46mo Karlovy Vary International Film Festival

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46mo Karlovy Vary International Film Festival
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 1 – 9 luglio 2011

sito web: http://www.kviff.com/

Il Festival Internazionale del Film di Karlovy Vary, giunto quest’anno alla 46 edizione, è una delle manifestazioni cinematografiche più importanti d’Europa. Ospitato in una delle cittadine termali meglio conservate e ricche di memorie storiche, qui nella seconda metà dell’ottocento era di casa per passare le acque la migliore nobiltà centro europea, dopo la caduta del regime realsocialista è diventato luogo ideale d’incontro di cineasti e film di qualità. Materiali che stentano sempre più a trovare canali di contatto con il pubblico, un pubblico che qui è sempre molto numeroso e composto, per la maggior parte, da giovani studenti e appassionati della settima arte. Quest’anno è stato segnato dal cambio parziale di direzione: Eva Zaoralová, artefice della rinascita di questa manifestazione negli anni post – socialisti è diventata il principale consulente e delle scelte culturali della competizione Direttore artistico è diventato Karel Och, mentre la presidenza continua ad essere nella mani dell’attore e manager Jiří Bartoška.

La sezione competitiva del festival ha preso il via con il film francese Ni à vendre, ni à louer (Non da vendere né affittare, ma il titolo internazionale è Holidays by the sea - Vacanze al mare) del disegnatore di fumetti Pasacal Rabaté (1961). Il film nasce da una delle sue graphic stories ed è sostanzialmente privo di dialoghi. Su una spiaggia di Saint-Nazaire, in Bretagna, durante la morta stagione, si ritrovano vari personaggi. Due coppie e un uomo, con tendenze sadomaso, alloggiano all’albergo L’Océan. Quest’ultimo si fa ammanettare dal letto e frustrare da un’amante compiacente. Solo che, sul più bello, lei lo lascia in quella scomoda posizione, gli ruba vestiti, macchina, documenti e scappa. Gli altri quattro vanno al mare e, dopo qualche inciampo dovuto a un aquilone sfuggito al controllo, si scambiano i partner. Nel frattempo altri villeggianti vivono in scomode roulotte, in case minuscole, in improbabili tende oppure, come la coppia hippy cui va la simpatia del regista, non dormono direttamente sulla spiaggia. Accadono vari incidenti tutti generalmente a lieto fine, fra cui un funerale punteggiato d’inciampi. Ci sono anche un paio di borseggiatori che gozzovigliano saldando i conti con la carta di credito sottratta al cultore delle pratiche sadomaso. Il film è praticamente muto, con qualche battuta qua e la che non va oltre le due o tre sillabe. Oltre che riferimenti ai fumetti ci sono non poche citazioni cinematografiche che spaziano da Jacques Tati (Le vacanze di Monsieur HulotLes vacances de Monsieur Hulot, 1953) a Pierre Étaix (Quando c’è la salute - Tant qu'on a la santé, 1965), tutte debitamente aggiornate ai giorni tempi. Ne nasce un film non originalissimo, ma sicuramente poetico e coraggioso nel suo andare programmaticamente controcorrente rispetto al cinema chiassoso che trionfa sugli schermi.

Notevolmente diversa l’atmosfera di No tiengas miedo (Non avere paura) del veterano spagnolo Montxo Armendáriz (1949) che affronta un tema delicato e terribile: quello degli abusi sessuali dei padri sulle figlie. Silvia, nata in una famiglia benestante, subisce le voglie del padre sin da bambina. Riuscirà a liberarsene e a superare i traumi nati da questa violenza ripetuta, solo quando diventerà donna. Ci riuscirà con la volontà e con l’aiuto di una psichiatra che ne ha compreso l’intimo travaglio. Il suo percorso è cadenzato dalle confessioni di altre persone che hanno attraversato esperienze simili e si riuniscono per superare, assieme, l’orrore in cui sono caduti. E’ un testo civile e di grande impegno che non guarda solo al dramma degli abusi sessuali, ma scandaglia a fondo i legami che saldano la vittima al carnefice in un viluppo che condiziona un’intera esistenza. Non un film segnato da grande originalità, ma un buon prodotto artigianale cui contribuiscono non poco le interpretazioni di Michelle Jennifer e Lluis Homar.

Nelle altre, numerose, sezioni in cui si articola il festival si sono viti un paio di titoli di rilievo. The Mill and the Cross (Il mulino e la croce, 2011) del regista polacco Lech Majewski é una lettura approfondita del quadro dipinto da Peter Brughel il vecchio (1525/30 – 1569) nel 1564: Processione vero il calvario. E‘ un'opera che, citando la Passione di Cristo, rimanda a una metafora sulla condizione umana. Il film è costruito, anche attraverso la tecnica della grafica computerizzata, come un susseguirsi di scene e immagini che rimandano allo stile del dipinto. Un approccio che inserisce un parallelo diretto fra la Palestina dominata di Romani e l’Olanda, in quegli anni sottomessa al Regno di Spagna. Così facendo il Cristo diventa una vittima di un’oppressione feroce e sanguinaria. L’operazione è interessante, anche se soffre di un eccesso d’intellettualizzazione.

