Festival di Cannes 2011 - Pagina 6

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Festival di Cannes 2011
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Il programma del Festival ci ha regalato un piccolo, prezioso gioiello: The Artist (L’artista) del regista francese Micherl Hazanavicius. La storia che racconta non è affatto nuova e parla di quella fase, convulsa e drammatica, che ha segnato sia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro (1927 uscita di The Jazz Singer – Il cantante di Jazz – di Alan Crosland), sia il dramma della grande crisi che ha travolto l’economia mondiale fra il 1929 e il 1933. Il primo scenario è affrontato con alcune trovate davvero notevoli. Citiamone una: il passaggio al cinema sonoro segnalato con gli oggetti che, cadendo o spostandosi, fanno rumore, mentre gli esseri umani, in particolare il protagonista, continuano a rimanere afoni. Il film racconta, praticamente senza dialoghi, l’amore fra un divo del muto e una giovane star del sonoro che lui stesso aveva avviato al cinema. I due hanno rapporti molto difficili, con lei che non smette di aiutarlo anche quando lui rifiuta ogni sostegno. Il finale è all’insegna del più classico happy end, con il ritorno al successo di entrambi come coppia di ballerini. E’ un’opera molto simpatica, leggera, intelligente nella costruzione e di ottimo livello nella confezione e nello sviluppo, per quanto più che prevedibile, del racconto.

Ottima proposta anche quella di Michael, che segna l’esordio nel lungometraggio dell’austriaco Markus Schleinzer. Qui siamo nei paraggi del cinema del grande Michael Haneke, autore che ha vinto la Palma d’Oro con Il nastro bianco (Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte, 2009), vale a dire opere intrise di una fortissima violenza espressa ma costruite senza quasi mostrare una goccia di sangue, ma creando atmosfere che pesano sullo spettatore in maniera quasi intollerabile. In questo caso è il racconto degli ultimi cinque mesi di vita di Michael, pedofilo trentacinquenne, e di Wolfgang, il ragazzino di dieci hanno che lui ha rapito, sequestrato e di cui abusa a capriccio. Anche in questo caso la tensione è tutta intrecciata al racconto, non certo espressa con immagini sanguinolente. Vi si potrebbe vedere una citazione sia dalla statistica che segnala come siano ben un migliaio i bambini che scompaiono ogni anno in Germania, sia dall’atroce dramma della cittadina austriaca di Amstetten, ove il sessantatreenne Josef Fritzl ha tenuto prigioniera per ben ventiquattro anni la figlia Elisabeth e tre dei sette figli che la donna ha avuto da lui. Tuttavia l’intento del regista va oltre la semplice ricostruzione cronachistica per indagare i rapporti fra carceriere e recluso, aguzzino e vittima. Come già segnalato il film ha un taglio lineare, sfugge dalla spiegazioni psicologiche a buon mercato, come dalle facili invettive. Racconta una storia terribile senza premere l’acceleratore sui facili  effetti grandguignoleschi, ma badando a far emergere l’orrore dalla fotografia della normalità piccolo borghese. In questo modo licenzia un quadro particolarmente inquietante, proprio perché racconta l’insopportabile attraverso immagini del tutto neutre.

E' un pessimo ricordo, invece, quello lasciato da L’Apollonide – Souvenirs de la Maison Close (L’Apollonide – Ricordi della casa chiusa) proposto dal francese Bertrand Bonello. Ambientato fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, il film è quasi interamente girato, fa eccezione la sequenza finale ambientata ai giorni nostri in una strada frequentata da prostitute, in una lussuosa casa di tolleranza. Qui le varie prostitute raccontano i loro triboli e le, loro speranze, mentre la padrona tenta vanamente si sopravvivere agli aumenti d’affitto imposti dal notaio che possiede l’intero immobile. Dire che siamo alla presenza di un film sconclusionato è dire poco. A parte le numerose incongruenze storiche, a iniziare dalla colonna sonora infarcita di canzoni anni sessanta, che il regista giustifica affermando di aver voluto legare l’ieri all’oggi, il film oscilla fra situazioni banali e brani apertamente voyeuristici o grossolanamente grandguignoleschi. In poche parole il primo titolo di quest’anno di cui non si giustifica la presenza in concorso.

Nella sezione Un Certain Regard è stato presentato un film che si muove in direzione diametralmente opposta. Halt Auf Freier Strecke (Fermata in pieno percorso) del tedesco Andreas Dresen è la cronaca, minuziosa e impietosa, dell’agonia di un giovane marito a cui è stato diagnosticato un tumore inoperabile al cervello che gli riserva solo pochi mesi di vita. Ne emergono la progressiva perdita delle funzioni basilari – camminare, ricordare, parlare – la fatica immensa dei parenti, la moglie in particolare, per affrontare la situazione e rendergli almeno sopportabili gli ultimi momenti, ma anche la rabbia, i conflitti, la sopportazione che si usura giorno dopo giorno. E’ un film sgradevole, nel senso che costringe a guardare in faccia la morte e a considerare la possibilità che anche a noi tocchi un simile, orrido destino. Non è certo un film da consigliare a spettatori particolarmente sensibili o a quanti chiedono allo spettacolo cinematografico intrattenimento o emozioni a lieto fine. E’ un film che sconvolge nel profondo, tanto da far sorgere persino il dubbio di un minimo compiacimento nel gettare in faccia tanto dolore, ma è anche una proposta d’alto livello per quanto riguarda la costruzione del discorso e la rappresentazione del percorso verso la morte.