35° Jerusalem Film Festival

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Sito del festival: http://www.jff.org.il/en/23255

xxxGli amici della cineteca della Cineteca di Gerusalemme devono essere numerosissimi se si considera l’affluenza di ieri notte al Gala d’apertura del 35° Jerusalem Film Festival nell’enorme cavea all’aria aperta che si espande ai piedi della cineteca. Numerosi anche i registi, gli attori e i giornalisti stranieri venuti a festeggiare i 35 anni di un’istituzione che dal 26 luglio al 5 agosto presenta duecento film provenienti da tutto il mondo.

Dall’Italia, in concorso il film di Matteo Garrone Dogman; in altre sezioni: Felice come Lazzaro di Alice Rohrwacher, Euphoria di Valeria Golino, Ferrante Fever di Giacomo Durzi, Nico, 1998 di Susanna Nicchiarelli. In mattinata, una lunga mattinata prima dell’inaugurazione, la cineteca ha presentato Les misérables di Henri Fescourt, film di sei ore del 1925, recentemente restaurato, considerato la migliore trasposizione del capolavoro di Victor Hugo. Tornando al Gala d’apertura, va ricordato che c’è sempre un Sud più al Sud di tanti Sud. Prevista per le 20.00, la presentazione degli ospiti è cominciata dopo le 21.00 e il film dopo le 21.30. Col contributo del vento della sera e sotto un cielo di stelle sembrava di assistere a un’immensa kermesse paesana dove tutti si conoscevano e si ritrovavano. Certo, si dovevano riempire cinque o seimila poltrone e i controlli all’entrata erano molto efficienti. La presentazione, in israeliano e in inglese, è stata accolta da calorosi applausi, e in particolare il regista esordiente Eliran Malka col suo film fuori concorso The Unorthodox (Non ortodosso), che si svolge a Gerusalemme e che tra il serio e il faceto disserta sugli intrallazzi della politica. Incentrato su confessioni 003965 2religiose all’interno di quella ebraica, il film si apre con un personaggio stravagante, il vedovo Yakov Cohen, estroverso e sanguigno, che gestisce una piccola stamperia a conduzione familiare e che s’infuria quando la figlia adolescente viene espulsa da scuola per ragioni etniche. Accompagnato dalla figlia s’introduce nella scuola e prende di petto molti insegnanti fino a scontrarsi con la maggiore responsabile che gli spiega perché il comportamento della studentessa non corrisponde alle regole della scuola. Il problema è che Yakov non è un ebreo ortodosso, ma un sefardita che permette alla figlia comportamenti proibiti agli altri allievi. Dapprima decide di punire la ragazza facendole pulire la stamperia, poi intravvede la possibilità di ottenere una rivincita mettendosi in politica per ottenere una carica nell’amministrazione della città. E non lo può fare da solo perché la tradizione richiede l’appoggio di personaggi noti e l’avallo dei rabbini. A questo punto si mette alla ricerca di persone pronte a scommettere con lui. E le trova, ma alla fine di una lunga cavalcata emerge un antico problema: di chi ci si può fidare? Interpretato da Shuli Rand, il protagonista è come un uragano che coinvolge tutti impegnando tutto ciò che possiede. Lo si vede aumentare le tirature degli affissi pubblicitari, affittare camioncini per la diffusione della pubblicità, ma anche, nella raccolta delle firme, aggiungerne qualcuna di troppo. Un primo successo gli permette di lasciare la corsa per il Comune e di candidarsi alla Knesset, ma alla fine vinceranno gli amici della sua coalizione che hanno operato nell’ombra. Il film dura 92 minuti. Si apre in maniera roboante con un protagonista all’assalto, poi diventa sempre più un film dialogato sugli intrighi e sugli inganni della politica.


