
Toni Servillo
Premio Cinematografico “Civitas Vitae prossima”
Terramatta di Costanza Quatriglio
Premio Green Drop
La cinquième saison (La quinta stagione) di Peter Brosens e Jessica Woodworth.
           

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