Pancho ne e mrtov (Il punk non è morto, 2010) del macedone Vladimir Blaževski (1955) riparte dagli odi e i conflitti lasciati sul campo dalla dissoluzione della Iugoslavia. Lo fa attraverso la storia di una band anarchicheggiante dissolta dalla divisione del paese e i cui membri sono caduti nella miseria, il crimine, la droga. Un impresario albanese ha la bella idea di rimetterli assieme e far fare loro un concerto nel cuore dell’Albania. La cosa va in porto dopo numerosi impicci, il conserto si svolge in davanti a una platea di anziati e militanti nazionalisti che cacciano i musicisti. Questi ultimi, una volta ritornati in Macedonia sono picchiati a sangue dai fanatici macedoni che non perdonano loro di avere suonato per gli odiati vicini. Il film non batte strade nuove, ma ha il merito di ricordarci quanto profonde siano le divisioni che ancora separano genti che, siano a venti anni or sono, erano cittadini dello stesso paese.


Boker tov adon fidelman (titolo internazionale Restauro) dell’israeliano Joseph Madmony è un film costruito su una serie di personaggi, non tutti ben disegnati, che raccontano la vita di una famiglia di Tel Aviv. Un anziano restauratore, appartenente alla comunità ebraico – georgiana, muore fra le braccia di una prostituta lasciando erede della sua proprietà principale, un laboratorio di restauro sull’orlo del fallimento, il figlio di Yaakov Fidelman, un ebreo d’origine polacca, che è stato suo socio per molti anni. L’anziano artigiano ha sempre vissuto un’esistenza umile e fuori da ogni luce, disinteressandosi quasi totalmente dell’andamento commerciale dell’azienda per cui quasi impazzisce quando viene a sapere che i creditori stanno per portarsi via il magazzino in cui ha passato la vita a rimettere in sesto mobili antichi. Suo figlio, nuovo comproprietario, ha idee tese alla speculazione e agli affari immobiliari, sua moglie aspetta un bambino e lui non ha certo voglia di interessarsi di quell’attività che produce solo debiti. Inoltre circola nei pressi anche un giovane apprendista che apprezza, corrisposto, la moglie in attesa. E’ un groviglio di relazioni in cui non mancano colpi di scena, sembra che l’erede sia figlio del defunto e non dell’altro, scene madri, conflitti di taglio apertamente melodrammatico. Il tutto cucinato in salsa notevolmente televisiva, con primi e primissimi piani che dominano dall’inizio alla fine, e senza un reale approfondimento dei personaggi. Solo quello principale, interpretato da uno straordinario Sasson Gabai, ha caratura compiuta, gli altri non vanno oltre il tratteggio. Come dire che siamo alla presenza di un film solo parzialmente riuscito. Ad esempio la regia non rende chiare a occhi non israeliani le profonde differenze fra i personaggi, tra ebrei di provenienza centroeuropea e immigrati georgiani, signori di una delle più forti mafie che allignano in terra d’Israele.

Die Unsichtbare (letteralmente L’invisibile, ma il titolo internazionale è La fessura nella conchiglia) del tedesco Christian Schwochow è un film sul teatro. Un regista maniaco e crudele vuole mettere in scena una versione di Camille, con attori appena usciti dalla scuola di teatro. I giovani accorrono entusiasti, ma presto si accorgono di essere caduti nelle mani di un uomo egocentrico e sadico. E’ soprattutto la giovane scelta per interpretare la parte principale a pagare le conseguenze della violenza psichica che la spinge sino a tentare il suicidio. Ci sono anche altre figure laterali – la sorella minorata della protagonista, il tecnico con cui intreccia una breve relazione – ma ciò che conta è il rapporto fra la giovane donna e il maturo teatrante che ha già rovinato l’esistenza ad altre attrici. Nonostante tutto, lo spettacolo andrà in scena e molto probabilmente, avrà successo. Il mondo del teatro è quasi un universo a parte, rispetto la vita normale, un terreno in cui le relazioni fra le persone avvengono spesso come sottofondo dello stare in scena o della possibilità di andarci. Un campo in cui la finzione e i veri sentimenti s’intrecciano in maniera così stretta che appare quasi impossibile districarli. La mancanza del film è nel non cercare seriamente di mettere a confronto questo mondo parallelo con quello reale. Un solo esempio. E’ più che probabile che registi sadici e maniaci come questo esistano realmente, ma anche loro devono fare i conti con impresari, amministratori, organizzatori culturali. Questo Kaspar Friedmann sembra, invece, un dittatore che può fare ciò che vuole senza rendere conto a nessuno.

