Festival di Cannes 2011 - Pagina 10

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Festival di Cannes 2011
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Pedro Almodóvar ha tratto liberamente La pelle che abito (La piel que habito) dal romanzo Mygale (Tarantola, 1984) dello scrittore francese Thierry Jonquete (1954 - 2009) e l’ha fatto sfruttandone e forzandone gli elementi melodrammatici. La cosa non sorprende quando si tenga conto sia delle caratteristiche tipiche di quest’autore, sia del fatto che l’opera di partenza appartiene a quella Série noire che ospita testi destinati a diventare libri di culto, un po’ com’è accaduto ai nostri Gialli Mondadori. Come si richiede a qualsiasi proposta a forte tendenza melò il racconto è notevolmente ingarbugliato e denso di colpi di scena. Mettendo questa trama in una prospettiva lineare ed eliminando i numerosi salti temporali proposti dal regista, possiamo dire che si tratta della drammatica avventura di un importante chirurgo estetico che, dopo il grave incidente d’auto che ha visto bruciare viva la moglie – che lo tradiva con un suo fratellastro – sequestra il giovinastro che ha violentato sua figlia, peraltro affetta da pesanti turbe psichiche, e lo trasforma in donna. Di lui finisce coll’innamorarsi, dopo averlo/a sottoposto/a alla sperimentazione una nuova pelle, resistentissima, che ha scoperto in segreto. Il finale sarà tragico, con la nuova creatura che uccide il suo creatore e ammazza anche la governate di casa che, in realtà, è la madre del medico. La storia è complessa e piena di svolte improvvise, totalmente improbabile. Sono proprio queste caratteristiche che, una volta filtrate dallo sguardo e dalla lucidità narrativa del cineasta, rimpolpano il fascino del film e ne fanno un’opera intensa che affascina e fa dimenticare le improbabilità di cui si nutre. Un po’ come nell’opera lirica, in cui tutti accettano che si sussurrino frasi d’amore cantandole a squarciagola, anche in questo caso è la convenzione a farla da padrona e la magia del regista a rendere incredibilmente vero anche ciò che non è tale. Affrontato da questa prospettiva, il film diventa uno dei punti più alti nella filmografia del regista spagnolo. E’ un testo che affascina e cattura anche i meno disposti a farsi ammaliare dal piacere del racconto, indipendentemente dal tasso di realismo che lo percorre.

Il regista danese Nicolas Winding Refn potrebbe essere definito una sorta di emulo di Quentin Tarantino. I sette film che ha diretto sino ad ora, in patria e negli Stati Uniti, si segnalano per un sovraccarico di violenza, sangue e ammazzamenti vari. Così è anche per Drive (Guidare), secondo film in competizione della giornata, basato su un romanzo omonimo di James Sallis (1944), pubblicato nel 2005. E’ la storia di un abile conduttore d’auto che campa facendo il cascatore, lavorando in un garage e dando saltuariamente una mano a qualche banda di rapinatori. Un giorno incontra, per caso, una giovane madre il cui marito è in prigione. La aiuta, se ne innamora e quando il recluso esce da una mano anche a lui per smarcarsi da un guaio in cui si è cacciato mentre era dentro. Purtroppo le cose vanno storte, il colpo progettato si rivela ben diverso da com’era stato presentato e incominciano a scapparci i cadaveri e i getti di sangue. Alla fine della vicenda se ne conteranno poco meno di una decina, lui compreso. Indubbiamente il racconto è teso e ben costruito, ma riesce difficile capire che cosa c’entri un prodotto nettamente commerciale e di genere come questo con la selezione di un importante festival di cinema. Salvo che non si sia deciso di offrire una possibilità di successo anche a una produzione non santificata dal marchio di qualche major. Se così fosse, ci troveremmo davanti a una scelta molto modesta oltre che discutibile.

Da qualche tempo il cinema francese sembra aver riscoperto il gusto per i racconti sul potere politico. Tale è L’Excercice de L’Etat (L’esercizio dello Stato) di Pierre Schoeller, visto nella sezione Un Certain Regard. Il film ruota attorno alla figura di un ministro di secondo livello, quello dei trasporti, che si vede costretto a scegliere fa l’impegno che ha preso a salvaguardare e il farsi complice di una complessa manovra ordita dal potere politico in combutta con quello economico. Un losco affare che ruota attorno alla privatizzazione delle grandi stazioni ferroviarie. Resisterà un po’, ma quando il capo del governo gli farà capire che potrebbe ottenere un dicastero più importante, si piegherà. Anzi, accetterà con gioia di diventare ministro degli affari sociali con il compito di sedare in qualche modo il malcontento suscitato dalle sue stesse decisioni. Il film non è del tutto chiaro per uno spettatore non esperto di maneggi della politica francese, ma ha una sua compattezza narrativa, pochi elementi sicuramente negativi - fra questi le immagini grandguignolesche dell’incidente d’auto di cui è vittima il politico - e una solidità complessiva che lo candidano a testo di accesa discussione.

Sicuramente difficile, invece, trovare motivi d’interesse in The Day He Arrives (Il giorno che è arrivato) del sudcoreano Hong Sangsoo. Girato in bianco e nero leggermente virato, ci parla di un regista, da qualche tempo ritiratosi in provincia, che ritorna a Seoul per incontrare un amico. Poiché questi non ha tempo per lui, va a trovare un’ex fidanzata, sbevazza con alcuni giovani e una ragazza conosciuti occasionalmente occasionali, seduce la proprietaria di un bar e, poi, se ne torna a casa.  Forse eravamo distratti, ma a noi è parso un’inutile giochino intellettuale, passabilmente noioso e non degno di molta attenzione.