Festival di Cannes 2011

Stampa
PDF
Indice
Festival di Cannes 2011
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Pagina 10
Pagina 11
Pagina 12
Pagina 13
Tutte le pagine
sito ufficiale: http://www.festival-cannes.com/fr.html

Festival di Cannes 2011 - Giorno per giorno. 11-22 maggio 2011

Manifesto_del_festival_2011

Il festival di Cannes è la maggiore e la più importante manifestazione cinematografica d’Europa. A livello mondiale si contende il primato con il Festival di Sciangai e con quello canadese di Toronto. Per valutare appieno questo dato si deve tenere presente che le rassegne cinematografiche sono valutate sia per la qualità della sezione competitiva e di quelle collaterali, ma e soprattutto per le dimensioni assunte dal mercato dei film che organizzano. Da questo punto di vista è difficile dubitare del primato dell’iniziativa francese. Se è vero che, per mole dei titoli in cartellone, quella canadese si colloca quasi agli stessi livelli, con il vantaggio, per giunta, di non essere competitiva dedicando, quindi, tutta l’attenzione al commercio, non è meno vero che il richiamo della Croisette e la completezza della sua proposta continuano a imporre il Festival du Film al primo posto dell’attenzione mondiale. Quanto a quello di Sciangai, poi, esso è venuto assumendo importanza con l’affacciarsi sulla scena mondiale dei paesi asiatici, ma continua a restare un’iniziativa prevalentemente regionale, laddove Cannes ha peso e dimensioni quantomeno intercontinentali (Europa e Americhe). Per quanto concerne la parte più specificatamente competitiva è noto che le produzioni cercano quasi sempre e prioritariamente di trovare spazio in questa manifestazione e si rivolgono a Venezia solo in seconda battuta, in terza istanza, a Berlino.

Quest’ultima rassegna, nonostante gli enormi progressi realizzati, rimane ancora indietro sia per ragioni commerciali – arriva troppo tardi per le uscite clou dell’anno – sia climatiche. Cannes, dunque, gode di una posizione egemone che, quest’anno, ha sfruttato a dovere offrendo, sulla carta, un cartellone che lascia presagire un’edizione di valore. Ci saranno alcuni frequentatori abituali dei festival come Woody Allen (Mezzanotte a Parigi in apertura), Pedro Almodovar (La piel que habito), Alain Cavalier (Pater), Jean-Pierre e Luc Dardenne (Le gamin a vélo), Aki Kaurismäki (Le Havre), Terrence Malick (The Tree of Life), Lars Von Trier (Melancholia). C’è poi una pattuglia di giovani che hanno già ottenuto importanti riconoscimenti in altre edizioni: Nuri Bilge Ceylan (Bir zamanlar anadolu’da), Radu Mihaileanu (La source des femmes), Nanni Moretti (Habemus Papam), Paolo Sorrentino (This must be the place). Infine, i selezionatori non hanno dimenticato la possibile scoperta di nuovi talenti o la necessità di dare spazio a cinematografie poco note. L’hanno fatto, soprattutto, con un paio di opere prime (Sleeping Beauty di Julia Leigh e Michael di Markus Schleinzer) e altrettante nazionalità solitamente poco frequentate (Hearat Shulayim dell’americano – israeliano Joseph Cedar, e Drive del danese Nicolas Winding Refn). In ogni caso ecco il cartellone completo delle sezioni ufficiali:

Film d’apertura

Woody ALLEN MIDNIGHT IN PARIS (Mezzanotte a Parigi).

Film di chiusura

Christophe Honoré LES BIEN-AIMES (I beneamati).

Concorso

Pedro ALMODÓVAR LA PIEL QUE HABITO (La pelle in cui vivo).

Bertrand BONELLO L'APOLLONIDE (Ricordi della casa chiusa).

Alain CAVALIER PATER (Padre).

Joseph CEDAR HEARAT SHULAYIM (Nota a piè di pagina).

Nuri Bilge CEYLAN BIR ZAMANLAR ANADOLU'DA (C’era una volta in Anatolia).

Jean-Pierre e Luc DARDENNE LE GAMIN AU VÉLO (Il ragazzo con la bicicletta).

Aki KAURISMÄKI LE HAVRE.

Naomi KAWASE HANEZU NO TSUKI.

Julia LEIGH SLEEPING BEAUTY (La bella addormentata).

MAÏWENN LE BESCO POLISSE (Lucidare).

Terrence MALICK THE TREE OF LIFE (L’albero della vita).

Radu MIHAILEANU LA SOURCE DES FEMMES (La sorgente delle donne).

Takashi MIIKE ICHIMEI (Hara-Kiri: la morte del samurai).

Nanni MORETTI  HABEMUS PAPAM.

Lynne RAMSAY WE NEED TO TALK ABOUT KEVIN (Dobbiamo parlare di Kevin).

Markus SCHLEINZER MICHAEL.

Paolo SORRENTINO THIS MUST BE THE PLACE (Il posto deve essere questo).

Lars VON TRIER MELANCHOLIA (Malinconia).

Nicolas WINDING REFN DRIVE (Guida).

Michel HAZANAVICIUS THE ARTIST (L’artista).

Un Certain Regard

Gus VAN SANT RESTLESS (Irrequieto).

Bakur BAKURADZE OKHOTNIK (Il cacciatore).

Andreas DRESEN HALT AUF FREIER STRECKE (Fermata fra le stazioni). Bruno DUMONT HORS SATAN (Oltre Satana).

Sean DURKIN MARTHA MARCY MAY MARLENE (Martha Marcy, la mia Marlene).

Robert GUÉDIGUIAN LES NEIGES DU KILIMANDJARO (Le nevi del Kilimangiaro).

Oliver HERMANUS SKOONHEID.

HONG Sangsoo THE DAY HE ARRIVES (Il giorno che è arrivato).

Cristián JIMÉNEZ BONSÁI (Bonsaï).

Eric KHOO TATSUMI.

KIM Ki-duk ARIRANG.

Nadine LABAKI ET MAINTENANT ON VA OÚ? (e adesso dove andiamo?).

Catalin MITULESCU LOVERBOY.

NA Hong-jin THE YELLOW SEA (Il mar giallo).

Gerardo NARANJO MISS BALA.

Juliana ROJAS, Marco DUTRA TRABALHAR CANSA (Lavorare stanca).

Pierre SCHOELLER L'EXERCICE DE L'ETAT (Esercizio di Stato).

Ivan SEN TOOMELAH.

Joachim TRIER OSLO, AUGUST 31st (Oslo, 31 agosto).

Mohammad Rasoulof BE' OMID E' DIDAR (Arrivederci)

 

Jafar Panahi e Mojtaba Mirtahmasb IN FILM NIST (Questo non è un film)

Andrey Zvyagintsev ELENA

Fuori concorso

Xavier DURRINGER LA CONQUÊTE (La conquista).

Jodie FOSTER THE BEAVER (Il complesso del castoro).

Rob MARSHALL PIRATES OF THE CARIBBEAN: ON STRANGER TIDES (Pirati dei Caraibi : la fontana del ringiovanimento).

Rakeysh OMPRAKASH MEHRA e Jeffrey ZIMBALIST BOLLYWOOD - THE GREATEST LOVE STORY EVER TOLD (Bollywwod: la più grande storia d’amore mai raccontata).

Proiezioni di mezzanotte

CHAN Peter Ho-Sun WU XIA.

Everardo GOUT DIAS DE GRACIA (Giorno di grazia).

Proiezioni speciali

Frederikke ASPÖCK LABRADOR.

Rithy PANH DUCH, LE MAÎTRE DES FORGES DE L'ENFER (Duch, il maestro delle fornaci dell’inferno).

Michael RADFORD MICHEL PETRUCCIANI.

Christian ROUAUD TOUS AU LARZAC (Tutti a Larzac).