Belvedere è il nome del campo per rifugiati in cui vivono, a Srebrenica, i superstiti del massacro compito nel 1995 dalle truppe serbo - bosniache comandate dal generale Ratko Mladić, non a caso soprannominato il boia di Srebrenica. Belvedere è anche il titolo del film di Ahmed Imamović che inaugurato la sezione East of the West (L’est dell’ovest) mettendo a confronto due realtà: quella dei superstiti che non riescono a ottenere giustizia né a dimenticare i traumi subiti - si tenga conto che gli accordi di Dayton lasciarono la città nel territorio della Republika Srpska a maggioranza serba – con  la parte più giovane della popolazione, irretita dai miti della televisione, anche quella in mano al nemico di un tempo. Questi due aspetti sono esemplificati dalla vedova Ruvejda, che subisce tante umiliazioni da decidere di farsi giustizia da sola, e da suo nipote Ado che passa sopra a ogni cosa pur di partecipare a un’edizione de Il grande fratello, versione belgradese. Il film punta a rappresentare le lacerazioni indotte dal conflitto che ha causato lo smembramento dell’ex – Iugoslavia e, se dice poco o niente di nuovo, nondimeno tiene vivo, in maniera cinematograficamente pulita e usando stilemi non del tutto banali - il bianco e nero per la realtà dei rifugiati, il colore per le sequenze in televisione – un tema drammatico e tutt’altro che risolto.


Collaborator è il film d’esordio dell’attore Martin Donovan ed è un’opera dalla forte connotazione teatrale. Il drammaturgo Robert Longfellow, interpretato dallo stesso regista, è in crisi creativa e commerciale, poiché il suo ultimo testo è stato smontato dopo due settimane. Per prendere le distanze dalla sua situazione va in California a trovare la madre e qui riallaccia un rapporto con un’ex amante, diventata attrice di successo. Le cose precipitano quando un suo vicino di casa, amico negli anni giovanili, gli piomba in casa e lo sequestra. Il fatto eccita le televisioni, una delle quali manda in onda un video, preso di nascosto, in cui lui bacia l’ex – fiamma. A questo punto anche il rapporto con la moglie, rimasta a casa con i figli, è spezzato e lui è costretto a fronteggiare una situazione che si chiuderà in modo drammatico. E’ il classico film d’attori, in particolare rilievo la prestazione di David Morse nei panni del nevrotico sequestratore, in cui i dialoghi fanno premio sull’azione. E' un film sostanzialmente statico e molto vecchia maniera.

Ancor meno interessante Ksiȩstwo (Eredità) del polacco Andrzej Barański, adattamento di taglio molto televisivo del romanzo breve del giovane scrittore Zbigniew Pasternak. E’ la lunga storia, girata in bianco e nero, di un giovane di campagna il cui padre, ubriacone inveterato, gli ha fatto credere che la loro famiglia discenda da un casato nobiliare, quello degli Slavic di Vistulans. Diventato adulto, va a studiare in una grande città, ma anche lì colleziona un fallimento dopo l’altro: lo bocciano all’esame di ammissione alla facoltà di legge, subisce un infortunio al ginocchio che gli tronca la carriera come calciatore, stabilisce relazioni sempre meno soddisfacenti con le donne, mente in continuazione a tutti. Ritornato a casa, in un ambiente bigotto e violento deve fare i conti con una comunità che gli rimprovera in continuazione gli eccessi del padre. Finirà ucciso proprio dal calciatore che lo aveva azzoppato rovinandogli la carriera. E’ un film di taglio nettamente televisivo, troppo lungo e ripetitivo. Non si coglie per niente il discorso che il regista cerca di sviluppare fra condanna del fanatismo e tentativo di descrizione della mente di un giovane travolto dalla propria fragilità e dalla brutalità del mondo che lo circonda.

La sezione East of West ha presentato Generation P (Generazione P), il primo film narrativo di Victor Ginzburg, nato a Mosca (1959), ma cresciuto ed educato negli Stati Uniti ove a studiato cinema e svolto molte attività nel campo delle arti visive. Il film segue la carriera di un pubblicitario di successo negli anni che vanno dal declino di Eltsin alla presa di potere di Putin. Un periodo strategico in cui si formano le grandi fortune degli oligarchi, spesso depredando le risorse del paese, esplodono le mafie, la società si articola sempre più in ceti impermeabili gli uni agli altri, cresce a dismisura la povertà delle classi inferiori. Tutto questo è inserito in una storia ricca di riferimenti fantastici, sequenze oniriche, colpi di scena cruenti. Lo scopo è quello di rappresentare la volgarità e la violenza che permeano il ceto che si sta affermando. Il film raggiunge l’obiettivo in modo parziale, utilizzando troppi snodi criptici, incomprensibili per uno spettatore non russo e inserendo nel racconto un sovraccarico di simbolismo non di facile lettura. In ogni caso un’opera non banale e professionalmente matura.


