46mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 6

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46mo Karlovy Vary International Film Festival
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La passerella dei titoli in concorso si è chiusa con la presentazione degli ultimi due film. La penultima opera è stata Roméo Onze (Romeo Undici) del canadese, d’origini libanesi, Ivan Grbovic (1979). Lo sfondo è quello della comunità cristiano maronita di Montreal, in cui vive la famiglia di Rami, un ventiquattrenne handicappato sottomesso a un padre, proprietario di ristorante, autoritario e tradizionalista che lo crede impegnato in studi amministrativi, cosa che ha abbandonato da qualche tempo. Per sfuggire all’oppressione domestica e alla solitudine chatta, con lo pseudonimo di Romeo undici, con una bella ragazza bionda – a stare alla foto che mette on line – presentandosi con un manager indaffarato e sempre in viaggio. Dopo qualche tempo decide d’incontrarla, affitta una camera in un lussuoso albergo, prenota un tavolo in un ristorante alla moda, ma non resiste alla tensione e fugge prima dell’arrivo della supposta ragazza. Supposta, perché dietro alla sua foto si celano alcuni suoi amici che, per prenderlo in giro e umiliarlo, hanno messo in moto la trappola. Distrutto e ancor più emarginato, quasi muore facendosi investire da un’auto. Al matrimonio, in puro stile mediorientale, della sorella incontra una ragazza e, forse, si apre per lui la possibilità di una relazione vera. Di sicuro ha il coraggio di dire al padre che non vuol più lavorare con lui e cercherà la sua strada da solo. E’ un bel ritratto della solitudine di un minorato fisico ed è anche una precisa descrizione della chiusura che segna molte comunità d’immigrati, in Canada e altrove. Il regista non dimentica la passata esperienza di direttore della fotografia curando le immagini sin nei minimi particolari. Il film ha qualche lungaggine di troppo e di nota che è pensato da un autore avvezzo più al racconto breve che non a quello lungo, ma il bilancio complessivo è positivo.

Era un’opera prima anche l’ultimo titolo in cartellone: Vᴂlese 304 (Stanza 304) della danese Birgitte Stᴂrmode (1863). In un albergo di Copenaghen risuona un colpo di pistola, senza che se ne sappia l’origine. Forse è stato il gesto di vendetta di uno sguattero kosovaro nei confronti di un connazionale, capitato nell’hotel, che gli ha stuprato madre e sorella nel corso di una delle guerre che hanno disintegrato la Iugoslavia. Forse è stato l’atto suicida di una hostess affamata d’affetto al punto da ricercarlo in qualsiasi uomo incontri. Forse è stato il gesto di rabbia di un portiere ingiustamente rimproverato dalla direttrice del front desk. In realtà nulla di tutto questo, ma un tragico evento che arriva come un vero, riuscito colpo di scena. Il film, fotografato con straordinaria precisione, è stato girato mantenendo la macchina da presa costantemente sui volti e i corpi dei protagonisti, il che gli da un taglio vagamente televisivo, ma non banale.