Il festival si è aperto con un piacevole e interessante film del più europeo fa i registi americani: Woody Allen. Midnight in Paris (Mezzanotte a Parigi) mette assieme l’autore ironico e riflessivo sull’esistenza con il cineasta fantasioso capace di immaginare le situazioni più originali. Gil e la fidanzata, quasi moglie, fanno un viaggio di piacere a Parigi con obiettivi notevolmente opposti. Lei è la classica americana che visita l’Europa come se andasse in colonia fra i selvaggi, lui adora il vecchio continente e lo guarda con gli occhi di chi si avvicina a un mondo ricco di storia e sede delle radici della cultura, quelle stesse che hanno costruito l’intellettualità americana. Sarà ricompensato con una sorta di sortilegio: a mezzanotte, a un certo angolo di strada, una vecchia auto passerà a prenderlo per trasferirlo nella Parigi degli anni fra le due guerre ove avrà modo di incontrare, chiacchierare, bere con monumenti dell’arte come Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Gertrude Stein, Man Ray, Salvator Dali, Luis Buñuel. Un viaggio fantastico e affascinante nel passato che ne apre altri, come una galleria di specchi, che portano alla Belle Époque, poi all’ancien regime, giù giù sino alla fine dei tempi poiché c’è sempre un’epoca che crediamo d’oro, migliore di quella in cui viviamo. E’ questo il senso profondo del film: l’invito a smettere di sognare, fantasticare sul passato per vivere il presente con la coscienza delle sue contraddizioni, ma anche con la consapevolezza della sua inevitabilità. Il film è perfetto nella confezione, giustamente misurato nell’equilibrio fra ironia a malinconia, preciso nella riflessione sullo scorrere del tempo e sull’impossibilità di sfuggire alla propria condizione storica. Vi ritroviamo il meglio della parte fantastico/filosofica tipica del cinema di questo cineasta, senza gli appesantimenti moralistici che si scorgevano in alcuni dei suoi ultimi lavori.

La sezione competitiva è stata aperta dall’opera prima di un’australiana: Sleeping Beauty (La bella addormentata) di Julia Leigh. Una giovane studentessa ha un disperato bisogno di denaro, per questo si adatta a fare da cavia per ricerche mediche, a servire ai tavoli in un ristorante, a confezionare fotocopie in un ufficio. La sua vita è abbastanza imbrogliata, ha una madre con cui si limita a scambiare qualche telefonata, un ex-fidanzato tossicodipendente e di cui è ancora innamorata, amici che la ospitano solo per il suo contributo che alle spese. Un giorno, tramite un annuncio economico, viene in contatto con l’organizzatrice di cene per ricchi borghesi, prenzi molto riservati in cui le cameriere servono in sostanza nude. Da lì a salire in carriera diventando una bella addormentata, vale a dire una ragazza che è drogata, poi messa a letto nuda e così data in pasto alle voglie – penetrazione a parte – dei soliti ricchi depravati. Accetta tutto, trama persino di ricattare qualcuno fra i suoi occasionali compagni di letto, ma quando uno la sceglie come compagna di suicidio, al risveglio prorompe in un urlo di ribellione. E’ un film molto professionale nella costruzione e nell’interpretazione, ma non lineare e chiaro nella costruzione narrativa. Questo lo fa oscillare fra una sostanziale solidarietà verso la protagonista, un pizzico di voyeurismo – i nudi si sprecano – e uno sguardo freddo che, tuttavia, non riesce a cogliere un preciso filo conduttore. In definitiva una prova professionalmente matura, ma non del tutto convincente.


 

La regista britannica Lynne Ramsay ha tratto We Need to Talk About Kevin (Dobbiamo parlare di Kevin) dal libro omonimo della scrittrice Americana Lionel Shriver, edito nel 2003. Vi si racconta il terribile rapporto fra una madre e il figlio alla cui vita la donna ha sacrificato sia ambizioni professionali, sia autonomia esistenziale. Sarà ricambiata con disprezzo, violenza, vere e proprie imboscate fisiche sino al tragico finale che vede il ragazzo uccidere a colpi di freccia padre e sorella, che aveva già privata di un occhio, per poi compiere un vero e proprio massacro nel liceo in cui studia. Il film è il classico prodotto per attori, nel senso che il valore principale riconduce alle prestazioni, davvero eccezionali, degli interpreti, in primo luogo una Tilda Swinton che supera i livelli già straordinari mostrati in precedenza. Questa impostazione essenziale lo relega a prodotto solo parzialmente valido, quadro di una vicenda molto drammatica ma sospesa nel tempo e nello spazio, priva di reali agganci con il mondo in cui è immersa. E' un saggio di recitazione e di professionalità davvero mirabile, ma nulla più.

Le cose sono andate ancora peggio con Maïwenn Le Besco, regista di Polisse (letteralmente Lucido, in questo caso Polizia che pulisce a fondo). La regista, che è anche una famosa attrice, ci racconta una serie di storie di aggressioni a bambini affrontate dalla squadra per la repressione dei crimini sui minori (BPM = Brigade de Protection des Mineurs) di Parigi. Sono vicende di pedofilia, prostituzione giovanile, violenze su ragazzi e ragazze. Il catalogo è abbastanza variegato, ma rischia la ripetitività e la direzione non riesce a motivare gli snodi dei vari capitoli, che rimangono isolati gli uni dagli altri senza convergere in un disegno unitario. Più che un film unitariamente concepito, sembra un collage di corto e mediometraggi collegati da un generico intento di denuncia, ma malamente saldati da banali storielle d’amore e di difficoltà familiari. Da aggiungere, poi, un fastidiosissimo elogio della probità e correttezza della polizia francese – una sola volta un agente rifila uno schiaffone a un pedofilo arrogante, tutte le altre gli incriminati sono trattati con i guanti – esaltazione che contrasta con non pochi episodi di cronaca che, invece, hanno messo in luce brutalità e abusi. In definitiva è un film poco interessante e costruito senza troppa abilità.

Ha aperto i battenti anche la sezione Un Certain Regard, quella in cui finiscono i titoli che i selezionatori devono prendere per ragioni diplomatiche o d’opportunità politica, ma che non si sentono di sottoporre alle luci del concorso. Ovvio che fra queste opere, diciamo, di seconda scelta si trovino anche produzioni di grande forza, com’è successo lo scorso anno con i due film rumeni presenti in cartellone. I due titoli presentati quest’anno in apertura non erano particolarmente avvincenti, anche se hanno richiamato grandi folle. Restless (Irrequieto), ultima fatica del prolifico e amatissimo, da una parte della critica, Gus Van Sant si scosta abbastanza dagli stilemi tipici di questo cineasta americano raccontando una storia in cui compaiono una giovane ammalata terminale di cancro al cervello e un ragazzo talmente affascinato dall’idea della morte da frequentare tutti i funerali che gli capitano a tiro, oltre che dialogare con il fantasma di un pilota kamikaze giapponese morto nella seconda guerra mondiale. E’ una sorta di elegia dell’amore e della morte che, per un certo verso, si muove sullo stesso terreno di Heareafter, l’ultima fatica di Clint Eastwood, discostandosene per scarsa razionalità e una buona dose di romanticismo non proprio di prima mano. Certo ci sono anche elementi positivi, come la pulizia dello stile, una caratteristica tipica di quest’autore, e la semplicità del raccontare, ma non bastano a conferire al film una statura elevata.

Un vero e proprio piccolo naufragio ha accompagnato la programmazione dal brasiliano Trabalhar Cansa (Lavorare stanca) di Juliana Rojas e Marco Dutra. La giovane casalinga Helena decide di dare significato alla propria vita aprendo un minimarket, lo fa proprio nei giorni in cui il marito perde il lavoro di dirigente d’azienda e stenta a trovare un’altra occupazione. Già da queste poche righe si potrebbe pensare a un testo legato ai drammatici problemi sociali che martoriano la classe media in tutto il mondo, ma si commetterebbe un errore perché il film vira quasi subito immergendosi in una storia fantastica popolata da cani feroci, mostri nascosti nelle pareti, presenze misteriose. E’ un miscuglio che non funziona e oscilla per oltre un’ora e mezzo fra sociologia e fantastico, non sapendo bene quale strada imboccare con sicurezza. Modesto e pasticciato.