Il crac Parmalat è stato il maggior scandalo finanziario che abbia coinvolto un’azienda europea negli ultimi cinquant’anni. A processo avviato si è stimato che il buco lasciato da Callisto Tanzi e dai suoi compici, in prima fila il direttore finanziario Fausto Tonna, sia stato di 14 miliardi di euro, l’importo di una legge finanziaria di media forza. Un disastro le cui origini datano dai primi anni novanta e che fu causato, oltre che da scelte imprenditoriali errate, dall’intreccio perverso fra imprenditoria e politica, quest’ultima intesa in un vasto ventaglio che non escludeva uomini della sinistra, ma che ebbe i suoi punti di forza in alcuni maggiorenti della Democrazia Cristiana, prima, e in personaggi del centrodestra berlusconiano, poi. Questo vasto imbroglio coinvolse più di quindicimila risparmiatori e ha ispirato Andrea Molaioli (1967) che gli ha dedicato il suo secondo lungometraggio, dopo l’ottimo La ragazza del lago (2007). Il gioiellino ripercorre le tappe di questo scandalo facendo perno su due protagonisti: il presidente e il responsabile finanziario. Figure che la regia ammanta di tragicità delinquenziale, ma che, anche perché affidate a due attori straordinari come Remo Girone e Toni Servillo, finiscono quasi per soggiogare lo spettatore che difficilmente riesce a sfuggire al fascino che emanano. E’ questo uno dei problemi di qualsiasi opera che metta al centro grandi criminali (Bertolt Brecht denunciava l’esaltazione dei grandi mascalzoni in favore del disvelamento dei grandi delitti) facendone il centro di vicende molto drammatiche, in ogni caso tali da suscitare emozioni profonde. Segnalato questo pericolo, c’è da dire che il film si presenta di ottima qualità sia per la confezione sia per il modo in cui la regia controlla la storia. In poche parole è un grande film da vedere con occhio freddo e spirito attento a non farsi coinvolgere dalla grandezza criminale dei protagonisti.

Martin Šulik è il più noto fra i registi slovacchi. Il suo cinema associa documentarismo a immagini e situazioni fantastiche. Per parlare di questa sua ultima fatica, Cigán (Zigano), si potrebbe partire dall'Amleto shakespeariano con il fantasma del padre che incita alla vendetta il figlio indicandogli chi l’ha assassinato. Qualche cosa di simile capita al quattordicenne Adam che vive in un povero villaggio rumeno abitato esclusivamente da gitani. Un giorno suo padre muore, si dice per un incidente d’auto, si sospetta un atto razzista da parte dei bianchi, ma nessuna di queste ipotesi è vera. Sua madre, per continuare a mandare avanti la famiglia sposa il cognato, uno zingaro violento, ladro e imbroglione che, scopriremo alla fine, ha ucciso il fratello per possederne la moglie che ama da tempo. Prima di arrivare a questa rivelazione c’è tempo per percorrere, in stile quasi documentario le misere condizioni di vita di questi reietti che gli altri chiamano neri. In verità lo loro è, in parte, anche un’autoesclusione in quanto, fieri della loro unicità, ricambiano il disprezzo di cui sono circondati con altrettanto dispregio. Solo un prete tenta, riuscendoci in modo parziale, di costruire rapporti umani fra le due comunità, lo fa attraverso lo sport, in particolare la boxe. Operazione particolarmente ardua visto che, ad esempio, se i gitani rubano i poliziotti che li arrestano usano metodi a dir poco nazisti. Preso in questa tenaglia razzista Adam trova scampo, oltre che nel pugilato, nell’affetto verso Julka, una coetanea che la famiglia venderà letteralmente a un ceco molto più anziano di lei. In questa situazione, quando il fantasma del padre gli mostra dove è nascosto il coltello con cui il fratello l’ha ucciso, non gli resta che portare a termine la vendetta e attendere, quietamente disperato, le conseguenze del suo gesto. Il film ha il pregio di procedere con straordinario equilibrio fra realismo e fantastico, inserendo in modo armonico le sequenze in cui compare il fantasma del padre in una situazione di taglio sicuramente realista, quasi documentario. Ne emerge un testo interessante e positivamente complesso, tutt’altro che banale.

