Festival di Cannes 2011 - Pagina 4

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Festival di Cannes 2011
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Nella sezione concorso è stato presentato Habemus Papam, ultimo film di Nanni Moretti (1953), di cui abbiamo parlato al momento della presentazione nel circuito commerciale italiano. Per semplice ricordo proponiamo il testo di quella recensione. Il film ruota attorno al tema della responsabilità e della competenza. E' la responsabilità intesa come coscienza di se, consapevolezza delle proprie capacità a svolgere un compito specifico e complesso. Competenza colta come disponibilità di mezzi adeguati ad affrontare i problemi in cui si è immersi. Alla morte di un Papa, le immagini sono quelle dei funerali di Giovanni Paolo II, il Conclave, riunito nella Cappella Sistina, sceglie, a sorpresa, un Cardinale francese. Il prescelto è prima sorpreso, poi progressivamente travolto dalla responsabilità piovuta sulle sue spalle: non sceglie un nome e rifiuta di affacciarsi al balcone di San Pietro per la prima benedizione ufficiale. In questo modo il Conclave non può sciogliersi, i prelati devono rimanere isolati in Vaticano, l’intera macchina dell’elezione rimanere in piedi. La soluzione sembra quella di fare ricorso a un celebre psichiatra, interpretato lo stesso regista, per capire le ragioni dell’esitazione dell’eletto. Tuttavia all’analista sono legate le mani: non potrà fare domande sul sesso, limitare accenni ai problemi infantili, indagare con molta discrezione su sogni e desideri. Per un accumularsi di circostanze il prescelto riesce a liberarsi dalla pesante tutela cui è sottoposto e, per alcuni giorni, riesce a vagare per Roma dando timido sfogo anche alla passione che coltiva sin da piccolo: il teatro. In questo e nella scelta de Il gabbiano (Čaika, 1896) di Anton Pavlovič Čechov (1860 – 1904) quale emblema del lavoro sulla scena, ci sono sia riferimenti alla biografia di Papa Wojtyla, sia richiami alla complessità dell’essere davanti alla realtà. In Vaticano, intanto, regna il caos: il portavoce, che ha assunto la direzione delle iniziative, riesce a convincere tutti che il nuovo Santo Padre è chiuso nei suoi appartamenti in meditazione e preghiera, lo psichiatra organizza un torneo di pallavolo per i cardinali, il mondo intero è in attesa. Sarà l’eletto a sciogliere ogni cosa ritornando in Vaticano, affacciandosi al balcone, ma solo per annunciare la sua rinuncia, assieme all’invito a ritornate a riflettere su se stessi e sul mondo. E’ un film apparentemente semplice, in realtà molto complesso in cui s’intrecciano note personali, come i pressanti inviti al regista, un paio d’anni or sono, a scendere in politica, e una più generale riflessione sulla superficialità dell’oggi e la necessità di andare oltre la superficie, per cogliere la complessità del mondo. In questo ritroviamo, maturata, una delle più interessati caratteristiche dell’orizzonte culturale di questo regista che, sin da tempi lontani – Bianca (1984), Palombella Rossa (1989) – ha continuato a denunciare approssimazione e superficialità. Come dire che siamo alla presenza di una nuova riflessione che mette in discussione le basi stesse del modo con cui, oggi, si affronta l'analisi del mondo. Una proposta di grande respiro che lascia perplessi per alcuni momenti in cui si articola - l’intero capitolo del torneo di palla a volo fra cardinali o la parte dedicata al gendarme della guardia svizzera che si rimpinza di dolci nell’appartamento pontificio per far credere che il nuovo Papa sia ancora nelle sue stanze - ma che raggiunge punte di riflessione e stimolo che quest’autore sinora non aveva toccato.