 

Nella sezione concorso è stato presentato Habemus Papam, ultimo film di Nanni Moretti (1953), di cui abbiamo parlato al momento della presentazione nel circuito commerciale italiano. Per semplice ricordo proponiamo il testo di quella recensione. Il film ruota attorno al tema della responsabilità e della competenza. E' la responsabilità intesa come coscienza di se, consapevolezza delle proprie capacità a svolgere un compito specifico e complesso. Competenza colta come disponibilità di mezzi adeguati ad affrontare i problemi in cui si è immersi. Alla morte di un Papa, le immagini sono quelle dei funerali di Giovanni Paolo II, il Conclave, riunito nella Cappella Sistina, sceglie, a sorpresa, un Cardinale francese. Il prescelto è prima sorpreso, poi progressivamente travolto dalla responsabilità piovuta sulle sue spalle: non sceglie un nome e rifiuta di affacciarsi al balcone di San Pietro per la prima benedizione ufficiale. In questo modo il Conclave non può sciogliersi, i prelati devono rimanere isolati in Vaticano, l’intera macchina dell’elezione rimanere in piedi. La soluzione sembra quella di fare ricorso a un celebre psichiatra, interpretato lo stesso regista, per capire le ragioni dell’esitazione dell’eletto. Tuttavia all’analista sono legate le mani: non potrà fare domande sul sesso, limitare accenni ai problemi infantili, indagare con molta discrezione su sogni e desideri. Per un accumularsi di circostanze il prescelto riesce a liberarsi dalla pesante tutela cui è sottoposto e, per alcuni giorni, riesce a vagare per Roma dando timido sfogo anche alla passione che coltiva sin da piccolo: il teatro. In questo e nella scelta de Il gabbiano (Čaika, 1896) di Anton Pavlovič Čechov (1860 – 1904) quale emblema del lavoro sulla scena, ci sono sia riferimenti alla biografia di Papa Wojtyla, sia richiami alla complessità dell’essere davanti alla realtà. In Vaticano, intanto, regna il caos: il portavoce, che ha assunto la direzione delle iniziative, riesce a convincere tutti che il nuovo Santo Padre è chiuso nei suoi appartamenti in meditazione e preghiera, lo psichiatra organizza un torneo di pallavolo per i cardinali, il mondo intero è in attesa. Sarà l’eletto a sciogliere ogni cosa ritornando in Vaticano, affacciandosi al balcone, ma solo per annunciare la sua rinuncia, assieme all’invito a ritornate a riflettere su se stessi e sul mondo. E’ un film apparentemente semplice, in realtà molto complesso in cui s’intrecciano note personali, come i pressanti inviti al regista, un paio d’anni or sono, a scendere in politica, e una più generale riflessione sulla superficialità dell’oggi e la necessità di andare oltre la superficie, per cogliere la complessità del mondo. In questo ritroviamo, maturata, una delle più interessati caratteristiche dell’orizzonte culturale di questo regista che, sin da tempi lontani – Bianca (1984), Palombella Rossa (1989) – ha continuato a denunciare approssimazione e superficialità. Come dire che siamo alla presenza di una nuova riflessione che mette in discussione le basi stesse del modo con cui, oggi, si affronta l'analisi del mondo. Una proposta di grande respiro che lascia perplessi per alcuni momenti in cui si articola - l’intero capitolo del torneo di palla a volo fra cardinali o la parte dedicata al gendarme della guardia svizzera che si rimpinza di dolci nell’appartamento pontificio per far credere che il nuovo Papa sia ancora nelle sue stanze - ma che raggiunge punte di riflessione e stimolo che quest’autore sinora non aveva toccato.

Simpatico, anche se meno interessante Footnote (Nota a piè di pagina) dell’israeliano, d’origine americana, Joseph Cedar secondo titolo in concorso visto oggi. Al centro del film c’è una situazione già vista in altre occasioni, per esempio nel rumeno Medalia de onoare (Medaglia d'onore) di Calin Netze. Causa l’errore di una segretaria un anziano professore di filologia talmudica è segnalato come vincitore dell’importante Premio d’Israele, la più alta onorificenza concessa dal paese. In realtà il vincitore è suo figlio, ma le cose si complicano perché il maturo docente attende questo riconoscimento da una vita e il presidente della commissione deliberatrice è un suo anziano nemico che rifiuta ogni possibile accomodamento salvo che il vero vincitore se impegni a non candidarsi mai più al riconoscimento e scriva di suo pugno la motivazione del premio. Sarà proprio questo incarico e le parole usate a rivelare al maturo studioso che il riconoscimento non è suo. Il film si chiude in modo interlocutorio con il supposto vincitore che si avvia alla cerimonia di premiazione pieno di dubbi e tutt’altro che deciso a portare avanti la bugia. Il film gioca molto sui rapporti famigliari e sulle contraddizioni padre-figlio costruite con una spolverata di socialità che dovrebbe marcare le differenze fra la vecchia serietà accademica e i nuovi comportamenti dei giovani ricercatori. In realtà questi obiettivi rimangono costantemente al margine in un film pieno di snodi prevedibili e tutt’altro che significativo da un punto di vista sociale.

La sezione Un Certain Regard ha presentato Toomelah del regista australiano Ivan Sen. Il titolo rimanda a una comunità aborigena composta da poche centinaia di persone della comunità Gamilaroi, che vivono, in condizioni di degrado, nel nord – est del Nuovo Galles del Sud. E’ la storia del decenne Daniel che rifiuta la scuola e la vita ordinaria per unirsi a una banda di spacciatori di marijuana e crack, fungendo come una sorta di piccolo servitore cui sono affidate le azioni più pericolose. Così, quando il gruppo entra in conflitto con un boss locale appena uscito dalla prigione che pretende di controllare l’intero territorio, sarà proprio il piccolo a essere incaricato di entrare in casa del nemico per scoprire ove nasconde droga e armi. Quando il conflitto s’inasprisce, sfociando nell’uccisione del nuovo venuto e nell’arresto degli spacciatori, il piccolo si ritrova solo e forzatamente costretto a scegliere fra il ritorno a scuola e alla vita normale e il continuare sulla strada del crimine. Il regista non propone suggestioni, anche se, come scrive del materiale per la stampa, propende per una scelta che garantisca al giovane un futuro migliore. Il film non percuote tasti particolarmente originali, ma è girato con rigore professionale, anche se la prima proiezione vista qui ha sofferto di numerose sfocature che, se intenzionali, non avrebbero davvero senso. Gli interpreti, tranne uno, sono tutti presi dalla strada e ricoprono ruoli, s’intuisce, con cui hanno una certa familiarità.

Il regista sudcoreano Kim Ki-duk è uno degli autori contemporanei più stimati dai critici. I suoi film hanno ottenuto premi ai festival di San Sebastian (Dream, 2008), Karlovy Vary (Time, 2006), Venezia (3-Iron, 2004), Berlino (Samaritan Girl, 2004), Locarno (Spring, Summer, Fall, Winter…and Spring – 2003). Tuttavia, dopo un’attività frenetica che gli ha visto firmare ben quindici titoli in tredici anni, da qualche tempo aveva smesso di dirigere. Lo si diceva ammalato, lui stesso ha parlato del turbamento causatogli da un incidente in cui l’interprete femminile di Dream ha rischiato la vita, ma nulla era certo. Ecco ora arrivare Arirang (è il nome di una canzone popolare che individua anche una parte della cultura sudcoreana), una lunga confessione davanti a una minitelecamera in cui il regista, ritiratosi a vivere in una tenda montata in una capanna situata in una zona montagnosa del paese, parla di cinema, morale, vita e racconta i problemi avuti con alcuni collaboratori. È un complesso monologo in cui il cineasta mostra anche gli oggetti che ha costruito avvalendosi dell’esperienza accumulata quando era operaio. A un certo punto il film passa dal documento personale alla narrazione, con il regista che si costruisce un revolver con cui spara a due suoi collaboratori che, a suo dire, lo hanno tradito. E’ un’opera sicuramente originale in cui è difficile cogliere i confini fra affabulazione e psicodramma, ma che avvince per la bravura con cui le immagini sono costruite e montate.