Marilivit teri (Sale bianco), visto nella sezione East of West segna il debutto della georgiana Ketevan (Keti) Machavariani ed è il film migliore visto sino ad ora. Sul Mar nero, quando la balneare sta finendo, incontriamo tre personaggi che vivono, ciascuno a suo modo una quieta disperazione. Nana è una trentacinquenne senza particolari attrattive che fa la cameriera stagionale in un ristorante e in una discoteca. Condivide la camera con altre  ragazze, precarie come lei, e il suo unico momento di quiete è quando va al mare, in piena notte e solitudine. Un giorno incontra Niko, agente di polizia con alle spalle una passato di rifugiato abcaso, genitori in condizioni economiche e di salute segni e i segni delle ferite psicologiche lasciatigli dalle guerre feroci che hanno contrapposto Abcasia e Georgia (1991 – 2008). Il rapporto con la matura cameriera è ruvido, segnato da lunghi silenzi, sesso senza affetto e ingiustificate separazioni. Quella che, per la donna, poteva rappresentare una via d’uscita dalla solitudine e la disperazione diventa, invece, una strada senza sbocco. In modo ugualmente casuale la cameriera incontra Sopo, una ragazza non ancora maggiorenne che vive per strada, sfuggendo alla caccia dei poliziotti, rubacchiando e campando alla giornata. Fra le due donne scatta, nonostante la differenza d’età, una scintilla di simpatia: la più anziana quasi adotta la giovane, la riveste, l’aiuta a farsi i documenti. La giovane contagia l’altra con il sogno di andare a vedere la mitica spiaggia di sale, un luogo bellissimo che per loro assume toni magici. In maniera e tempi diversi, entrambe troveranno la via per coronare il sogno. Il film fotografa un quadro di abbandono e disperazione in cui sembrano avere spazio solo i violenti e i cinici, lo fa senza retorica, usando attrici bravissime e costruendo un clima di decadenza e speranza equilibrato e convincente.


Beduin del russo Igor Voloshin (1974) ruota attorno alla figura di una donna ucraina che accetta di diventare utero in affitto per una coppia omosessuale pietroburghese. Lo fa per recuperare i soldi necessari a far curare la figlia, ammalata di leucemia in fase quasi terminale. Tuttavia sul suo percorso si frappongono continui ostacoli. La donna che lavora sui treni e trasporta per lei denaro e medicine è arrestata, il vicino di casa – mezzo marinaio e mezzo gangster – con cui ha una rapida relazione parte per la Norvegia dopo averla coinvolta in una resa dei conti con un gruppo di mafiosi cinesi, il saldo dei pagamenti ritarda e, ultimo inciampo, i due omosessuali muoiono in un incidente d’auto di cui ha non poche responsabilità il marinaio – mafioso. A questo punto non rimane che radunare il denaro che resta, accettare l’aiuto dei malviventi che ha fiancheggiato nello scontro con gli orientali e partire per la Giordania con la figlia, ormai morente, inseguendo il sogno di farla curare dai beduini con latte di cammella. Naturalmente il viaggio si rivelerà del tutto inutile per la sopravvivenza della giovane, ma le servirà per farle scoprire la serenità e la fede mussulmana per cui rimarrà fra i beduini con il figlio appena nato. E’ un film abbastanza sconclusionato diviso in due parti nettamente distinte: la storia pietroburghese della maternità in affitto e la parte finale girata in Giordania. La prima ha, all’inizio, qualche pregio narrativo e psicologico nello svelare un mondo in cui tutto è in vendita, la seconda scivola, abbastanza banalmente, nel mistico – folcloristico. Nel complesso il film arranca a sbalzi, con sequenze e parti abbastanza convincenti e ben costruite e momenti, soprattutto nel finale, del tutto posticci. Un’opera sicuramente poco riuscita e incoerente nella narrazione.

Lollipop Monster (letteralmente lecca-lecca mostro) della tedesca Ziska Rieman (1973) è un film confuso che mette assieme sequenze costruite in maniera normale, immagini da film psichedelico, disegni animati, prospettive realiste e quadri concepiti con toni e colori da materiali per ragazzine. In realtà sono tali le due protagoniste, Ari e Oona, quindicenni inserite in famiglie ciascuna a suo modo scombinata. In una madre ha una relazione con il fratello del marito, adulterio scoperto dal padre attraverso la figlia, cosa che lo induce al suicidio. Nell’altra la madre ha un rapporto ossessivo con il figlio, che si finge malato per meglio fare i propri comodi, trascurando quasi del tutto la figlia. L’incontro fra queste due solitudini, malamente riempite con sesso occasione omo ed etero, produce un clima che porta al delitto, con le due ragazzine compici nell’omicidio dello zio – amante. Tuttavia neppure questa soluzione estrema aprirà la strada dell’autonomia dalle famiglie: padri e madri arriveranno compatti a pulire la scena del crimine e a seppellire il morto. E’ un film che gronda immagini volutamente complesse, bombarda lo spettatore con musica assordante e riferimenti, non si comprende quanto benevoli, ad alcuni idoli della musica rock – demoniaca. In definitiva un risultato solo parzialmente riuscito.

