Festival di Cannes 2011 - Pagina 9

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Festival di Cannes 2011
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Lars von Trier è un regista notevolmente eccentrico, per anni ha teorizzato un nuovo tipo di cinema, il manifesto di Dogma di cui è stato il maggior promotore è del 1995, poi se n’è progressivamente allontanato cercando scampo in un tipo di film sempre più astratto e violento. Dopo Antichrist (Anticristo, 2009) è ora la vota di Melancholia (Malinconia), un film pieno di musica reboante, effetti speciali e scene melodrammatiche, il tutto in netto contrasto con quanto teorizzato sedici anni or sono. Un pianeta misterioso, celato dietro il sole, muta orbita ed entra in collisione con la terra, distruggendola. Il tutto è visto da due sorelle, una delle quali fresca sposa e veggente, che vivono in un lussuoso castello circondato da un grande campo da golf. Sono due storie nettamente separate, la prima ruota attorno alla festa di nozze, con la sposa sempre più in crisi che finisce col separarsi dal marito poche ore dopo averlo sposato, quando le celebrazioni non sono ancora concluse. La seconda, ambientata qualche tempo, dopo ha al centro la sorella, moglie del proprietario del maniero. I due accolgono la fresca sposa piombata in una crisi depressiva profonda e scoprono che il malessere di cui è afflitta deriva dal sapere, contrariamente a quanto assicurato da astronomi e studiosi, che la fine del mondo avverrà da lì a poche ore. La presentazione del dramma è fatta con molte immagini elaborate al computer, raffinate e inquietanti, mentre quelle del pianeta in arrivo sono tratte, con tutta probabilità, da materiale di repertorio. Alla conferenza stampa il regista ha detto di aver fatto anche questo film, come il precedente, con la speranza di uscire dal profondo stato di depressione in cui è piombato da qualche tempo. Inoltre si è riconfermato abile provocatore, anche a rischio di compiere un atto criminale, affermando di capire Adolf Hitler. Se si lasciano correre queste cortine fumogene di dubbio gusto, rimane un film presuntuoso, ottimamente interpretato ma banale nell’assunto e pesante nella narrazione. Se la nostra personale simpatia per quest’autore era scesa di molto negli ultimi tempi, questa volta è sparita del tutto.

L’altro film in concorso era Ichimei (Harakiri: morte di un samurai) di Takashi Mike, prolifico cineasta giapponese. Il film è stato girato in 3D ed è il classico melodramma in costume. Siamo agli inizi del diciassettesimo secolo quando la sconfitta di alcuni clan ha portato il paese a uno stato di relativa pace. I samurai, guerrieri combattenti per un qualche signore, sono diventati ronin, hanno perso onori e salari e stentano a mettere assieme il pranzo con la cena. Alcuni hanno inventato un modo per raccogliere un po’ di soldi: si presentano a qualche potente, chiedono la sua autorizzazione a suicidarsi in modo rituale (harakiri) nel suo fortilizio. Molti signori s’impietosiscono e tirano fuori un po’ di soldi. Uno di questi poveracci è Montome che deve trovare alcune monete indispensabili a far curare la moglie ammalata di tisi. Tuttavia, mal gliene incoglie perché il signore cui si rivolge è consigliato di dare una lezione ai postulanti costringendo il ronin a uccidersi veramente e, poiché questo ha venduto anche la lama della spada, è costretto a farlo con un pugnale di bambù. Il film ripercorre all’indietro la storia di questo disgraziato attraverso la vicenda di suo suocero che, dopo la morte della figlia e del nipotino, sceglie coscientemente la medesima strada, si presenta con una spada di legno, ma, quando è il momento, la sfodera contro i numerosi samurai del signore, ne mutila un bel po’ prima di cadere sotto i loro colpi. Come già notato, siamo in pieno melodramma e il dato più interessante è nella descrizione della decadenza economica di questi guerrieri che, purtuttavia, conservano una ferrea dignità militaresca. Il film propone temi già visti cui la meraviglia dette tre dimensioni, accompagnata dal fastidio di vedere il film con i soliti occhiali polarizzati, non aggiunge nulla.

La sezione Un Certain Regard ha presentato un interessante film rumeno. Loverboy di Catalin Mitulescu affronta il tema dei giovani delinquenti che seducono ragazze ingenue per poi passarle ai complici che le mandano a fare le prostitute in vari paesi europei. Luca è uno di questi, prima aggancia e vende una giovane che poi sarà uccisa essendosi rifiutata di ritornare a battere dopo una drammatica esperienza in Italia, poi avvia sulla stessa strada la bella Veli di cui s’innamora dopo averla deflorata. Tuttavia gli affari sono affari e, anche se la ama, la spinge sulla stessa china. E’ un film molto bello, crudo nella descrizione di una gioventù che tiene al denaro più che a qualsiasi altra cosa, anche perché vive in condizioni poco più che miserabili. Il tono della narrazione è realistico, l’ambientazione precisa e terribile. Ne risulta un quadro di grande drammaticità e d’intensa emozione. Un’opera che conferma, ancora una volta, le grandi doti di questa cinematografia.

Entusiasmo assai minore ha suscitato Oslo, August 31st (Oslo, 31 agosto) del norvegese Joachim Trier. E’ la cronaca delle ultime ore di vita di Anders, un ex – drogato che sta per completare un periodo di disintossicazione. S’inizia con un tentativo di suicidio mediante annegamento, e si termina con un suicidio riuscito, attraverso un’overdose d’eroina. In mezzo una giornata passata dal giovane fra la vana ricerca di un lavoro – appena confessa di essere un ex tossicodipendente, gli atteggiamenti dei suoi interlocutori diventano subito cauti – o la semplice ripresa di qualche rapporto umano, qui è lui a non cogliere le possibilità che gli si offrono. Il film ha lentezza e ripetitività sgradevoli e non tenta neppure marginalmente di dare una dimensione più ampia alla storia che racconta.