lo versos del olvidoI primi film in concorso provengono da altri Festival, come la maggior parte dei duecento titoli in catalogo. Fanno eccezione alcune anteprime di film israeliani. Si apre con un film premiato a Venezia l’anno scorso, Los versos del olvido (Oblivion Verses), girato in Cile dalla regista iraniana Alireza Kathami. Cronaca di una solitudine, tra dettagli della vita quotidiana e immagini del sogno, narra di un anziano signore che al cimitero registra decessi e dà sepolture. Sembra non avere un nome. Si sa, però, che è prossimo al pensionamento, e che possiede una memoria eccezionale. Nell’isolamento quotidiano gli permette di rivivere momenti e situazioni lontane. A turbare la monotonia delle sue giornate appare uno smemorato che durante alcuni giorni aveva condiviso con lui una cella del carcere, ma il fatto che riesce a scuoterlo è un’incursione della milizia che si appropria di undici dei dodici corpi giacenti nella morgue. Ne resta uno, di una giovane donna vittima della repressione durante una manifestazione. Deciso a stabilirne l’identità e a darle degna sepoltura, sebbene improvvisamente messo in pensione, l’anziano farà del tutto per riuscire nell’intento. Scritto dalla regista con Dominique Welinski e René Ballesteros, il film è interpretato da Juan Margallo che seguiamo in spazi vuoti dove, oltre al becchino e al trasportatore di salme, si muovono pochissimi personaggi, fantasmi periferici di un mondo disabitato. Dura 92 minuti, ha momenti che sfiorano la poesia e qualche lunghezza.
679922700 1280x720Un velo di solitudine si agita anche sui protagonisti di ¾ (Three Quarters) del regista bulgaro Ilian Metev, premiato nella sezione Cineasti del presente al festival di Locarno. Tre quarti di una famiglia, il padre e due figli, nella quale si avverte l’assenza della madre. In realtà nessuno è completo. Dal padre, un fisico preoccupato dalla sua attività di ricerca e che non presta molta attenzione ai figli, alla ragazza che si esercita al pianoforte senza molta convinzione, fino al minore - dieci anni - estroverso e fanfarone. Come un entomologo il regista osserva e riprende il comportamento dei tre senza raccontare una storia. Si limita a registrare dialoghi e passeggiate quasi a testimoniare comportamenti di giovani che si aprono alla vita e preoccupazioni dell’adulto. Interpretato da Mila Mikhova, Niki Mashalov, Todor Velchev, il film dura 83 minuti e sembra girato per partecipare a Festival internazionali. Problematica risulterebbe, infatti la sua immissione in un circuito commerciale.


aspettando le rondiniIn concorso si è visto il film dell’esordiente algerino Karim Moussaoui, En attendant les hirondelles (In attesa delle rondini), prodotto da Algeria, Francia e Germania. Premiato in una sezione di Cannes dell’anno passato, il film sviluppa tre storie ambientate in Algeria ai nostri giorni. Si apre con un personaggio sulla sessantina che ha fatto fortuna costruendo immobili ma che ha difficoltà a relazionarsi con i familiari. Il figlio ventenne, pragmatico e distante, l’ex moglie alquanto confusa, la sua attuale compagna. È testimone di un pestaggio; il figlio si frattura un braccio in un incidente con la moto, e lui è sempre più titubante. Dando il permesso al suo giovane autista di assentarsi per condurre in auto a Biskra un conoscente e la figlia che deve sposarsi, entriamo nel secondo racconto. Il padre della sposa è ricoverato per una notte a causa di dolori intestinali, e il giovane deve proteggere la ragazza che gli si mostra ostile ma che finisce per innamorarsi di lui. Un medico, incontrato sulla strada, introduce al terzo racconto nel quale una donna lo ritiene responsabile di aver assistito alle violenze da lei subite da parte di militari e di non averla difesa. Tre storie, tre diversi stati d’animo in tre situazioni limite che lasciano perplessi e indifesi. Attori misurati, sapienza di montaggio e un approccio sensibile gli hanno valso calorosi applausi dopo i 112 minuti della proiezione.
the diveScritto e diretto da Yona Rozenkier, e da lui interpretato insieme con i fratelli Yoel e Micha, The Dive (L’immersione) è un film d’esordio che si svolge in un Kibbutz sulla frontiera libanese. Durante giorni di guerra, i tre fratelli si ritrovano durante un weekend per onorare il padre appena scomparso. E seguendo l’esempio del morto, che aveva allevato i due fratelli maggiori con metodi militari, ora loro si adoperano per preparare il fratello minore alla guerra. Con metodi duri, dalla lotta corpo a corpo all’impiego delle armi, i tre si azzuffano selvaggiamente fino alla prova finale che consiste nell’immergersi in un canale sotterraneo nuotando poi fino a una piccola laguna. Dopo aver sfiorato il dramma, i tre si ritrovano sani e salvi in superficie e potranno riprendere il loro lavoro di routine di pattugliamento della frontiera. È una sorta di psicodramma che si svolge a momenti dinanzi alla madre di origine italiana e alla nonna, il film dura 87 minuti, quasi tutti di scontri verbali e corporali in una comunità in costante allerta, raggiunta quotidianamente da notizie sul numero delle vittime della guerra. Tema non nuovo, racchiuso in un tempo breve e in un ambiente circoscritto, soffre di alcune ripetizioni e dell’eccesso di foga dei personaggi, che tuttavia doveva essere proprio quello che il regista voleva mostrare.
limonataLe cose non vanno meglio a Mara, (Mălina Manovici), infermiera rumena emigrata negli Usa dove ha sposato un suo paziente. Lemonade (Limonata), film d’esordio di Ioana Uricaru prodotto da Cristian Mungiu, narra in 88 minuti le vicissitudini di una giovane donna che lotta per regolare la sua posizione e ottenere la Green Card. Leale, ma anche ingenua, la giovane donna è vittima di un ricatto sessuale da parte di un funzionario del servizio di immigrazione. E la sua vita si complica con l’arrivo dalla Romania di Dragos, il figlio di circa dieci anni, che non parla inglese. Mara non sa che per le leggi degli Usa non può lasciare il figlio solo in un motel, e non sospetta che, essere stata sincera col marito sulle avance del funzionario corrotto, provocherà una tempesta. Introdotta da un’amica, donna delle pulizie che ha sempre lavorato in nero, accetta di farlo anche lei dopo essersi consultata con un avvocato che le ha suggerito un’azione che le permetterà di restare in America per tre anni, rinnovabili. Basandosi su un fatto reale, Ioana Uricaru ha drammatizzato un atto di accusa contro le leggi americane, la loro applicazione spesso ottusa, e la latente corruzione di molti funzionari. Schematica appare la reazione del marito, e sicuramente ingenuo il comportamento di Mara che tuttavia attraversa storie che fanno parte della vita di molte donne.