La sezione East of The West ha presentato I nĕ bylo lučše brata (Non c’è mai stato fratello migliore), del regista azero Murad Ibragimbekov, Il film mette in scena la complessa relazione fra due fratelli dagli anni dell’infanzia, quando spiavano, più curiosi che libidinosi, le donne al bagno turco, sino alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica e la proclamazione della repubblica indipendente dell’Azerbaigian. Sono due caratteri profondamente diversi e seguono strade opposte. Il maggiore, ligio alle leggi e alle regole che governano la società, diventa direttore nell’ufficio postale del quartiere di Baku in cui abitano. L’altro, più inquieto, tenta altre strade, emigrando nel nord dell’Europa, ove rischia di morire assiderato quando il camion che guida rimane bloccato in una tempesta di neve. Ritornato al paese batte la strada del commercio illegale di caviale rischiando la prigione da cui lo salva una corposa mazzetta che il suo capo versa al comandante della polizia. Poi s’innamora e sposa la figlia di un altro traffichino, del tutto inviso al fratello che rifiuta di partecipare al matrimonio, ma non resiste e spia la cerimonia, con i relativi balli cui si unisce in solitudine, da un buco nel muro che divide il suo giardino da quello del futuro suocero. Il film disegna le due facce – facce di fratelli, ben inteso – che hanno segnato la vita sotto il regime realsocialista: rispetto cieco delle regole e trionfo dell’arte di arrangiarsi. E’ un obiettivo non banale, ma il regista non lo approfondisce quanto sarebbe necessario, restando prigioniero di una storia familiare che dice meno di quanto potrebbe.

Nella stessa sezione si è visto anche Viditeľný svet (Mondo visibile) dello slovacco Peter Krіštúfek, ritratto della solitudine disperata di un controllore di volo oppresso dal rimorso di aver causato la morte della moglie, uscita dall’auto e travolta da un’altra macchina durante una lite causata da un suo attacco di gelosia. Ora lui vive appartato e rifiuta rapporti meno che formali con colleghi di lavoro e vicine di casa. La sua passione è spiare dalla finestra, con un grande cannocchiale, la famigliola che abita di fronte al suo appartamento. Invidioso della loro felicità agisce per disgregarla e ci riesce svelando alla moglie che il marito ha un’altra donna. Poi esce dall’ombra, approfitta del difficile momento che attraversa, e la seduce, ma quando questa accenna a mantenere buoni rapporti con l’ex – coniuge, la ferisce gravemente, poi si mette a letto aspettando lo svolgersi degli eventi. E’ il classico film d’attori e Ivan Trojan è bravo nel delineare il vuoto tumultuoso che agita questo personaggio.


 

La passerella dei titoli in concorso si è chiusa con la presentazione degli ultimi due film. La penultima opera è stata Roméo Onze (Romeo Undici) del canadese, d’origini libanesi, Ivan Grbovic (1979). Lo sfondo è quello della comunità cristiano maronita di Montreal, in cui vive la famiglia di Rami, un ventiquattrenne handicappato sottomesso a un padre, proprietario di ristorante, autoritario e tradizionalista che lo crede impegnato in studi amministrativi, cosa che ha abbandonato da qualche tempo. Per sfuggire all’oppressione domestica e alla solitudine chatta, con lo pseudonimo di Romeo undici, con una bella ragazza bionda – a stare alla foto che mette on line – presentandosi con un manager indaffarato e sempre in viaggio. Dopo qualche tempo decide d’incontrarla, affitta una camera in un lussuoso albergo, prenota un tavolo in un ristorante alla moda, ma non resiste alla tensione e fugge prima dell’arrivo della supposta ragazza. Supposta, perché dietro alla sua foto si celano alcuni suoi amici che, per prenderlo in giro e umiliarlo, hanno messo in moto la trappola. Distrutto e ancor più emarginato, quasi muore facendosi investire da un’auto. Al matrimonio, in puro stile mediorientale, della sorella incontra una ragazza e, forse, si apre per lui la possibilità di una relazione vera. Di sicuro ha il coraggio di dire al padre che non vuol più lavorare con lui e cercherà la sua strada da solo. E’ un bel ritratto della solitudine di un minorato fisico ed è anche una precisa descrizione della chiusura che segna molte comunità d’immigrati, in Canada e altrove. Il regista non dimentica la passata esperienza di direttore della fotografia curando le immagini sin nei minimi particolari. Il film ha qualche lungaggine di troppo e di nota che è pensato da un autore avvezzo più al racconto breve che non a quello lungo, ma il bilancio complessivo è positivo.

Era un’opera prima anche l’ultimo titolo in cartellone: Vᴂlese 304 (Stanza 304) della danese Birgitte Stᴂrmode (1863). In un albergo di Copenaghen risuona un colpo di pistola, senza che se ne sappia l’origine. Forse è stato il gesto di vendetta di uno sguattero kosovaro nei confronti di un connazionale, capitato nell’hotel, che gli ha stuprato madre e sorella nel corso di una delle guerre che hanno disintegrato la Iugoslavia. Forse è stato l’atto suicida di una hostess affamata d’affetto al punto da ricercarlo in qualsiasi uomo incontri. Forse è stato il gesto di rabbia di un portiere ingiustamente rimproverato dalla direttrice del front desk. In realtà nulla di tutto questo, ma un tragico evento che arriva come un vero, riuscito colpo di scena. Il film, fotografato con straordinaria precisione, è stato girato mantenendo la macchina da presa costantemente sui volti e i corpi dei protagonisti, il che gli da un taglio vagamente televisivo, ma non banale.


