Mostra del cinema di Venezia 2007 - Io li ho visti così

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Mostra del cinema di Venezia 2007
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Io li ho visti così
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Io, i film della mostra li ho visti così
Sarà forse per via del giubileo o a seguito del cambio del governo, ma quest'anno a Venezia ci è sembrato che il cinema abbia accresciuto il livello di qualità. Più forte la tensione espressiva, più in evidenza la passione civile. Sia chiaro: la tradizione della Mostra è da sempre in questo solco. Tuttavia proprio quest'anno gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, hanno inviato opere di grande impegno civile e di rara potenza espressiva. Naturalmente ciò dipende dalla drammaticità degli eventi contemporanei, ma è merito della Mostra averne colto, con tempestività, i risultati. I due films americani, che più mi hanno colpito, si riferiscono alla guerra in Iraq: Redacted di Brian de Palma e La valle di Elah di Paul Haggis. Il primo narra di uno stupro, ad opera di soldati americani, di una ragazza quattordicenne, con successiva uccisione dell'intera famiglia e relativo incendio per cancellare ogni traccia. Il titolo - e il senso del film - si riferiscono ad un'informazione ripulita in redazione, affinché nessun elemento sensibile possa disturbare le versioni ed i silenzi dell'ufficialità. Nel caso concreto si trattava di ripulire gli aspetti orrendi di un'atrocità che aveva oltrepassato ogni confine umano. La metafora è evidente: noi tutti corriamo il rischio - e già siamo immersi - in una manipolazione delle notizie che non solo stravolge la verità ma largamente pregiudica la possibilità democratica di giudicare secondo decenza gli atti di coloro che governano e gli effetti che ne derivano. Il film possiede un nerbo di immagini forti e la maestria del regista introduce due elementi di grande efficacia: le sequenze non purgate di un soldato che mostrano quello che è realmente accaduto e un ritratto degli stupratori, con le loro agghiaccianti giustificazioni. Due elementi che mettono tutti noi di fronte allo sgomento per ciò che l'ignoranza e l'ottusità possono generare, soprattutto quando dispongono di un’enorme potenza tecnologica. L'insieme porta all'estremo quel gigantesco pathos dell'ambiguità con cui gli analisti più avveduti definiscono gli Stati Uniti: il Paese che contiene dentro di sé il massimo del sapere, della potenza militare e di predisposizione alla violenza. Queste, in ultima istanza, sono anche le basi della loro grandezza, infatti, siamo in presenza di una cultura che, nonostante tutto, è anche capace di correggersi e di produrre opere coraggiose come questa, senza remore e senza reticenze. Un testo, dunque, che sta in bilico fra la denuncia implacabile ed una ragionevole speranza che la correzione sia possibile.
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Nella valle di Elah
Non altrettanto si potrebbe dire del secondo film (La valle di Elah) che deve cercare solo nella Bibbia - l'impresa di Davide contro Golia - un presagio di speranza. Perchè per il resto la sua progressione narrativa è raggelante e scuote le fibre emotive dello spettatore. Anche qui il fulcro della rappresentazione è costituito da immagini dell'Iraq, altrettanto tragiche ma molto diverse. Perché, in questo caso, c'è l'uccisione involontaria di un bambino irakeno ad opera di un carro armato americano che però non dovrebbe fermarsi per soccorrerlo perchè fermandosi renderebbe possibile un attentato. Il soldato Mike si arresta lo stesso ed entra in conflitto con i suoi compagni. Situazioni come queste, accumulandosi, producono traumi irreversibili e gli uomini, per tentare di sorreggersi, ricorrono alle droghe ed all'alcool, in una spirale di abbrutimento che non ha fine. Questa è la chiave fondamentale, ma lo spettatore la ricostruisce solo lentamente e solo verso la fine. Perchè per lo spettatore il filo principale del racconto è costituito dall'indagine che il vecchio padre è costretto a compiere per capire cosa è successo a Mike, il figlio, che, rientrato in una base americana in Nuovo Messico per il suo primo fine settimana fuori dalla guerra, è misteriosamente scomparso. Dopo poco tempo se ne ritrova il cadavere, fatto a pezzi, fra gli sterpi del deserto. Lo spettatore capisce lentamente, mentre l'indagine