MV5BYTcxOTUyYzMtMDY3ZC00YTY0LWIyNjEtYWYwNjE0YTA4YWI5XkEyXkFqcGdeQXVyMTMxODk2OTU. V1 La quarantaduenne iraniana Sadaf Foroughi ha studiato in Francia e negli Usa. Qui, nella sezione Esordi ha presentato Ava, film di 103 minuti, in catalogo anche al Toronto IFF e al Tribeca di New York. Ai nostri giorni, a Teheran, Ava è un’adolescente che frequenta un liceo scientifico e che prende lezioni di violino. Ha un’amica del cuore con la quale si confida. Parlano di simpatie per ragazzi, che stando alle regole dell’istituto, e molto probabilmente della società iraniana, non possono avvicinare se non accompagnate da adulti. Inoltre, il comportamento invadente e repressivo della madre, che vorrebbe cancellare le lezioni di violino affinché lei si concentri sullo studio delle materie scientifiche, provoca scintille di ribellione. Per la giovane, infatti, la musica è molto importante. La brutale intromissione della madre nelle sue relazioni provoca un terremoto. Ne subisce le conseguenze l’amica e la stessa Ava che, in un atto di disperazione, si ferisce a una mano. La direttrice dell’istituto, fondamentalista osservante, considera quell’atto nocivo per la scuola e decide di espellerla. Suo padre, pacato e pragmatico, tenta di rasserenare l’ambiente, ma è boicottato dall’intervento isterico della moglie. Alle radici del suo comportamento il fatto di essere stata messa incinta prima del matrimonio e il timore che questo possa accadere anche alla figlia. L’averlo rivelato alla giovane, in un momento di nervosismo ne ha provocato la ribellione. Interpretato da Mahour Jabbari, Bahar Nouhian, Leili Rashidi, il film mostra una società più repressiva, che severa espressa non tanto mediante l’applicazione ferrea di leggi e regolamenti, quanto attraverso le sensibilità dilaniate di vittime di quelle leggi.
MV5BM2NiODQ3NGYtOTkyZi00M2EzLTlkNTYtMjQ0NjdhNWQ4NWQ3XkEyXkFqcGdeQXVyMTMxODk2OTU. V1 Poi, volendo scendere all’inferno, troviamo l’ultimo degli uomini, il ventiduenne protagonista del film Sauvage, (Selvaggio), del francese Camille Vidal-Naquet, proveniente dalla Semaine de la Critique di Cannes. Sorta di figlio di nessuno, senza dimora e futuro, Leo si vende per strada, che è anche la sua casa. Passa da un uomo all’altro: gay, etero, giovani e vecchi, fino a quando, aiutato da un collega più esperto gli si affeziona. L’altro, ex pugile, ha un piano preciso: accoppiarsi con un anziano, solo e benestante, e farsi mantenere. Ci riesce. Parte per la Spagna e lo lascia nuovamente indifeso. Il giovane soffre d’asma e ha un principio di tubercolosi. Incapace di risolvere i suoi problemi, sempre più solo e maltrattato, rischia di morire. È salvato da un imprenditore residente in Canada che lo fa curare e che gli chiede di partire con lui. Leo crede di toccare il cielo con un dito, ma il richiamo della strada è più forte della felicità. È un film senza veli, dove è messa a nudo la solitudine di tanti perdenti e dove le vicissitudini di personaggi miserabili, invisibili ai più, sono illustrate con coraggio e con misura, senza indugiare su visioni voyeuristiche. Dura 97 minuti ed è interpretato da Félix Maritaud, Eric Bernard, Nicolas Dibla, attori che hanno richiesto al regista una ricerca di tre anni.
711490011 1280x720Roman Shumunov è nato in Georgia ed è vissuto in Russia fino al 2001, anno in cui è emigrato a Israele. Diplomatosi nel 2008, è diventato un documentarista affermato, esordisce ora nel lungometraggio di finzione con Here and Now (Qui e adesso). Quattro amici nella periferia di Ashod stanno mettendo su una banda hip hop per partecipare a un Festival che potrebbe permettere loro di uscire dall’anonimato. Andrei, tuttavia, col padre ricoverato in ospedale, un’ipoteca sulla casa e l’attenzione alla sorellina, si dibatte tra il lavoro al porto e le prove musicali. Quando non riesce a far quadrare i conti si rivolge a un amico che lo presenta a persone poco affidabili che gli permettono di saldare il debito con la banca, ma diventerà ricattabile. Inquadrato come dramma sociale di quattro giovani russi che non riescono a integrarsi nella realtà israeliana, il film mostra incontri e scontri con le autorità, litigi e incomprensioni tra i quattro amici e, in particolare, la brutale presenza della polizia. Dura 87 minuti, si avvale della musica della IZREAL Band e dell’interpretazione di Vlad Dubinsky, Mishel Vinberg, Zura Kartvelishvili, Renat Hasanov, Eduard Hmelnitsky.