Molti sono stati i titoli presentati nella sezione Horizons (Orizzonti), opere passate in altre importanti rassegne. Ad esempio Jelena (Elena) del russo Andrey Zvyagintsev (1964), già vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2003 con Vozvrashchenie (Il ritorno).  Il film è stato presentato nel cartellone di Un Certain Regard al festival di Cannes 2011 e ha vinto il Premio della giuria a disposizione di questa sezione. Vladimir ed Elena sono una coppia matura, lei è un’ex infermiera e lui, uomo di potere e di denaro ora in pensione, l’ha conosciuta quando è stato ricoverato. Ciascuno di loro ha figli da precedenti matrimoni, quello della donna è un disoccupato, spesso ubriaco e incapace di mantenere decentemente la moglie e i due figli, uno in età di servizio militare. Anche il marito ha una figlia, andata via da casa sbattendo la posta, che coltiva velleità artistiche. Elena regala ogni mese la sua pensione al figlio e gli riempie costantemente il frigorifero, comportamento che il marito non approva perché convinto che il giovane sia un profittatore irresponsabile. La situazione si complica quando il nullafacente chiede alla madre una forte somma di denaro necessaria a evitare la naja al nipote, pagando perché s’iscriva all’università. Vladimir è molto contrario a prestare la somma, ma proprio in quei giorni è colpito da infarto. In clinica costata quanto precarie siano le sue condizioni e decide di fare testamento lasciando tutto alla figlia, con la quale ha un momento di riconciliazione. Quando ritorna a casa, in convalescenza, la moglie gli chiede ancora una volta i soldi, ma lui rifiuta risolutamente. Elena, ossessionata dalle necessità di soddisfare le richieste del figlio, uccide il marito propinandogli una dose massiccia di Viagra. Non c’è stato tempo per legalizzare il progettato testamento, le cui bozze la moglie ha bruciato, e ora il lussuoso appartamento è invaso da figli e nipoti della vedova. Il film ha una fotografia straordinaria, che accompagna armoniosamente il ritmo lento con cui la storia è raccontata. Un ritmo che si adatta perfettamente allo scorrere reale del tempo, com’è costume del nuovo cinema, non solo russo. La vicenda appare, a una lettura superficiale, come una dramma famigliare, un delitto senza pena. In realtà è un esempio delle profonde, laceranti trasformazioni che hanno segnato il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russa. In questo il vecchio agiato è l’emblema di un potere illimitato che, prima, aveva l’aspetto della nomenclatura di partito e oggi assume gli eleganti vestiti degli oligarchi. Nello stesso modo la donna, immagine della maternità totalmente assorbente della mitologia russa, fa intravvedere la brutalità e la spregiudicatezza con cui le classi povere si affacciano alla nuova società. Un film complesso e molto bello che speriamo sia presto presentato anche in Italia.

Da segnalare anche Die Vaterlosn (L’orfano), dell’austriaca Marie Kreutzer (1977). Muore il patriarca di una vecchia comunità hippie, oggi abbandonata da tutti e in rovina. Le sue esequie sono l’occasione per una sorta di riunione di famiglia allargata, che comprende anche una figlia del defunto andata via oltre vent’anni prima e di cui la sorella minore neppure sapeva l’esistenza. Come in ogni ritorno familiare proposto dal cinema, anche in questo caso è l’occasione per far riemergere rancori, rinsaldare rapporti che sembravano compromessi per sempre, fare esplodere contraddizioni coniugali nascoste sotto lo schermo del quieto vivere. Da questo punto di vista il film non offre nulla di nuovo, ma consente l’apertura di un discorso non banale sul conflitto fra i sogni di un tempo e la realtà dei giorni nostri.

 