Simpatico, anche se meno interessante Footnote (Nota a piè di pagina) dell’israeliano, d’origine americana, Joseph Cedar secondo titolo in concorso visto oggi. Al centro del film c’è una situazione già vista in altre occasioni, per esempio nel rumeno Medalia de onoare (Medaglia d'onore) di Calin Netze. Causa l’errore di una segretaria un anziano professore di filologia talmudica è segnalato come vincitore dell’importante Premio d’Israele, la più alta onorificenza concessa dal paese. In realtà il vincitore è suo figlio, ma le cose si complicano perché il maturo docente attende questo riconoscimento da una vita e il presidente della commissione deliberatrice è un suo anziano nemico che rifiuta ogni possibile accomodamento salvo che il vero vincitore se impegni a non candidarsi mai più al riconoscimento e scriva di suo pugno la motivazione del premio. Sarà proprio questo incarico e le parole usate a rivelare al maturo studioso che il riconoscimento non è suo. Il film si chiude in modo interlocutorio con il supposto vincitore che si avvia alla cerimonia di premiazione pieno di dubbi e tutt’altro che deciso a portare avanti la bugia. Il film gioca molto sui rapporti famigliari e sulle contraddizioni padre-figlio costruite con una spolverata di socialità che dovrebbe marcare le differenze fra la vecchia serietà accademica e i nuovi comportamenti dei giovani ricercatori. In realtà questi obiettivi rimangono costantemente al margine in un film pieno di snodi prevedibili e tutt’altro che significativo da un punto di vista sociale.

La sezione Un Certain Regard ha presentato Toomelah del regista australiano Ivan Sen. Il titolo rimanda a una comunità aborigena composta da poche centinaia di persone della comunità Gamilaroi, che vivono, in condizioni di degrado, nel nord – est del Nuovo Galles del Sud. E’ la storia del decenne Daniel che rifiuta la scuola e la vita ordinaria per unirsi a una banda di spacciatori di marijuana e crack, fungendo come una sorta di piccolo servitore cui sono affidate le azioni più pericolose. Così, quando il gruppo entra in conflitto con un boss locale appena uscito dalla prigione che pretende di controllare l’intero territorio, sarà proprio il piccolo a essere incaricato di entrare in casa del nemico per scoprire ove nasconde droga e armi. Quando il conflitto s’inasprisce, sfociando nell’uccisione del nuovo venuto e nell’arresto degli spacciatori, il piccolo si ritrova solo e forzatamente costretto a scegliere fra il ritorno a scuola e alla vita normale e il continuare sulla strada del crimine. Il regista non propone suggestioni, anche se, come scrive del materiale per la stampa, propende per una scelta che garantisca al giovane un futuro migliore. Il film non percuote tasti particolarmente originali, ma è girato con rigore professionale, anche se la prima proiezione vista qui ha sofferto di numerose sfocature che, se intenzionali, non avrebbero davvero senso. Gli interpreti, tranne uno, sono tutti presi dalla strada e ricoprono ruoli, s’intuisce, con cui hanno una certa familiarità.

Il regista sudcoreano Kim Ki-duk è uno degli autori contemporanei più stimati dai critici. I suoi film hanno ottenuto premi ai festival di San Sebastian (Dream, 2008), Karlovy Vary (Time, 2006), Venezia (3-Iron, 2004), Berlino (Samaritan Girl, 2004), Locarno (Spring, Summer, Fall, Winter…and Spring – 2003). Tuttavia, dopo un’attività frenetica che gli ha visto firmare ben quindici titoli in tredici anni, da qualche tempo aveva smesso di dirigere. Lo si diceva ammalato, lui stesso ha parlato del turbamento causatogli da un incidente in cui l’interprete femminile di Dream ha rischiato la vita, ma nulla era certo. Ecco ora arrivare Arirang (è il nome di una canzone popolare che individua anche una parte della cultura sudcoreana), una lunga confessione davanti a una minitelecamera in cui il regista, ritiratosi a vivere in una tenda montata in una capanna situata in una zona montagnosa del paese, parla di cinema, morale, vita e racconta i problemi avuti con alcuni collaboratori. È un complesso monologo in cui il cineasta mostra anche gli oggetti che ha costruito avvalendosi dell’esperienza accumulata quando era operaio. A un certo punto il film passa dal documento personale alla narrazione, con il regista che si costruisce un revolver con cui spara a due suoi collaboratori che, a suo dire, lo hanno tradito. E’ un’opera sicuramente originale in cui è difficile cogliere i confini fra affabulazione e psicodramma, ma che avvince per la bravura con cui le immagini sono costruite e montate.