prosegue, che è in corso un'azione di depistaggio. Il padre è un ex poliziotto militare disciplinato, paziente e gli ostacoli non lo fermano. La sua determinazione, purtroppo, lo conduce a scoprire qualcosa che mai avrebbe immaginato. Ricompone attraverso brandelli di immagini, che suo figlio gli ha inviato dal computer, il progressivo collasso esistenziale di quel gruppo di soldati che perdono ogni controllo di sé e non si arrestano, ubriachi e drogati, di fronte alla più terribile efferatezza. L'altra scoperta, altrettanto terribile, è che l'esercito ha architettato molteplici manipolazioni per tentare di nascondere l'accaduto, addirittura aggiustando una specie di patteggiamento a bassa intensità di pena con gli assassini. La struttura narrativa è quella di un giallo, ma la sapienza della realizzazione va ben oltre lo svolgimento dei fatti, e trascende lo svelamento finale della verità. In realtà il messaggio è molto nitido: la speranza è in lutto in questo Paese. Le vecchie certezze sembrano evaporate e la società civile è sostanzialmente muta. Di questo film restano nella memoria alcuni momenti di particolare efficacia espressiva. Innanzitutto il paesaggio arso e desolato in cui sono ritrovate le spoglie del soldato Mike. Qui c'è l'esatto opposto delle metropoli, con le selve dei loro grattacieli, le false sicurezze e l'eccesso di protervia. C'è un'allusione forte e dolorosa ad un fondo pietrificato e inaridito che si fa emblema di una disarmonia forse insanabile. In secondo luogo la bandiera rovesciata, una metafora di grande impatto. Con questo simbolo si è avviata l'azione drammatica, entro una cornice di orgoglio e di fierezza americana, e con esso si conclude invocando soccorso. L'intento è provocatorio, ma sul viso di quel vecchio soldato e nel mutare delle sue espressioni lungo il corso del film, si rispecchia non solo l'intera vicenda, ma lo stesso recupero di lucidità di una parte ormai grande della società americana.
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In questo mondo libero...
Ci sono state, poi, due inglesi di grande pregio: Espiazione di Joe Wright e In questo mondo libero… di Ken Loach. Riguardano argomenti molto diversi: il primo è imperniato sugli Anni Trenta fino alla Guerra Mondiale, il secondo ci parla del lavoro in affitto nell'Inghilterra di oggi. Del primo molti hanno criticato una presunta prolissità ed un certo carattere scontato, quasi banale, dei temi trattati. A me non è sembrato. Gli Anni Trenta fino a Dunkerque, per un verso, ed il flusso dei sentimenti dei protagonisti, per l'altro, compongono un quadro tutt'altro che banale. Le stesse lentezze appaiono molto funzionali rispetto all'assunto principale: l'Inghilterra e le sue classi dirigenti ebbero riflessi molto rallentati, comportandosi come se vivessero ancora in epoca vittoriana, tramontata da decenni. Da questa disattenzione/cecità derivarono conseguenze tremende e nell'affresco di Dunkerque si può avvertire con nettezza come i personaggi del film comprendano, entro l'orbita dei loro destini individuali, anche tanti aspetti della società del loro tempo. Naturalmente nella superficialità di percezione rispetto a vicende essenziali, si possono leggere tante cose circa l’ieri, ma anche in rapporto all'oggi. Ed è proprio dell'oggi che ci parla a sua volta, con la consueta incisività, il film di Ken Loach. La sua protagonista è una giovane donna che diventa imprenditrice di manodopera giornaliera, sul confine e soprattutto oltre il confine della legalità britannica. Si tratta di un affresco con molti elementi realistici e simbolici raccontati attraverso una forte denuncia sociale. Ma la denuncia evita l'enfasi. Elenca soltanto i fatti. Nudi, spietati, eloquenti. Il tema centrale è quello della crescente precarietà del lavoro dilatata oltre misura dagli afflussi provenienti da Est, con Polonia ed Ucraina in primo piano. Sullo sfondo c'è la società inglese fortemente scossa dall'ampiezza e dalla velocità delle trasformazioni, che fanno barcollare i vecchi valori mentre il tessuto civile s'infragilisce e si diffondono incontrollabilità ed inquietudine. Modernità liquida, l’ha definita Zygmunt Bauman. C'è un altro padre in questo affresco anglosassone. E' il padre di lei, un vecchio operaio laburista in pensione. Il suo sguardo ed i suoi commenti non si dimenticano facilmente. Sono soprattutto giovani i protagonisti di