Mostra del cinema di Venezia 2007 - 8° giorno

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Mercoledì 5 Settembre - Ottavo giorno
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Nella città di Sylvia
Ogni tanto capita che qualche regista vada alla ricerca dell’esaltazione delle immagini costruendo film quasi privi di dialoghi. E’ il caso dello spagnolo José Luis Guerin, autore di alcuni documentari di grande valore (Innisfree, 1990; En construcción, 2001), che ha realizzato En la ciudad de Sylvia (Nella città di Sylvia) basando la colonna sonora solo su rumori d’ambiente, mozziconi di conversazione, suoni vari. L’unico vero dialogo dura meno di un paio di minuti ed è composto di frasi brevissime. La storia, se così si può dire, è quella di un giovane artista (Scrittore? Pittore?) che gira per le vie e i locali di Bruxelles alla ricerca di una ragazza con la quale, sei anni prima, ha scambiato alcune parole in un bar. Nel farlo osserva e abbozza decine di volti femminili, segue una sconosciuta, che si rivelerà altra persona da quella cercata, scopre e ci fa scoprire angoli e prospettive inedite della città. Il film si presenta più come un esercizio di stile che non un’opera narrativamente compiuta, ma ha il pregio di mostrarci quanta forza hanno le immagini semplici e i suoni della vita quotidiana quando ci siano un occhio e un orecchio capaci di organizzarli e coglierli con creatività.
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Sukiyaki Western Django
E’ giusto il contrario di quanto accade al giapponese Miike Takeshi, autore di un demenziale Sukiyaki Western Django, un western in salsa nipponica che rende omaggio a quello spaghetti con una nuova versione di Yojimbo (La guardia del corpo, 1961) di Akira Kurosawa, il film da cui Sergio Leone trasse, in una versione inizialmente non accreditata, Per un pugno di dollari (1964). Il film è introdotto e concluso da due siparietti che hanno per protagonista Quentin Tarantino e naviga a mezza strada fra la citazione dotta, la parodia, la visualità esasperata dando vita ad un pastone, decisamente indigesto, pieno di sangue botti e mazzate varie. In poche parole il solo prodotto, fra quelli visti sino ad ora, di cui non si comprende la necessità e, per un certo verso, neppure la legittimità della collocazione nella sezione competitiva della Mostra.
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La maggior distanza possibile
L’oriente ha fatto capolino anche alla Settimana della Critica ove è stato presentato Zui Yaoyuan De Juli (La maggior distanza possibile), film d’esordio del taiwanese Lin Jingjie. Al centro dell’opera ci sono tre solitudini: due nascono dall’abbandono e una origina dall’impossibilità di proseguire nella falsità. Xiaogang è un tecnico del suono che non riesce a superare il trauma di essere stato lasciato della sua donna, all’improvviso e senza alcuna spiegazione. Frastornato e inebetito trascura il lavoro sino ad essere licenziato. Acai è uno psichiatra, con tendenze masochiste, reduce dal fallimento del suo matrimonio. Anche lui non riesce ad accettare l’abbandono della moglie, che ha un altro compagno. Xiaoyun è la giovane amante di un uomo sposato che la tratta alla stregua di un occasionale oggetto di piacere. Giunta al limite dalla sopportazione abbandona ogni cosa per mettersi alla ricerca dei rumori ambientali che il tecnico ha registrato in varie parti dell’isola e che manda al suo indirizzo credendo di spedirli alla sua ex – innamorata, la quale, nel frattempo, fa traslocato. Questi personaggi si sfiorano e incontrano, in un girotondo che, forse, aprirà qualche speranza per i due giovani, ma farà precipitare nella follia lo psichiatra. Siamo davanti ad un cinema che deve molto a Michelangelo Antonioni, rivisto attraverso il lavoro di un altro grande autore: Tsai Ming-liang (The Hole - Il buco, 1998; Vive l’amour, 1994). Solitudine e disperazione si incrociano in una struttura narrativa ricca di silenzi, piani sequenza e dolore muto. Un mondo in cui la vita è vissuta in termini minimi (i suoni ambientali, spesso portatori di suggestioni false, come nella sequenza del mercato ittico), mediati dalle macchine (le sole capaci, apparentemente, di fornire immagini oggettive) e priva di vie d’uscita che non siano la semplice attenuazione del dolore. Un universo in cui è messo in discussione l’ordine sociale stesso (“un poliziotto è un gangster con il distintivo”, dice uno dei personaggi). Un racconto in cui le canzoni hanno un ruolo narrativo importante quanto le immagini e ove i problemi sociali, come il rapporto con gli aborigeni, entrano quasi accidentalmente, anche se concorrono a formare un quadro complesso e ricco di elementi di riflessione. Un film che richiede attenzione e pazienza, ma che ripaga lo spettatore con notazioni importanti.