46mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 2

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46mo Karlovy Vary International Film Festival
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Boker tov adon fidelman (titolo internazionale Restauro) dell’israeliano Joseph Madmony è un film costruito su una serie di personaggi, non tutti ben disegnati, che raccontano la vita di una famiglia di Tel Aviv. Un anziano restauratore, appartenente alla comunità ebraico – georgiana, muore fra le braccia di una prostituta lasciando erede della sua proprietà principale, un laboratorio di restauro sull’orlo del fallimento, il figlio di Yaakov Fidelman, un ebreo d’origine polacca, che è stato suo socio per molti anni. L’anziano artigiano ha sempre vissuto un’esistenza umile e fuori da ogni luce, disinteressandosi quasi totalmente dell’andamento commerciale dell’azienda per cui quasi impazzisce quando viene a sapere che i creditori stanno per portarsi via il magazzino in cui ha passato la vita a rimettere in sesto mobili antichi. Suo figlio, nuovo comproprietario, ha idee tese alla speculazione e agli affari immobiliari, sua moglie aspetta un bambino e lui non ha certo voglia di interessarsi di quell’attività che produce solo debiti. Inoltre circola nei pressi anche un giovane apprendista che apprezza, corrisposto, la moglie in attesa. E’ un groviglio di relazioni in cui non mancano colpi di scena, sembra che l’erede sia figlio del defunto e non dell’altro, scene madri, conflitti di taglio apertamente melodrammatico. Il tutto cucinato in salsa notevolmente televisiva, con primi e primissimi piani che dominano dall’inizio alla fine, e senza un reale approfondimento dei personaggi. Solo quello principale, interpretato da uno straordinario Sasson Gabai, ha caratura compiuta, gli altri non vanno oltre il tratteggio. Come dire che siamo alla presenza di un film solo parzialmente riuscito. Ad esempio la regia non rende chiare a occhi non israeliani le profonde differenze fra i personaggi, tra ebrei di provenienza centroeuropea e immigrati georgiani, signori di una delle più forti mafie che allignano in terra d’Israele.

Die Unsichtbare (letteralmente L’invisibile, ma il titolo internazionale è La fessura nella conchiglia) del tedesco Christian Schwochow è un film sul teatro. Un regista maniaco e crudele vuole mettere in scena una versione di Camille, con attori appena usciti dalla scuola di teatro. I giovani accorrono entusiasti, ma presto si accorgono di essere caduti nelle mani di un uomo egocentrico e sadico. E’ soprattutto la giovane scelta per interpretare la parte principale a pagare le conseguenze della violenza psichica che la spinge sino a tentare il suicidio. Ci sono anche altre figure laterali – la sorella minorata della protagonista, il tecnico con cui intreccia una breve relazione – ma ciò che conta è il rapporto fra la giovane donna e il maturo teatrante che ha già rovinato l’esistenza ad altre attrici. Nonostante tutto, lo spettacolo andrà in scena e molto probabilmente, avrà successo. Il mondo del teatro è quasi un universo a parte, rispetto la vita normale, un terreno in cui le relazioni fra le persone avvengono spesso come sottofondo dello stare in scena o della possibilità di andarci. Un campo in cui la finzione e i veri sentimenti s’intrecciano in maniera così stretta che appare quasi impossibile districarli. La mancanza del film è nel non cercare seriamente di mettere a confronto questo mondo parallelo con quello reale. Un solo esempio. E’ più che probabile che registi sadici e maniaci come questo esistano realmente, ma anche loro devono fare i conti con impresari, amministratori, organizzatori culturali. Questo Kaspar Friedmann sembra, invece, un dittatore che può fare ciò che vuole senza rendere conto a nessuno.

Belvedere è il nome del campo per rifugiati in cui vivono, a Srebrenica, i superstiti del massacro compito nel 1995 dalle truppe serbo - bosniache comandate dal generale Ratko Mladić, non a caso soprannominato il boia di Srebrenica. Belvedere è anche il titolo del film di Ahmed Imamović che inaugurato la sezione East of the West (L’est dell’ovest) mettendo a confronto due realtà: quella dei superstiti che non riescono a ottenere giustizia né a dimenticare i traumi subiti - si tenga conto che gli accordi di Dayton lasciarono la città nel territorio della Republika Srpska a maggioranza serba – con  la parte più giovane della popolazione, irretita dai miti della televisione, anche quella in mano al nemico di un tempo. Questi due aspetti sono esemplificati dalla vedova Ruvejda, che subisce tante umiliazioni da decidere di farsi giustizia da sola, e da suo nipote Ado che passa sopra a ogni cosa pur di partecipare a un’edizione de Il grande fratello, versione belgradese. Il film punta a rappresentare le lacerazioni indotte dal conflitto che ha causato lo smembramento dell’ex – Iugoslavia e, se dice poco o niente di nuovo, nondimeno tiene vivo, in maniera cinematograficamente pulita e usando stilemi non del tutto banali - il bianco e nero per la realtà dei rifugiati, il colore per le sequenze in televisione – un tema drammatico e tutt’altro che risolto.