Mostra del cinema di Venezia 2007 - 7° giorno

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Mardedì 4 Settembre - Settimo giorno
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Il dolce e l'amaro
Il secondo film italiano in concorso ha portato più delusione che apprezzamento. Il dolce e l’amaro, opera seconda di Andrea Porporati è la storia di un mafioso di media tacca che finisce col pentirsi per paura di essere ucciso dai capibastone che ha servito devotamente, ma che, ora, lo considerano un ostacolo perché a conoscenza di troppe cose. Ci sono tutti gli stereotipi del racconto di genere, dagli omicidi su commissione, alla storia d’amore con una ragazza per bene, dal rapporto di stima – odio con un magistrato alla ricchezza facile. C’è tutto questo, ma manca una struttura stilistico – narrativa originale. Ogni sequenza rimanda ad altre viste in altri film, piuttosto che ad un’opera originale sembra di assistere ad una sorta di collage di cose già viste. Non aiutano gli attori, in particolare il protagonista Luigi Lo Cascio, che attraversa la storia quasi senza mutare d’espressione. Un’occasione persa e un brutto tanfo per la presenza italiana a questa 64 Mostra del Cinema.
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Io non sono qui
Note non positive anche I’m Not There (Io non sono qui) che l’americano Todd Haynes (Safe, 1995; Lontano dal Paradiso – Far from Heaven- 2002) ha tratto, molto liberamente dalla vita e le opere di Bob Dylan. Il film allinea sei personaggi e altrettante storie, ciascuna delle quali costituisce una sorta di faccia della cultura e dell’arte del cantautore. C’è, ambientata nel 1959, quella di un ragazzino di colore con il genio della musica che vagabonda per gli States, c’è Arthur Rimbaud che risponde alle domande che provengono da fuoricampo, c’è un ex – cantautore riciclatosi come pastore pentecostale, c’è un popolare divo del cinema con i suoi problemi coniugali, c’è la rock star Jude Quinn le cui ultime canzoni molti fan considerano un tradimento delle originali ispirazioni folk, c’è Billy The Chid ormai anziano, siamo nel 1913, che deve vedersela ancora con un vecchio Pat Garret, costretto su una sedia a rotelle, ingaggiato da una società immobiliare per cacciare gli abitanti di un paesino destinano da essere cancellato da una nuova autostrada. Molta carne al fuoco, una certa confusione e nulla di nuovo sull’opera del grande cantautore di cui il film mette in luce la complessità e, a volte, la contraddittorietà, del lavoro senza fornire una precisa chiave di lettura. Molto materiale, ma ammassato quasi alla rinfusa, disordinato e poco filtrato. Lo stile espositivo è maturo, ma pende più sul professionale che verso il veramente ispirato. A salvare la giornata è arrivato, per fortuna, il taiwanese Lee Kang Sheng, regista e interprete di Bang Bang Wo Aishen (Eros aiutami). Il film si muove sulla linea del cinema di Tsai Ming Lian (Il buco, 1998; Vive L'Amour, 1994) a quasi tutti i cui film questo regista ha partecipato come interprete e che qui figura come produttore. L’autore racconta di aver realizzato quest’opera uscendo da un periodo particolarmente difficile e non si stenta a credergli tenuto conto del pessimismo che pervade il suo sguardo su una società che ha scambiato la tecnologia e la ricchezza con la mercificazione di ogni cosa, il corpo umana prima di tutto. Il film ruota attorno ad un uomo che ha perso tutto, moglie compresa, vive in un appartamento semivuoto e s’innamora di una voce di Telefono Amico che non riuscirà mai ad incontrare e che si rivela una cicciona disperata, afflitta da un marito omosessuale con la mania della cucina. Gran pare degli elementi tipici della ricca modernità cinese e non solo, dai piatti strampalati e crudeli, al sesso come puro esercizio fisico, sino al possesso sfrenato di oggetti tecnologici, sono messi alla berlina, vivisezionati in modo crudele in un film che offre un quadro impietoso del mondo che ci attende dietro l’angolo. Davvero uno di quei testi da analizzare con pazienza per scoprirne la grande ricchezza.
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Karoy
La Settimana della Critica ha presentato Karoy della kazaka Zhanna Issabaeva. Il film ha per protagonista un essere disgustoso: ladro, stupratore, bugiardo, truffatore, un personaggio laido capace di rubare ad una vecchia le poche monete che è riuscita a mettere assieme in due giorni di vendita di semi di girasole ai bordi di una strada persa in un deserto polveroso o di violentare una donna che sta per partorire, derubarla e abbandonarla, sola, preda delle doglie. Una figura di villan che non ammette alcuna umana compassione. Eppure, partendo da questa figura disgustosa, la regista costruisce un discorso che, senza alcuna sfumatura giustificazionista, affonda le radici nella complessità della natura umana. Lo fa con un racconto ritmato da lunghi silenzi interrotti da sequenze drammatiche e immergendo i personaggi nel panorama, bellissimo e immobile, di una natura che assiste, algida e indifferente, alle azioni più sordide. Anche se aleggia nel film un discorso abbastanza preciso sulle conseguenze della povertà e dell’arretratezza che opprimono larga parte del paese, la regia non calca la mano su una possibile lettura sociale, ma guarda al personaggio e alle figure che incrociano il suo cammino con lo stesso spirito con cui uno studioso guarda alle contorsioni di un animale da laboratorio. Lo stesso teme dell’eutanasia, nel finale, non assume il tono di una perorazione etica, ma è solo un nuovo episodio impastato di dolore e necessità. C’è in questo approccio un senso di rassegnazione all’ineluttabilità della sorte umana che contrasta, ancora una volta, con la bellissima immobilità del paesaggio. In questo la regista ci riporta ad una dimensione etica che vede il genere umano come poco più che un groviglio di formiche impotenti e impazzite. Un film molto bello e impregnato di tragica lucidità.