Festival di Karlovy Vary 2006 - Gli altri film

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Festival di Karlovy Vary 2006
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Gli altri film
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La manifestazione è stata aperta, fuori concorso, da Shi Gan (Tempo) del coreano Kim Ki-duk in cui il regista prosegue il discorso sull’ossessione dell’amore e sulle insidie del tempo, temi affrontati sin dal lontano Seom (L’isola, 2000). Al centro di questo nuovo film c’è una giovane coppia, in cui la donna è progressivamente posseduta dalla paura di ciò che succederà al loro amore, quando invecchieranno. Convinta che l’amante si stancherà di vedere sempre la stessa faccia, decide di sottoporti ad un intervento radicale di chirurgia estetica per diventare un’altra donna. Dopo aver cambiato lineamenti scompare. L’uomo la cerca disperatamente, incontra altre donne, ma nessuna lo accontenta, finché ne conosce una che gli sfugge. Allora è lui a farsi cambiare i lineamenti per conquistarla, solo che la concupita è proprio l’ex – amante. Ora è l’uomo a celarsi e la donna a cercarlo e a rifiutare di riconoscerlo anche quando lo incontra nuovamente. Il film è molto bello, raffinato nella costruzione, preciso nello stile e costituisce un piccolo gioiello di riflessione sui tempi dell’amore e quelli fisici. E' una collana di preziose osservazioni che formano, complessivamente considerare, un vero e proprio trattato fine e intelligente.
Qualche riga sugli altri titoli in concorso. Love Talk (Chiacchiere d’amore) di Lee Yoon-ki si muove all’interno della comunità coreana che vive in California e racconta una serie di storie che confluiscono in un finale comune. C’è la donna che si è sistemata con un istituto di massaggi, che è altro che un postribolo soft, c’è il giovane innamorato di una ragazza con madre a carico, il bellimbusto, l’ex-marito manesco e via elencando. E' un ritratto, a più tessere, che non esce dalla norma del genere e che dice poco su questa comunità. Lo stile è quello del film commerciale di qualità, gli interpreti sono di buon livello professionale, ma è un’opera tutt’altro che indimenticabile.
Mun mot mun (A bocca a bocca) dello svedese Björn Runge è un melodrammone che non risparmia i luoghi comuni del cinema corrente nordico. Ci sono donne sottomesse sino alla follia, mariti incestuosi, droga, violenza, tradimenti e relativi complessi di colpa. Niente sfugge a questo calderone di storie truculente il cui filo conduttore è costituito dagli sforzi di un buon padre, anche se un po' troppo autoritario, per strappare la figlia dalle grinfie di un prosseneta che la droga e la fa prostituire. Alla fine la famiglia si ricompone e tutto ritorna secondo i canoni della buona società ordinata.
Winterreise (Il viaggio d'inverno) dello svizzero Sebastian (Hans) Steinbichler ha lo stesso titolo di una composizione scritta da Franz Peter Schubert (1797-1828) nel 1827 e che è anche il tema musicale che forma una sorta d’ossatura del film. È il ritratto della follia distruttiva che porta un imprenditore, vittima di una truffa e sull’orlo del fallimento, ad andare in Kenya nel tentativo di recuperare il denaro perduto. Ci riesce, ma capisce che la sua vita, spesa male tradendo la vocazione per la musica, non ha più alcuno sbocco e si uccide. La storia abbonda d’ingenuità ad iniziare dal meccanismo del raggiro, notissimo a chiunque abbia un minimo contatto con internet, ma si emenda grazie all’interpretazione di Josef Bierbichler, a cui porge le battute una sbiadita Hanna Schygulla. Nella sostanza è il classico film per attore solista.
Shab Bekheier Farmandeh (Addio vita) d’Ensieh Shah-Hosseini è ambientato durante la guerra Iran – Iraq (1980 - 88). Qui una giovane reporter è mandata al fronte con i battaglioni votati al suicidio. Ha alle spalle un tentativo di togliersi la vita, dopo un matrimonio fallimentare. Il contatto con gli orrori del massacro la indurrà a cambiare parere e, prima, a tentare di salvarsi, poi, a morire al fianco dei suoi compatrioti dilaniati dalle armi dell’esercito di Saddam Hussein. È noto che il cinema iraniano sta attraversando una fase politicamente dura; quasi tutti i suoi migliori talenti hanno preso la strada dell’esilio, mentre quelli che sono rimasti sono costretti a tacere o a firmare opere dense di compromessi. Addio vita è una di queste. Si comprende abbastanza bene che l’intento della regista è di realizzare un film che denunci gli orrori della guerra, contrapposti alla sensibilità e all’umanità femminili. Il risultato, tuttavia, è talmente carico d’ossequi alla propaganda ufficiale da render il film quasi un’opera di regime. Lo stile è quello solitamente ingenuo dei migliori film iraniani, con i classici riferimenti al cinema neorealista e a quello democratico occidentale, ma ciò che manca è un’originalità di sguardo e una forza descrittiva che rendano reali quegli intenti che si intravedono dietro fotogrammi incapaci di esprimerli, ma solo di suggerirli.