Lust, caution, il film di Ang Lee, che ha vinto il Leone d’Oro. I fatti narrati richiamano la drammaticità degli Anni Trenta, in Cina, fra Hong Kong e Shangai, durante l'occupazione giapponese. Un gruppo di giovani patrioti vuole agire e giustiziare un traditore: un cinese, alto funzionario del governo fantoccio, al servizio degli invasori. Incaricano una di loro, una giovane attrice, di sedurlo sessualmente, onde poi favore l'omicidio. Nel momento decisivo, però, lei lo avverte del pericolo e lui riesce a fuggire. Evidentemente nell'animo di questa giovane donna sono maturate impreviste emozioni, un tumulto dei sentimenti, forse l'amore. Non lo sapremo mai, perchè sono tutti arrestati, la polizia segreta li stava sorvegliando e li aveva infiltrati. Immediatamente seguono le fucilazioni, lei compresa. Ancora una volta, in una situazione così diversa rispetto alle opere del passato, risulta palese che il cardine dell'ispirazione registica di Ang Lee resta l'ambiguità. Il suo estro consiste nel descriverla con l'eleganza ed il garbo che discende dall'antica arte del suo paese. E' netta la sensazione che l'ambiguità non riguardi solo i sentimenti e l'amore, ma pervada anche la politica e la storia, come testimoniano le sottili allusioni ad una rete di doppi giochi dentro al governo fantoccio. Del resto lo stesso regista ha fornito la sintesi del suo lavoro: voglia di vivere e prudenza nella società, il tutto visto con gli occhi di una donna.
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La semola e il mulo
In ultimo il film che forse avrebbe meritato un maggior riconoscimento: Il grano ed il cefalo (data la storia narrata dal film si potrebbe anche tradurre La semola e il mulo) di Abdellatif Kechiche. In un cantiere navale di Sète c'è un operaio magrebino di 61 anni. E' divorziato. Ha una nuova compagna. Guadagna poco e gli riducono la paga. Si licenzia. Con la liquidazione recupera una vecchia nave in disarmo trasformandola in un ristorante di cous cous. La sera dell'inaugurazione un grave intoppo, dovuto alla stupidità di suo figlio, rischia di mandare tutto a monte. Tenta di porvi rimedio, ma il film si chiude con il vecchio che si accascia senza dirci se il progetto e lui stesso sopravvivranno. L'operaio si chiama Slimane. Non sorride quasi mai e di norma non guarda in faccia l'interlocutore. Non è mai rassegnato ma tiene un contegno dimesso. E' certamente a disagio nella sfida col futuro, ma non cede mai alle circostanze. Questa è la base narrativa. L'immedesimazione degli attori incanta per la bravura e per la passione che li anima, ed il diagramma della convivenza franco-magrebina appare come il centro nevralgico della rappresentazione. Ci sono le luci come le ombre, le speranze come le delusioni, le fatiche come le gioie. Sono esistenze difficili che in qualche caso deragliano. Il processo sociale è arduo ma inevitabile. Evoca la Francia ma anche l'Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia. Il sommovimento ha caratteri epocali deve essere vissuto nei suoi termini reali. E’, dunque, straordinario il paradigma metaforico in cui sono collocati i rapporti fra le diverse generazioni ed i diversi flussi migratori, in bilico fra tradizione ed innovazione, fra Africa ed Europa, fra Ovest ed Est del vecchio continente da cui proviene l'ultima ondata, la più sofferente come testimonino le figure della sposa ucraina e di suo fratello stretti in una solitudine disperata. Così, mentre l'asse del racconto evoca i disagi e gli stridori di un rapporto più difficile tra la vecchiaia ed il lavoro, appare evidente che il nostro mondo è entrato in una fase di novità in cui nulla è più come prima. Il film ci parla di tutto questo e lo fa con leggerezza, usando una sottile ironia combinata, come in una sinfonia, con il succedersi delle scene in cui Slimane rincorre i ladruncoli che gli hanno rubato quel motorino un po' mal messo. Qui le sequenze si connettono spazialmente l'una con l'altra. Brani percorsi da una potenza simbolica che fa pensare ad un oggetto dell'arte povera. E' con questo oggetto che il film si conclude, col vecchio che insegue vanamente i ragazzetti che glielo hanno rubato. Diventa sempre più affannato, poi crolla al suolo senza più energie. E' un finale amaro, certamente, ma è anche segnato da un'idea precisa di dignità umana e da un'immagine integra di apertura alla speranza, nonostante tutto.
Luigi Castagnola