 

I grandi festival funzionano anche come casse di risonanza per i film ad alta caratura spettacolare che le grandi produzioni presentano per sfruttare l’eco suscitato nella stampa. C’è da augurarsi che anche le direzioni delle manifestazioni traggano un qualche vantaggio dall’avere in anteprima titoli che hanno ben pochi meriti per figurare in rassegne di cinema di qualità. La situazione diventa ancora peggiore quando si modificano i programmi, penalizzando altre opere che sono spostate dalle loro posizioni di diritto. È accaduto oggi con Pirati dei Caraibi: Oltre i confini del mare (Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides, 2011). E' la quarta tappa dalla serie piratesco – fantastica aperta da La maledizione della prima luna (Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl, 2003) e proseguita con Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma (Pirates of the Caribbean: Dead Man's Chest, 2006) e Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo (Pirates of the Caribbean: At World's End, 2007), tutti a firma di Gore Verbinski. Il film, questa volta diretto dallo specialista di musical e superproduzioni Bob Marshall, è stato presentato nella versione tridimensionale e, rispetto ai precedenti, mostra un maggiore tasso d’ironia. Al centro ci sono i soliti personaggi: Jack Sparrow (Johnny Depp), Angelica (Penelope Cruz), Hector Barbossa (Geoffrey Rush) e Barbanera (Ian McShane) alternativamente alleati e avversari nella corsa alla fonte dell’eterna giovinezza. Lo scenario passa dalla Londra dell’inizio del diciassettesimo secolo sino alle foreste tropicali. E’ un tipo di narrativa che punta tutte le sue carte sulla meraviglia delle costruzioni e i miracoli della computer grafic, per tacere delle sorprese legate a un utilizzo abile e milionario del 3D. In definitiva è più una scatola delle meraviglie, un baraccone rutilante che non una storia di cui apprezzare coerenza e organizzazione narrativa.

Per quanto riguarda il concorso è stato presentato Le gamin au vélo (Il ragazzo con la bicicletta) dei fratelli Jean-Perre e Luc Dardenne, cineasti onusti di premi e che proprio a Cannes hanno ottenuto i maggiori risultati con Rosetta (Palma d’Oro e premio della migliore interpretazione femminile, 1999), Le fils (Il figlio) che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione maschile del 2002 e L’enfant (Il ragazzo) coronato con la Palma d’Oro nel 2005. Questa loro ultima fatica ribatte la strada stilistica delle loro opere migliori, un percorso fatto di macchina da presa costantemente addosso agli interpreti, storie semplici ma ricche di significato, interpreti straordinari. Cyril non ha ancora compiuto dodici anni, vive in una casa per ragazzi ove il padre l’ha messo non avendo più intenzione di curarsi di lui. Il sogno del giovane è di ritrovare il genitore, ma quando ciò accade, questi gli conferma che di lui non vuole sapere. Uno spiraglio si apre quando Samantha, una parrucchiera gentile e sensibile, decide di diventare l’affidataria temporanea del ragazzo. Anche nella nuova situazione le cose non vanno bene e lui si lega a un delinquentello che lo spinge a rapinare un bibliotecario. Uscito dai guai, grazie ancora una volta ai buoni uffici della parrucchiera, rischia grosso quando il figlio del rapinato vuole vendicarsi. Tuttavia ogni cosa finirà vene con la speranza che il giovane abbia superato il trauma dell’abbandono e capito quale strada sia meglio imboccare. Il film è girato con l’usuale stile pulito e tranquillo tipico di questi due cineasti, e costruisce un piccolo apologo sulla violenza del mondo e sui drammi dell’abbandono. E’ una storia apparentemente banale, ma che i due registi trasformano in un piccolo gioiello di sensibilità e introspezione psicologica.

La sezione Un Certain Regard ha presentato due titoli di rilievo. Bé omid è Didar (Arrivederci) viene dall’Iran, un tempo terra cinematograficamente più che feconda, e porta la firma di Mohammad Rasoulof cui le autorità di Teheran non hanno concesso il visto d’uscita e che, proprio in coincidenza con la prima proiezione al Festival, è stato convocato dalla polizia della cultura per non meglio precisate comunicazioni. Che le autorità iraniane non amino questo e altri registi non sorprende, poiché il film è un duro atto d’accusa contro la repressione politica e morale che vige in quel paese. E’ la storia di una giovane avvocatessa, moglie di un giornalista spedito dal regime a fare altre cose nelle zone semidesertiche del sud del paese, che, vista l’impossibilità di svolgere il suo mestiere, decide di emigrare. E’ incinta e gli annunciano, quando è troppo tardi per abortire, che il nascituro è affetto dalla sindrome di Down. Ha, dunque, molte ragioni per andarsene, ma dopo aver subito numerose umiliazioni – la perquisizione della sua casa da parte della polizia è una sequenza veramente straziante – la arrestano mentre sta per andare all’aeroporto con biglietto e passaporto regolari. E’ uno di quei film che fanno accapponare la pelle e denunciano, ancor meglio che decine di saggi o articoli, di quale ferocia si nutra il potere che chierici estremisti che tengono in mano il potere a Teheran.

Se quello iraniano è un film che induce alla rabbia Les Neiges du Kilimandjaro (Le nevi del Kilimangiaro) del francese Robert Guédiguian ci porta in un universo di speranza e buoni sentimenti. Ritornato nella sua Marsiglia dopo alcune escursioni parigine, il regista ci racconta i triboli di un sindacalista portuale che spinge la sua onestà sino a truccare l’estrazione per scegliere i venti operai da licenziare in cantiere, mettendo il suo nome al posto di quello di un altro. Disoccupato e melanconico, passa le giornate fra lavori casalinghi e ozio, sino al momento in cui lui, la moglie e una coppia di amici sono vittime di una rapina in cui due banditi rubano loro risparmi e denari raccolti dagli altri operai per compensarlo del suo lungo lavoro sindacale. Casualmente scopre che uno dei rapinatori è un suo ex – collega, licenziato anche lui, lo denuncia alla polizia e lo fa condannare. Quando ha un confronto con il ladro, si sente insultare e accusare di non aver adempiuto ai suoi compiti in modo adeguato. Sconvolto, finirà per prendere con sé, assieme alla moglie, i due fratelli del delinquente, due ragazzini che, altrimenti, rimarrebbero senza alcuna protezione. Più che ai vecchi ideali comunisti, tipici di questo regista, spira nel film una piacevole aria di socialismo romantico, rinforzato dalla molte citazioni di Jean Jaurès, uno dei padri della socialdemocrazia francese. E' un film ottimista e solidale che, di questi tempi, appare più che utile.


 

Il programma del Festival ci ha regalato un piccolo, prezioso gioiello: The Artist (L’artista) del regista francese Micherl Hazanavicius. La storia che racconta non è affatto nuova e parla di quella fase, convulsa e drammatica, che ha segnato sia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro (1927 uscita di The Jazz Singer – Il cantante di Jazz – di Alan Crosland), sia il dramma della grande crisi che ha travolto l’economia mondiale fra il 1929 e il 1933. Il primo scenario è affrontato con alcune trovate davvero notevoli. Citiamone una: il passaggio al cinema sonoro segnalato con gli oggetti che, cadendo o spostandosi, fanno rumore, mentre gli esseri umani, in particolare il protagonista, continuano a rimanere afoni. Il film racconta, praticamente senza dialoghi, l’amore fra un divo del muto e una giovane star del sonoro che lui stesso aveva avviato al cinema. I due hanno rapporti molto difficili, con lei che non smette di aiutarlo anche quando lui rifiuta ogni sostegno. Il finale è all’insegna del più classico happy end, con il ritorno al successo di entrambi come coppia di ballerini. E’ un’opera molto simpatica, leggera, intelligente nella costruzione e di ottimo livello nella confezione e nello sviluppo, per quanto più che prevedibile, del racconto.

Ottima proposta anche quella di Michael, che segna l’esordio nel lungometraggio dell’austriaco Markus Schleinzer. Qui siamo nei paraggi del cinema del grande Michael Haneke, autore che ha vinto la Palma d’Oro con Il nastro bianco (Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte, 2009), vale a dire opere intrise di una fortissima violenza espressa ma costruite senza quasi mostrare una goccia di sangue, ma creando atmosfere che pesano sullo spettatore in maniera quasi intollerabile. In questo caso è il racconto degli ultimi cinque mesi di vita di Michael, pedofilo trentacinquenne, e di Wolfgang, il ragazzino di dieci hanno che lui ha rapito, sequestrato e di cui abusa a capriccio. Anche in questo caso la tensione è tutta intrecciata al racconto, non certo espressa con immagini sanguinolente. Vi si potrebbe vedere una citazione sia dalla statistica che segnala come siano ben un migliaio i bambini che scompaiono ogni anno in Germania, sia dall’atroce dramma della cittadina austriaca di Amstetten, ove il sessantatreenne Josef Fritzl ha tenuto prigioniera per ben ventiquattro anni la figlia Elisabeth e tre dei sette figli che la donna ha avuto da lui. Tuttavia l’intento del regista va oltre la semplice ricostruzione cronachistica per indagare i rapporti fra carceriere e recluso, aguzzino e vittima. Come già segnalato il film ha un taglio lineare, sfugge dalla spiegazioni psicologiche a buon mercato, come dalle facili invettive. Racconta una storia terribile senza premere l’acceleratore sui facili  effetti grandguignoleschi, ma badando a far emergere l’orrore dalla fotografia della normalità piccolo borghese. In questo modo licenzia un quadro particolarmente inquietante, proprio perché racconta l’insopportabile attraverso immagini del tutto neutre.