Conclusioni

La 46ma edizione del festival ne ha confermati forza e interesse. Come di consueto le parti contenenti i titoli più noti, passai in altre manifestazioni hanno attirato una gran massa di spettatori, in prevalenza giovani e ciò conferma il ruolo fondamentale di conoscenza svolto dai festival di cinema, questo in particolare. Nel momento in cui il mercato segnala una sempre maggiore dominanza dei multiplex, spesso accentrati in grandi centri commerciali di cui funzionano come appendice consumistica, e una parallela moria delle sale monoschermo, in particolare di quelle d’essai, i festival sono chiamati a svolgere un importantissimo ruolo di conoscenza delle opere e produzioni che per loro natura non rientrano nelle forme di consumo di cui i cinema multischermo sono la punta di diamante. Non si deve dimenticare, infatti, che il ruolo dei multiplex non è solo quello di offrire un nuovo tipo d’offerta cinematografica, ma anche quello di operare, oggettivamente, una scelta fra il pubblico. Basta osservare con attenzione il pubblico che solitamente frequenta queste sale o leggere le indagini statistiche per capire come l’obiettivo dei dirigenti di questi complessi multischermo è quello di mirare a un pubblico giovane, solitamente più favorevole ai film americani che a quelli europei, alle commedie e alle frase che non alle tragedie. In poche parole un universo di consumatori che hanno ben pochi punti di contatto con il pubblico, generalmente di età più avanzata, che ricerca nel film conoscenza e mozioni non superficiali. Venendo a mancare l’offerta di film atti a soddisfare sistematicamente quest’esigenza essa è trasferita, almeno per quanto riguarda il pubblico più giovane, nei compiti e programmi dei festival, almeno di quelli che si sogliono definire per la città. E’ il caso di Torino, Salonicco, parzialmente Berlino, manifestazioni che, non a caso si sviluppano in situazioni in cui è presente un vasto terreno universitario e/o cinefilo. Karlovy Vary, anche se non ha un simile retroterra, attira consistenti gruppi di giovani curiosi di vedere opere entreranno raramente nel normale circuito distributivo. Va dato atto ai dirigenti della manifestazione di aver colto, e non da oggi, quest’esigenza organizzando un programma vasto e complesso articolato su un ampio ventaglio di sezioni tutte in cui dominano le opere di grande spessore culturale. Persino nei pochi casi in cui sono stati messi in cartellone titoli di grande respiro industriale, non si è trascurato di scegliere film che univano la spettacolarità a valori espressivi alti. Come in ogni scelta umana si può amare o dissentire da questo o quel titolo, provare maggiore simpatia per questa o quella pellicola, ma ciò che conta è che, a Karlovy Vary la banalità e il commercio non trovano buona accoglienza.

I premi 

Globo di cristallo (30.000 dollari) da dividersi in parti uguali fra il regista e il produttore.

Boker Tov, Adon Fidelman (Restauro) regia di Joseph Madmony, Israele.

Premio speciale della giuria (20.000 dollari) da dividersi in parti eguali fra regista e produttore.

Cigán (Gitano) di Martin Šulík, Repubblica Slovacca – Repubblica Ceca.

Premio per la migliore regia

Pascal Abate per il film Holidays by the Sea, Francia.

Premio alla migliore attrice

Stine Fischer Christensen interprete del film Die Unsichtbare (La fessura nella conchiglia) di Christian Schwochow, Germania

Premio al miglior attore

David Morse interprete del film Collaborator (Collaboratore) di Martin Donovan, Canada - USA.

Menzioni speciali

Ján Mižigár interprete del film Cigán (Gitano) di Martin Šulík, Repubblica Slovacca – Repubblica Ceca.

Jocelyn Pook per la musica del film Værelse 304 (Stanza 304) regia di Birgitte Stærmose, Danimarca - Croazia.

Sezione EAST OF THE WEST

Concorso

Primo premio (10. 000 dollari)

Pankot ne e mrtov (Il punk non è morto) di Vladimir Blaževski, Macedonia – Serbia.

Menzione speciale

Generation P (Generazione P) di Victor Ginzburg, Russia – USA.

Sezione documentari

Miglior documentario superiore ai trenta minuti (5.000 dollari)

Det gode liv (La buona vita) di Eva Mulvad, Danimarca.

Miglior documentario inferiore ai trenta minuti (5.000 dollari)

Deklaracja nieśmiertelności (Dichiarazione d’immortalità) di Marcin Koszałka, Polonia

Forum degli indipendenti

Premio macchina da presa indipendente

Sunflower Hour (L’ora del girasole) di Aaron Houston, Canada.

Globi di cristallo per il contributo artistico al mondo del cinema

Judi Dench

Premio del presidente del festival

Goran Bregović

John Turturro

Premio del pubblico

Nickyho rodina (La famiglia di Nick) di Matej Mináč, Repubblica Slovacca – Repubblica Ceca

Premi non ufficiali

Premio della critica (FIPRESCI)

Collaborator (Collaboratore) di Martin Donovan, Canada – USA.

Premi della giuria ecumenica

Die Unsichtbare (La fessura nella conchiglia) di Christian Schwochow, Germania.

Menzione speciale

Roméo Onze (Romeo 11) di Ivan Grbovic, Canada.

Premio Don Chisciotte della giuria della Federazione dei cineclub (FICC.)

Cigán (Gitano) di Martin Šulík, Repubblica Slovacca – Repubblica Ceca.

Menzione speciale

Lollipop Monster (Lecca-lecca mostro) di Ziska Riemann, Germania.

Premio della Federazione dei critici europei e mediterranei (FEDEORA)

Sezione East of West

Concorso

Marijine (Le cose di Marija) di Željka Suková, Croazia.

Circuito per la premiazione del cinema asiatico (NETPAC)

Premio al miglior film asiatico

Bir zamanlar Anadolu´da (C’era una volta in Anatolia) di Nuri Bilge Ceylan, Turchia, Bosnia Erzegovina.

Premio etichetta Europa

Cigán (Gitano) di Martin Šulík, Repubblica Slovacca – Repubblica Ceca.