Mostra del cinema di Venezia 2007 - 6° giorno

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Lunedì 3 Settembre - Sesto giorno
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The Darjeeling Limited
Giornata contraddittoria questa sesta della Mostra del cinema. Due film in concorso hanno destato più perplessità che consenti, uno ha convinto maggiormente, ma non ha entusiasmato. Andiamo con ordine. The Darjeeling Limited, e il suo prologo Hotel Chevalier, dell’americano Wes Anderson si colloca a mezza strada tra i film dedicati ai rapporti familiari e la comicità alla Monty Python, debitamente depurata da umori escrementizi. La storia racconta di tre fratelli che intraprendono un viaggio in India per raggiungere la madre che si è ritirata in una sorta di monastero e ha rifiutato di partecipare ai funerali del marito. Un viaggio spirituale, come si sottolinea più volte, infarcito di blande stranezze, qualche battuta e tanta pubblicità della nuova linea di borse e accessori Louis Vuitton. Il bilancio è decisamente povero, non si ride quasi mai, si sorride raramente e ci si annoia abbastanza. Un discorso simile vale anche per Taiyang zhaochang shengqi (Il sole sorge ancora) dell’attore e regista cinese Jiang Wen che ha messo assieme quattro racconti tratti dal romanzo Velluto dello scrittore Ye Mi.
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Il sole sorge ancora
Saltando nel tempo e nella geografia si passa dall’immagine idilliaca e fantasiosa della Cina rurale, ove una madre magica tenta di insegnare al figlio la bellezza del mondo della fantasia, ad un ritratto, dai toni realistico – erotici, sull’ambiente intellettuale prima della Rivoluzione Culturale, al quadro della rieducazione in campagna imposta agli intellettuali durante il dominio delle Guardie Rosse, ad un tempo, fuori della storia in cui, nel deserto del Gobi, le strade finiscono sopra le vette dei monti e i bimbi, partoriti nella toilette di un treno, cadono in una culla di fiori in mezzo ai binari. Tanta carne al fuoco e un debito, da parte di chi scrive, di conoscenza culturale dei miti e degli snodi delle cultura cinese, fanno sì che il film si presenti più come un insieme di indizi patinati e ricchi di luce, piuttosto che un testo ben definito e facilmente penetrabile. Un giudizio sospeso che non nasconde una certa diffidenza nei confronti dell’intera operazione.
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La semola e il mulo
L’ultima opera in concorso vista in queste ore è stata La Graine e le Mulet (La semola e il mulo) del franco – tunisino Abdellatif Kechiche vincitore, nel 2000, del premio della Settimana della Critica con La Faute á Voltaire (Tutta colpa di Voltaire). Un anziano lavoratore d’origine magrebina perde il posto e tenta di continuare a dare un senso alla vita progettando d’aprire un ristorante su un battello in disarmo ancorato ad uno dei moli del porto di Sète. Operazione difficile, che termina con una sorta di festa di presentazione ai maggiorenti locali nel corso della quale lui muore e il progetto rischia di arrestarsi, forse definitivamente. Il film è costruito con lunghe sequenze girate come si trattasse di un documentario sulla vita dei vari personaggi, uno sguardo che non tralascia contraddizioni, problemi, meschinità e che trova uno sbocco positivo solo nella volontà dei giovani. Un film più generoso che stilisticamente compiuto, ma tutt’altro che spiacevole.
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I nove
La Settimana della Critica ha presentato The Nine (I nove) dell’americano John August, un film non facile, che gioca su molteplici fattori, in realtà non riuscendo a portarne a termine nessuno. Nei tre episodi che compongono il film, passiamo dalla satira intelligente (un attore agli arresti domiciliari per avere incendiato casa e causato un incidente d’auto in preda alla droga), al realismo nevrotico – psicologico (lo stesso attore, divenuto sceneggiatore e regista alle prese con una produttrice televisiva che dovrebbe sovrintendere a una serie da lui ideata), sino alla fantascienza surreale (lo stesso interprete nelle vesti di un tranquillo padre di famiglia in gita con moglie e figlia che s’imbatte in un essere venuto da un altro mondo e scopre la pluralità delle realtà in cui è possibile vivere). Diciamolo subito che non tutto è chiaro e che gli intenti non sono facilmente individuabili. L’impressione è che il regista si sia divertito a giocare con il tempo, lo spazio e la pazienza dello spettatore, mettendo assieme un po’ troppe cose senza legarle con un preciso filo logico. C’è molta abilità e altrettanta professionalità, ma poco rigore.