E' un pessimo ricordo, invece, quello lasciato da L’Apollonide – Souvenirs de la Maison Close (L’Apollonide – Ricordi della casa chiusa) proposto dal francese Bertrand Bonello. Ambientato fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, il film è quasi interamente girato, fa eccezione la sequenza finale ambientata ai giorni nostri in una strada frequentata da prostitute, in una lussuosa casa di tolleranza. Qui le varie prostitute raccontano i loro triboli e le, loro speranze, mentre la padrona tenta vanamente si sopravvivere agli aumenti d’affitto imposti dal notaio che possiede l’intero immobile. Dire che siamo alla presenza di un film sconclusionato è dire poco. A parte le numerose incongruenze storiche, a iniziare dalla colonna sonora infarcita di canzoni anni sessanta, che il regista giustifica affermando di aver voluto legare l’ieri all’oggi, il film oscilla fra situazioni banali e brani apertamente voyeuristici o grossolanamente grandguignoleschi. In poche parole il primo titolo di quest’anno di cui non si giustifica la presenza in concorso.

Nella sezione Un Certain Regard è stato presentato un film che si muove in direzione diametralmente opposta. Halt Auf Freier Strecke (Fermata in pieno percorso) del tedesco Andreas Dresen è la cronaca, minuziosa e impietosa, dell’agonia di un giovane marito a cui è stato diagnosticato un tumore inoperabile al cervello che gli riserva solo pochi mesi di vita. Ne emergono la progressiva perdita delle funzioni basilari – camminare, ricordare, parlare – la fatica immensa dei parenti, la moglie in particolare, per affrontare la situazione e rendergli almeno sopportabili gli ultimi momenti, ma anche la rabbia, i conflitti, la sopportazione che si usura giorno dopo giorno. E’ un film sgradevole, nel senso che costringe a guardare in faccia la morte e a considerare la possibilità che anche a noi tocchi un simile, orrido destino. Non è certo un film da consigliare a spettatori particolarmente sensibili o a quanti chiedono allo spettacolo cinematografico intrattenimento o emozioni a lieto fine. E’ un film che sconvolge nel profondo, tanto da far sorgere persino il dubbio di un minimo compiacimento nel gettare in faccia tanto dolore, ma è anche una proposta d’alto livello per quanto riguarda la costruzione del discorso e la rappresentazione del percorso verso la morte.

 


Terrence Malick (1943) non è un autore facile. Quello che presentato in concorso quest’anno è il suo quinto film in quarant’anni di carriera, una filmografia magra di titoli, ma ricca di suggestioni e spunti di discussione. Il suo primo titolo, La rabbia giovane (Badlands), è del 1973 a questo hanno fatto seguito I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) e The New World - Il nuovo mondo (The New World, 2005), tutte opere magistrali per precisione costruzione in cui gli eventi diventavano anche pretesti per dense riflessioni filosofiche. Una caratteristica che primeggia anche in The Tree of Life (L’albero della vita) in cui solo molto sommariamente si può ridurre la trama ai ricordi di un architetto di successo, figlio di un militare autoritario e individualista. Sono tre le parti che segnano il film: una serie d’immagini della natura e della preistoria a identificare lo scorrere del tempo, la vita di una famiglia borghese nel Texas degli anni cinquanta, e i panorami di oggi sia della città dagli edifici fantascientifici, sia del sogno di equilibrio morale e religioso dell’ex – ragazzo. Quello che la regia propone allo spettatore non è un percorso facile, molti sono i punti che rimangono da chiarire, continua l’incertezza fra il ritratto storico e la predicazione biblica. Usando due divi d Hollywood, Brad Pitt e Sean Penn, questo cineasta costruisce un film che più anti - hollywoodiano non potrebbe essere. Usa a piene mani immagini della natura di grande bellezza e costruisce l’opera su una fotografia e un’attenzione per il dettaglio davvero unici. Tuttavia ciò che convince di meno è la verbosità e la relativa oscurità del discorso, quasi un piccolo saggio filosofico applicato a un mezzo, il cinema, che mal lo sopporta i discorsi teorici, come ci ricordano, ad esempio, i falliti tentativi di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1898 – 1948) di trarre un film da Il Capitale (Das Kapital, 1867) di Karl Marx (1818 - 1883). In altre parole un testo che imbarazza per la sua anti narratività voluta e assoluta, mascherata da romanzo autobiografico.

Dati che ritroviamo anche in Hors Satan (Fuori Satana) del francese Bruno Dumont presentato nella sezione Un Certain Regard. Questo cineasta ha sempre favorito - da L'età inquieta (La vie de Jésus, 1997) passando per L'umanità (L'humanité, 1999), Twentynine Palms (2003), Flandres (2006) e Hadewijch (2009) - il discorso religioso nel senso che i personaggi delle sue opere sono anche leggibili come metafore della fede, dal Cristo al discepolo inquieto e dubitoso. La stessa cosa avviene in quest’ultimo film in cui un misterioso personaggio, capace di resuscitare i morti e punire i malvagi, si accompagna, siamo in una regione della zona Manica, a una ragazza oltraggiata da un vicino, innamorata e pronta a fare l’amore con lui. Ogni offerta sessuale è respinta, come capita ai bravi angeli scesi sulla terra, mentre i malvagi pagano il fio delle loro colpe anche quando si tratta di semplici viandanti troppo sensibili al richiamo del sesso. Ancora una volta siamo in presenza di una fotografia che trae il meglio da un paesaggio ricco di suggestioni, ma anche di una morale e una teoria che prevalgono sul racconto. Vale la pena notare come, stranamente, nel 2010 c’è stato un film turco, Kosmos (2010), di Reha Erdem al cui centro c’era una figura di santo misterioso, molto simile a quella che compare in quest’opera.

A rimetterci in sintonia, almeno in parte con la funzione puramente narrativa del cinema è venuto Et maintenant on va ou? (e adesso dove andiamo?) opera seconda della libanese Nadine Labaki che nel 2007 aveva molto divertito con le parrucchiere di Caramel. Anche in questo caso le donne sono al centro di un discorso che ruota attorno a un piccolo paese della montagna libanese rimasto miracolosamente estraneo agli scontri interreligiosi che hanno travolto il paese. Ora, tuttavia, questa minuscola isola felice sta per essere travolta dalle tensioni fra mussulmani e cristiani. Saranno le donne, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, a ordire una sorta di congiura per riportare gli animi alla ponderazione e alla tranquillità, ma non prima di aver pagato il prezzo della morte di uno fra i migliori giovani del paese. E’ un film generoso, con qualche tratto ironico e alcune sequenze di grande bellezza. Citiamo, in particolare quella iniziale con le donne in nero che danzano il loro dolore.


 

Aki Kaurismäki è fra i registi più originali e tematicamente costanti del cinema contemporaneo. Nel corso dei una non breve carriera - è nato a Orimattila, in Finlandia, nel 1957 - ha firmato una quindicina di lungometraggi, oltre a un numero consistente di corti. Tutti questi lavori seguono una precisa linea intessuta di polemica sociale e ironia saldate a una netta presa di posizione anticapitalista in favore degli emarginati. Miracolo a Le Havre (Le Havre) si muove sullo stesso terreno affrontando il drammatico tema dell’immigrazione extracomunitaria. Marcel Marx, un cognome che è tutto un programma, è un ex scrittore che, dopo una vita scapigliata, si è ritirato nella città portuale francese, ove sopravvive malamente facendo il lustrascarpe. Un giorno incontra un ragazzino africano, sfuggito alla caccia della polizia. Il giovane vuole raggiungere la madre che vive a Londra. Lo porta in casa sua e lo aiuta in ogni modo, siano a farlo fuggire verso l’Inghilterra anche grazie anche ai buoni uffici di un commissario di polizia, burbero quanto umano. La vicenda, così riassunta, dice poco perché il pregio del film è in uno stile, magistralmente articolato, che impasta ironia e rabbia rese ancor più efficaci da un taglio che possiamo definire di derivazione brechtiana. Vale a dire un raccontare depurato da sentimenti e sentimentalismi che guarda a situazioni e personaggi con la freddezza con cui lo scienziato osserva i fenomeni sociali. L’unico momento in cui l’autore si lascia andare a una parvenza d'emozione, è nel modo con cui presenta a questo figlio di una popolazione di dannati della terra le cui miserevoli condizioni sono l’altra faccia del nostro benessere.

