Festival di Cannes 2011 - Pagina 12

Stampa
PDF
Indice
Festival di Cannes 2011
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Pagina 10
Pagina 11
Pagina 12
Pagina 13
Tutte le pagine

Capita spesso che le opere più importanti fra quelle esibite da un festival arrivino sugli schermi nelle ultime ore della manifestazione. E’ successo quest’anno anche a Cannes con Bir Zamanlar Anadolu’da (C’era una volta l’Anatolia) del regista turco Nuri Bilge Ceylan. Questi ha all’attivo sei lungometraggi che hanno ricevuto premi nei maggiori festival internazionali ed è una delle figure più importanti del cinema contemporaneo, oltre a essere il personaggio principale di quello che è stato definito il nuovo cinema turco. Il suo stile si basa su immagini davvero straordinarie – all’origine era un fotografo di fama internazionale – un ritmo del racconto disteso che sviluppa storie apparentemente semplici, in realtà molto complesse e dense di significati cogliibili in seconda lettura. Non gli manca un pizzico ironia e un florilegio di citazioni cinefile coltissime. Iniziano da quest’ultimo punto. Sin dal titolo questo suo ultimo film rimanda a un classico di Sergio Leone – C’era una volta in America (1984) – facendo riferimento allo spirito profondo del regista italiano che, dilatando i tempi della narrazione, intendeva anche imporre allo spettatore uno spazio di riflessione che, apparentemente, era in piena contraddizione con la velocità dei generi cui si applicava. Altre citazioni nascono dalla storia stessa raccontata, una vicenda che fa riferimento al primo lungometraggio firmato da un altro maestro del cinema contemporaneo: il greco Theo Angelopoulos. Il ricordo va a Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970) in cui un sopraluogo giudiziario, organizzato per chiarire cause e modi dell’uccisione del marito da parte della moglie, diventa lo specchio dei rapporti sociali e umani in un’intera società, degradata dalla miseria e dall’ossessione verso valori arcaici. Anche l’opera di cui stiamo parlando muove le prime sequenze dalla ricerca del cadavere di un assassinato, caccia in cui il presunto colpevole indica, o finge di indicare, luoghi sempre diversi. E’ questa la prima parte del film e dura oltre un’ora sulle due e venticinque in cui si articola la storia. Dopo una serie di soste, una cena notturna e qualche schiaffo dato all’arrestato da un ufficiale di polizia, ma prontamente bloccato dal procuratore venuto dalla capitale per seguire l’inchiesta, il cadavere è trovato, dissotterrato – ha mani e piedi legati alla maniera degli incaprettamenti mafiosi - e trasportato nel paese più vicino dove, in un improvvisato obitorio, si svolge una sommaria autopsia. Con molte reticenze riusciamo a capire che si è trattato di un delitto d'amore – un amante ha ammazzato il marito della donna con cui aveva una relazione  – ma questo non è il solo dato importante. Il viaggio e la vicinanza hanno portato anche guardie, magistrato e dottore a capire qualche cosa di loro e del mondo che lo circonda. Il magistrato scoprirà che la moglie, che ha sempre creduto morta per cause naturali, in realtà si è suicidata. Il medico sarà toccato dalla violenza primordiale del dramma e tacerà, nell’autopsia, alcuni particolari che avrebbero aggravato la posizione dell’omicida. Gli stessi poliziotti avranno mostrato come ciascuno sia diverso dai colleghi, abbia atteggiamenti opposti nei confronti del proprio lavoro. C’è chi pensa solo a trarre minimi vantaggi da qualsiasi occasione e chi si indigna ancora davanti alla brutalità della natura umana, anche se non esita a usare la violenza. La regia ci fa scoprire tutto questo disseminando la storia di indizi senza mai cercare d’indottrinarci e spiegarci o banalizzare ogni passaggio. E’ un testo magnifico, ricco di spruzzate di mesta ironia e di costruito con una densità estrema, davvero un grandissimo film.

Altrettanto non può dirsi del franco – rumeno Radu Mihaileanu che tenta, con La surce des femmes (La sorgente delle donne), di recuperare il positivo melange di comicità e tragedia che segnano sia Train de vie - Un treno per vivere (Train de Vie, 1997) sia Il concerto (Concert, 2008). Ci riesce assai poco con questa storia alla Lisistrata (411 a.C.) di Aristofane (450 a.C. circa – 388 a.C. circa) in cui, in un paese dell’Africa settentrionale, un gruppo di donne arabe organizza uno sciopero del sesso per costringere gli uomini a costruire una deviazione che trasporti nel villaggio l’acqua che sono costrette ad andare a prendere ogni giorno da una lontana fonte. La lotta, che si trasforma ben presto in una rivendicazione di diritti e rispetto, avrà esito positivo, anche se costerà botte, ingiurie e incomprensioni coniugali. Il film è stiracchiato, prevedibile, banale, pieno di incongruenze – il villaggio non ha acqua, ma accanto alle porte ci sono i campanelli elettrici – in poche parole un film che non si comprende per quale ragione sia finito nella competizione principale.

Poca gloria anche per il titolo che ha chiuso la manifestazione. Les bien-aimès (I beneamati) del francese Christophe Honoré è un semi – musical con non moltissime canzoni che racconta l’amore di una donna per due uomini e di sua figlia che ne segue la strada. Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, madre e figlia, interpretano i due ruoli, senza troppa convinzione e, soprattutto senza grandi doti sonore. Alla resa dei conti è un piccolo film assunto a quel posto importante nel programma più in virtù della nazionalità che per meriti di regia.