Il secondo film in concorso della giornata è stato Pater (Padre) firmato da uno dei più schivi maestri del cinema francese: Alain Cavalier. Un autore che già altre volte ci ha abituati a storie che portavano sullo schermo i suoi momenti più intimi della sua vita. L’ha fatto nel 2009 con Irene rivolto alla memoria di sua moglie. Ritorna oggi con un film in cui lui e il suo grande amico, l’attore Vincent Lindon, parlano di un film immaginario in cui si dovrebbero affrontare i ruoli e le figure del Presidente della Repubblica e del Primo Ministro. È un lungo dialogo che finisce per coinvolgere e mettere a confronto due modi di concepire la vita, svelandone i punti di coincidenza e le divergenze. Come si sarà capito è un’opera di taglio molto intellettuale, che affascina e sconcerta e che richiederebbe una lettura molto approfondita che, in questa sede, non è possibile.

A Un Certain Regard è stato presentato Skoonheid (Bellezza) secondo lungometraggio del sudafricano Olivier Hermanus, suo primo lavoro lungo su pellicola. E’ il ritratto di un maturo omosessuale che nasconde in ogni modo le sue preferenze sessuali sino a vederle esplodere quando stupra un prestante nipote, poco più che ventenne. Il regista descrive questa vergogna segreta e la collega all’insuperata divisione fra bianchi e neri nelle passate generazioni, un percorso che salda moralismo e tendenze razziste. Peccato che lo stile sia piuttosto greve, con molte cadute televisive come l’insopportabile abbondanza di primi e primissimi pani del volto di Deon Lotz, un attore non troppo dotato d’espressività. In altre parole è un film più importante per il valore sociale e politico che lo percorre e per i temi che affronta, che non per il modo come le racconta.

 

 


Lars von Trier è un regista notevolmente eccentrico, per anni ha teorizzato un nuovo tipo di cinema, il manifesto di Dogma di cui è stato il maggior promotore è del 1995, poi se n’è progressivamente allontanato cercando scampo in un tipo di film sempre più astratto e violento. Dopo Antichrist (Anticristo, 2009) è ora la vota di Melancholia (Malinconia), un film pieno di musica reboante, effetti speciali e scene melodrammatiche, il tutto in netto contrasto con quanto teorizzato sedici anni or sono. Un pianeta misterioso, celato dietro il sole, muta orbita ed entra in collisione con la terra, distruggendola. Il tutto è visto da due sorelle, una delle quali fresca sposa e veggente, che vivono in un lussuoso castello circondato da un grande campo da golf. Sono due storie nettamente separate, la prima ruota attorno alla festa di nozze, con la sposa sempre più in crisi che finisce col separarsi dal marito poche ore dopo averlo sposato, quando le celebrazioni non sono ancora concluse. La seconda, ambientata qualche tempo, dopo ha al centro la sorella, moglie del proprietario del maniero. I due accolgono la fresca sposa piombata in una crisi depressiva profonda e scoprono che il malessere di cui è afflitta deriva dal sapere, contrariamente a quanto assicurato da astronomi e studiosi, che la fine del mondo avverrà da lì a poche ore. La presentazione del dramma è fatta con molte immagini elaborate al computer, raffinate e inquietanti, mentre quelle del pianeta in arrivo sono tratte, con tutta probabilità, da materiale di repertorio. Alla conferenza stampa il regista ha detto di aver fatto anche questo film, come il precedente, con la speranza di uscire dal profondo stato di depressione in cui è piombato da qualche tempo. Inoltre si è riconfermato abile provocatore, anche a rischio di compiere un atto criminale, affermando di capire Adolf Hitler. Se si lasciano correre queste cortine fumogene di dubbio gusto, rimane un film presuntuoso, ottimamente interpretato ma banale nell’assunto e pesante nella narrazione. Se la nostra personale simpatia per quest’autore era scesa di molto negli ultimi tempi, questa volta è sparita del tutto.

L’altro film in concorso era Ichimei (Harakiri: morte di un samurai) di Takashi Mike, prolifico cineasta giapponese. Il film è stato girato in 3D ed è il classico melodramma in costume. Siamo agli inizi del diciassettesimo secolo quando la sconfitta di alcuni clan ha portato il paese a uno stato di relativa pace. I samurai, guerrieri combattenti per un qualche signore, sono diventati ronin, hanno perso onori e salari e stentano a mettere assieme il pranzo con la cena. Alcuni hanno inventato un modo per raccogliere un po’ di soldi: si presentano a qualche potente, chiedono la sua autorizzazione a suicidarsi in modo rituale (harakiri) nel suo fortilizio. Molti signori s’impietosiscono e tirano fuori un po’ di soldi. Uno di questi poveracci è Montome che deve trovare alcune monete indispensabili a far curare la moglie ammalata di tisi. Tuttavia, mal gliene incoglie perché il signore cui si rivolge è consigliato di dare una lezione ai postulanti costringendo il ronin a uccidersi veramente e, poiché questo ha venduto anche la lama della spada, è costretto a farlo con un pugnale di bambù. Il film ripercorre all’indietro la storia di questo disgraziato attraverso la vicenda di suo suocero che, dopo la morte della figlia e del nipotino, sceglie coscientemente la medesima strada, si presenta con una spada di legno, ma, quando è il momento, la sfodera contro i numerosi samurai del signore, ne mutila un bel po’ prima di cadere sotto i loro colpi. Come già notato, siamo in pieno melodramma e il dato più interessante è nella descrizione della decadenza economica di questi guerrieri che, purtuttavia, conservano una ferrea dignità militaresca. Il film propone temi già visti cui la meraviglia dette tre dimensioni, accompagnata dal fastidio di vedere il film con i soliti occhiali polarizzati, non aggiunge nulla.

La sezione Un Certain Regard ha presentato un interessante film rumeno. Loverboy di Catalin Mitulescu affronta il tema dei giovani delinquenti che seducono ragazze ingenue per poi passarle ai complici che le mandano a fare le prostitute in vari paesi europei. Luca è uno di questi, prima aggancia e vende una giovane che poi sarà uccisa essendosi rifiutata di ritornare a battere dopo una drammatica esperienza in Italia, poi avvia sulla stessa strada la bella Veli di cui s’innamora dopo averla deflorata. Tuttavia gli affari sono affari e, anche se la ama, la spinge sulla stessa china. E’ un film molto bello, crudo nella descrizione di una gioventù che tiene al denaro più che a qualsiasi altra cosa, anche perché vive in condizioni poco più che miserabili. Il tono della narrazione è realistico, l’ambientazione precisa e terribile. Ne risulta un quadro di grande drammaticità e d’intensa emozione. Un’opera che conferma, ancora una volta, le grandi doti di questa cinematografia.

Entusiasmo assai minore ha suscitato Oslo, August 31st (Oslo, 31 agosto) del norvegese Joachim Trier. E’ la cronaca delle ultime ore di vita di Anders, un ex – drogato che sta per completare un periodo di disintossicazione. S’inizia con un tentativo di suicidio mediante annegamento, e si termina con un suicidio riuscito, attraverso un’overdose d’eroina. In mezzo una giornata passata dal giovane fra la vana ricerca di un lavoro – appena confessa di essere un ex tossicodipendente, gli atteggiamenti dei suoi interlocutori diventano subito cauti – o la semplice ripresa di qualche rapporto umano, qui è lui a non cogliere le possibilità che gli si offrono. Il film ha lentezza e ripetitività sgradevoli e non tenta neppure marginalmente di dare una dimensione più ampia alla storia che racconta.


Pedro Almodóvar ha tratto liberamente La pelle che abito (La piel que habito) dal romanzo Mygale (Tarantola, 1984) dello scrittore francese Thierry Jonquete (1954 - 2009) e l’ha fatto sfruttandone e forzandone gli elementi melodrammatici. La cosa non sorprende quando si tenga conto sia delle caratteristiche tipiche di quest’autore, sia del fatto che l’opera di partenza appartiene a quella Série noire che ospita testi destinati a diventare libri di culto, un po’ com’è accaduto ai nostri Gialli Mondadori. Come si richiede a qualsiasi proposta a forte tendenza melò il racconto è notevolmente ingarbugliato e denso di colpi di scena. Mettendo questa trama in una prospettiva lineare ed eliminando i numerosi salti temporali proposti dal regista, possiamo dire che si tratta della drammatica avventura di un importante chirurgo estetico che, dopo il grave incidente d’auto che ha visto bruciare viva la moglie – che lo tradiva con un suo fratellastro – sequestra il giovinastro che ha violentato sua figlia, peraltro affetta da pesanti turbe psichiche, e lo trasforma in donna. Di lui finisce coll’innamorarsi, dopo averlo/a sottoposto/a alla sperimentazione una nuova pelle, resistentissima, che ha scoperto in segreto. Il finale sarà tragico, con la nuova creatura che uccide il suo creatore e ammazza anche la governate di casa che, in realtà, è la madre del medico. La storia è complessa e piena di svolte improvvise, totalmente improbabile. Sono proprio queste caratteristiche che, una volta filtrate dallo sguardo e dalla lucidità narrativa del cineasta, rimpolpano il fascino del film e ne fanno un’opera intensa che affascina e fa dimenticare le improbabilità di cui si nutre. Un po’ come nell’opera lirica, in cui tutti accettano che si sussurrino frasi d’amore cantandole a squarciagola, anche in questo caso è la convenzione a farla da padrona e la magia del regista a rendere incredibilmente vero anche ciò che non è tale. Affrontato da questa prospettiva, il film diventa uno dei punti più alti nella filmografia del regista spagnolo. E’ un testo che affascina e cattura anche i meno disposti a farsi ammaliare dal piacere del racconto, indipendentemente dal tasso di realismo che lo percorre.

Il regista danese Nicolas Winding Refn potrebbe essere definito una sorta di emulo di Quentin Tarantino. I sette film che ha diretto sino ad ora, in patria e negli Stati Uniti, si segnalano per un sovraccarico di violenza, sangue e ammazzamenti vari. Così è anche per Drive (Guidare), secondo film in competizione della giornata, basato su un romanzo omonimo di James Sallis (1944), pubblicato nel 2005. E’ la storia di un abile conduttore d’auto che campa facendo il cascatore, lavorando in un garage e dando saltuariamente una mano a qualche banda di rapinatori. Un giorno incontra, per caso, una giovane madre il cui marito è in prigione. La aiuta, se ne innamora e quando il recluso esce da una mano anche a lui per smarcarsi da un guaio in cui si è cacciato mentre era dentro. Purtroppo le cose vanno storte, il colpo progettato si rivela ben diverso da com’era stato presentato e incominciano a scapparci i cadaveri e i getti di sangue. Alla fine della vicenda se ne conteranno poco meno di una decina, lui compreso. Indubbiamente il racconto è teso e ben costruito, ma riesce difficile capire che cosa c’entri un prodotto nettamente commerciale e di genere come questo con la selezione di un importante festival di cinema. Salvo che non si sia deciso di offrire una possibilità di successo anche a una produzione non santificata dal marchio di qualche major. Se così fosse, ci troveremmo davanti a una scelta molto modesta oltre che discutibile.

Da qualche tempo il cinema francese sembra aver riscoperto il gusto per i racconti sul potere politico. Tale è L’Excercice de L’Etat (L’esercizio dello Stato) di Pierre Schoeller, visto nella sezione Un Certain Regard. Il film ruota attorno alla figura di un ministro di secondo livello, quello dei trasporti, che si vede costretto a scegliere fa l’impegno che ha preso a salvaguardare e il farsi complice di una complessa manovra ordita dal potere politico in combutta con quello economico. Un losco affare che ruota attorno alla privatizzazione delle grandi stazioni ferroviarie. Resisterà un po’, ma quando il capo del governo gli farà capire che potrebbe ottenere un dicastero più importante, si piegherà. Anzi, accetterà con gioia di diventare ministro degli affari sociali con il compito di sedare in qualche modo il malcontento suscitato dalle sue stesse decisioni. Il film non è del tutto chiaro per uno spettatore non esperto di maneggi della politica francese, ma ha una sua compattezza narrativa, pochi elementi sicuramente negativi - fra questi le immagini grandguignolesche dell’incidente d’auto di cui è vittima il politico - e una solidità complessiva che lo candidano a testo di accesa discussione.

Sicuramente difficile, invece, trovare motivi d’interesse in The Day He Arrives (Il giorno che è arrivato) del sudcoreano Hong Sangsoo. Girato in bianco e nero leggermente virato, ci parla di un regista, da qualche tempo ritiratosi in provincia, che ritorna a Seoul per incontrare un amico. Poiché questi non ha tempo per lui, va a trovare un’ex fidanzata, sbevazza con alcuni giovani e una ragazza conosciuti occasionalmente occasionali, seduce la proprietaria di un bar e, poi, se ne torna a casa.  Forse eravamo distratti, ma a noi è parso un’inutile giochino intellettuale, passabilmente noioso e non degno di molta attenzione.


This Must Be The Place (Il posto deve essere questo), è il titolo di una canzone dei Talking Heads ed è anche quello dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, interpretato in modo splendido da Sean Penn in abbigliamento dark – femminile L'attore crea il personaggio di Cheyenne, una figura dichiaratamente ispirata al leader dei Cure Robert Smith. E’ un’opera originale e apprezzabile, di produzione irlando - statunitense. Interessante soprattutto per il personaggio che mette al centro – un ex- star della musica rock ritiratosi in una splendida dimora di campagna - e per la trama che somma ricerca del padre a caccia ai criminali nazisti ancora in fuga. Ultima nota importante è lo sguardo che rivolge all’America profonda. Il cantante rock, giunto alla cinquantina, riceve la notizia della morte del genitore con cui non parla da trent'anni. Parte per New York – in nave, poiché non prende mai gli aerei – assiste ai funerali e scopre che il defunto aveva dato la caccia per tutta la vita all’aguzzino che lo aveva angariato durante la prigionia nel campo di sterminio di Auschwitz. Si tratta di un pesce piccolo, come gli dice un famoso cacciatore di criminali nazisti, ma per lui trovarlo diventa una ragione di vita e di riconciliazione postuma con il genitore. Inizia in questo modo un viaggio nel profondo degli Stati Uniti, con incontri originali, paesaggi piatti e solitari, pranzi sconsolati in tavole calde derute, soggiorni in motel pulciosi. E’ un modo di riunirsi sia alla memoria sia all’esistenza di un padre di cui scopre non sapere quasi niente. Alla fine, anche grazie al cacciatore professionale di criminali, il fuggiasco novantenne è scovato in un paesaggio innevato dell’Utah, ma la vendetta sarà solo quella di farlo marciare nudo nella neve, così come lui era solito fare con i prigionieri del campo di sterminio. A questo punto il viaggio è compiuto e il cantante, riacquistato l’aspetto normale, può ritornare a casa. Il film è originale, un po’ come lo sono almeno tre - L’uomo in più (1999), Le conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006) – dei cinque che compongono la filmografia di questo regista, mentre il quinto, Il divo (2008), rientra più nel cinema politico. E’ anche un’opera magnificamente girata e interpretata in modo sublime. Certo, i temi affrontati – la ricerca del padre, la conservazione della memoria, il valore effimero della fama conquistata in certe forme d’arte - non sono nuovi, ma è la maniera con cui la regia li riunisce e presenta a dare spessore all’opera e a trasformarla in proposta nuova e straordinaria.

Gli ultimi due titoli messi in campo da Un Certain Regard non hanno aggiunto nulla al livello medio della competizione, anzi! Okhotnik (Il Cacciatore) del russo Bakur Bakuradze racconta le monotone giornate di un fattore che allieva maiali per venderli ai macellai e al vicino campo di lavoro forzato. I giorni scorrono uguali e monotoni – come il film – sino a che un pizzico d’interesse nasce dall’arrivo di due detenute cui è consentito lavorare fuori dal carcere. Lentamente le relazioni del piccolo nucleo familiare cambiano o iniziano a mutare. Il film si muove sulla strada di quel cinema della verità che in Italia ha momenti di punta illustri in Ermanno Olmi e Franco Piavoli, anche se, in questo caso mancano sia la poesia dello sguardo sia il giudizio nella costruzione narrativa. E' un film modesto in tutti i sensi.

The murderer – The Yellow Sea (L’assassino – Mar Giallo) porta la firma del sudcoreano Na Hong-Jin ed è una di quelle produzioni di genere che tanto piacciono ai selezionatori di questo festival, ma che annoiano gran parte della critica. Siamo alla frontiera fra Russia, Cina e Corea del Nord, un tassista oberato di debiti e intristito dall’abbandono della moglie, andata al Sud per lavorare e non ha dato più notizie, accetta di entrare clandestinamente nella Corea del Sud con l’incarico di uccidere un boss del crimine. Dopo molte difficoltà riesce nell’intento, ma la cosa scatena una durissima lotta fra le bande locali, con massacri a ripetizione, sangue a fiotti e uccisioni a colpo d’accetta e coltello. Un film che vorrebbe essere scioccante e riesce solo a essere ripetitivo e noioso.

 


Capita spesso che le opere più importanti fra quelle esibite da un festival arrivino sugli schermi nelle ultime ore della manifestazione. E’ successo quest’anno anche a Cannes con Bir Zamanlar Anadolu’da (C’era una volta l’Anatolia) del regista turco Nuri Bilge Ceylan. Questi ha all’attivo sei lungometraggi che hanno ricevuto premi nei maggiori festival internazionali ed è una delle figure più importanti del cinema contemporaneo, oltre a essere il personaggio principale di quello che è stato definito il nuovo cinema turco. Il suo stile si basa su immagini davvero straordinarie – all’origine era un fotografo di fama internazionale – un ritmo del racconto disteso che sviluppa storie apparentemente semplici, in realtà molto complesse e dense di significati cogliibili in seconda lettura. Non gli manca un pizzico ironia e un florilegio di citazioni cinefile coltissime. Iniziano da quest’ultimo punto. Sin dal titolo questo suo ultimo film rimanda a un classico di Sergio Leone – C’era una volta in America (1984) – facendo riferimento allo spirito profondo del regista italiano che, dilatando i tempi della narrazione, intendeva anche imporre allo spettatore uno spazio di riflessione che, apparentemente, era in piena contraddizione con la velocità dei generi cui si applicava. Altre citazioni nascono dalla storia stessa raccontata, una vicenda che fa riferimento al primo lungometraggio firmato da un altro maestro del cinema contemporaneo: il greco Theo Angelopoulos. Il ricordo va a Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970) in cui un sopraluogo giudiziario, organizzato per chiarire cause e modi dell’uccisione del marito da parte della moglie, diventa lo specchio dei rapporti sociali e umani in un’intera società, degradata dalla miseria e dall’ossessione verso valori arcaici. Anche l’opera di cui stiamo parlando muove le prime sequenze dalla ricerca del cadavere di un assassinato, caccia in cui il presunto colpevole indica, o finge di indicare, luoghi sempre diversi. E’ questa la prima parte del film e dura oltre un’ora sulle due e venticinque in cui si articola la storia. Dopo una serie di soste, una cena notturna e qualche schiaffo dato all’arrestato da un ufficiale di polizia, ma prontamente bloccato dal procuratore venuto dalla capitale per seguire l’inchiesta, il cadavere è trovato, dissotterrato – ha mani e piedi legati alla maniera degli incaprettamenti mafiosi - e trasportato nel paese più vicino dove, in un improvvisato obitorio, si svolge una sommaria autopsia. Con molte reticenze riusciamo a capire che si è trattato di un delitto d'amore – un amante ha ammazzato il marito della donna con cui aveva una relazione  – ma questo non è il solo dato importante. Il viaggio e la vicinanza hanno portato anche guardie, magistrato e dottore a capire qualche cosa di loro e del mondo che lo circonda. Il magistrato scoprirà che la moglie, che ha sempre creduto morta per cause naturali, in realtà si è suicidata. Il medico sarà toccato dalla violenza primordiale del dramma e tacerà, nell’autopsia, alcuni particolari che avrebbero aggravato la posizione dell’omicida. Gli stessi poliziotti avranno mostrato come ciascuno sia diverso dai colleghi, abbia atteggiamenti opposti nei confronti del proprio lavoro. C’è chi pensa solo a trarre minimi vantaggi da qualsiasi occasione e chi si indigna ancora davanti alla brutalità della natura umana, anche se non esita a usare la violenza. La regia ci fa scoprire tutto questo disseminando la storia di indizi senza mai cercare d’indottrinarci e spiegarci o banalizzare ogni passaggio. E’ un testo magnifico, ricco di spruzzate di mesta ironia e di costruito con una densità estrema, davvero un grandissimo film.

Altrettanto non può dirsi del franco – rumeno Radu Mihaileanu che tenta, con La surce des femmes (La sorgente delle donne), di recuperare il positivo melange di comicità e tragedia che segnano sia Train de vie - Un treno per vivere (Train de Vie, 1997) sia Il concerto (Concert, 2008). Ci riesce assai poco con questa storia alla Lisistrata (411 a.C.) di Aristofane (450 a.C. circa – 388 a.C. circa) in cui, in un paese dell’Africa settentrionale, un gruppo di donne arabe organizza uno sciopero del sesso per costringere gli uomini a costruire una deviazione che trasporti nel villaggio l’acqua che sono costrette ad andare a prendere ogni giorno da una lontana fonte. La lotta, che si trasforma ben presto in una rivendicazione di diritti e rispetto, avrà esito positivo, anche se costerà botte, ingiurie e incomprensioni coniugali. Il film è stiracchiato, prevedibile, banale, pieno di incongruenze – il villaggio non ha acqua, ma accanto alle porte ci sono i campanelli elettrici – in poche parole un film che non si comprende per quale ragione sia finito nella competizione principale.

Poca gloria anche per il titolo che ha chiuso la manifestazione. Les bien-aimès (I beneamati) del francese Christophe Honoré è un semi – musical con non moltissime canzoni che racconta l’amore di una donna per due uomini e di sua figlia che ne segue la strada. Catherine Deneuve e Chiara Mastroianni, madre e figlia, interpretano i due ruoli, senza troppa convinzione e, soprattutto senza grandi doti sonore. Alla resa dei conti è un piccolo film assunto a quel posto importante nel programma più in virtù della nazionalità che per meriti di regia.


I premi

Palma d´Oro
Tree of Life  di Terrence Malick
Gran Premio (ex aequo)
Le Gamin au vélo di  Jean-Pierre e Luc Dardenne
Once Upon a Time in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan
Miglior Interpretazione Femminile
Kristen Dunst attrice in Melancholia di Lars Von Trier
Miglior Interpretazione Maschile
Jean Dujardin interprete di The Artist di Michael Kazanavicius
Miglior Regia
Drive di Nicolas Winding Refn
Migliore Sceneggiatura
Footnote di Joseph Cedar
Premio della Giuria
Polisse di Maïwenn

Premio della Caméra d´Or


Las Acacias di Pablo Giorgelli

Cortometraggi

Palma d’Oro

CROSS (Cross-Country) di Maryna VRODA

Premio della Giuria

BADPAKJE 46 (Costume da bagno taglia 46) di Wannes DESTOOP

Un Certain Regards

Premio Un Certain Regard ex-æquo

ARIRANG di KIM Ki-duk

HALT AUF FREIER STRECKE (Fermata in pieno percorso) di Andreas DRESEN

Premio speciale della giuria

ELENA d’Andrey ZVYAGINTSEV

Premio della sceneggiatura

BÉ OMID É DIDAR (Arrivederci) di Mohammad RASOULOF

Premio Camera d’Or (Camera d’oro per la migliore opera prima)

LAS ACACIAS (Le acacie) di Pablo GIORGELLI

Cinefondazione

Primo premio

DER BRIEF (La lettera) di Doroteya DROUMEVA

Secondo premio

DRARI di Kamal LAZRAQ

Terzo premio

YA-GAN-BI-HANG (Volare di notte) di Son Tae-gyum.