andDalle sezioni riservate a opere prime del Festival sono arrivati un paio di film originali. Prodotto da Islanda, Svezia e Belgio, Andið eðlilega (E respira normalmente), film di 102 minuti diretto da Isold Uggadóttir. In Islanda, superata la crisi economica, Lara, giovane madre con bambino, trova lavoro al controllo passaporti dell’aeroporto di Kevaflik. Costretta a vendere la casa, e in cerca di alloggio, dorme in macchina. Durante i giorni di apprendistato fa notare al suo superiore l’irregolarità di un passaporto. Adja, richiedente asilo della Guinea Bissau che aveva già superato i controlli, viene interrogata. Non potendo spiegare il possesso del documento è condannata a un mese di prigione, e poi alloggiata con altri richiedenti in attesa di sapere se potrà partire per il Canada o essere rimpatriata. Una mattina il bambino apre lo sportello dell’auto, il gatto scappa e lui l’insegue. Al risveglio Lara non li vede e si dispera. Li incontra Adja, e li riporta dalla madre. S’incontrano ancora, e durante una notte di pioggia la richiedente asilo li ospita nella sua camera. Vi dormono per alcune notti, mentre Lara si sente sempre più responsabile della probabile deportazione di Adja, e incomincia a pensare come trarla d’impaccio.   Interpretato da Kristin Thóra Haraldsdóttir, Babetida Sadjo, Patrik Nökkvi Pétursson, il film narra una vicenda individuale quale microcosmo della condizione dei migranti intrappolati nell’ultimo scalo europeo prima del grande balzo verso il Canada. E sottolinea i pregiudizi verso lo straniero, la rigidità nell’applicazione delle leggi e il valore di piccole trasgressioni.
verginiDall’estremo nord al sole del Mediterraneo con lo stravagante film di 90 minuti di Keren Ben Rafael, Virgins (Vergini). Kiryat Yam, paese rivierasco lontano dal traffico delle grandi città, ospita un vecchio Caffè, isolato sulla spiaggia. Lo gestisce una disincantata signora di mezz’età, con la figlia sedicenne Lana. La donna è piena di debiti. Il sindaco, che è anche il suo amante, vorrebbe farle vendere il locale che non ha clienti eccezion fatta per un paio di amici che vi bivaccano quotidianamente. Protagonista è Lana, estroversa e pragmatica, che vorrebbe perdere la verginità e andare a vivere a Tel Aviv. La visita del giornalista Tchipi, un po’ poeta, un po’ fanfarone, al quale Lana racconta una storia di sirene, dà adito alla pubblicazione di una storia stravagante che attira sulla spiaggia molti bagnanti e che aumenta le speranze della ragazza di trasferirsi in città. Senonché i turisti, muniti di cannocchiali, sono lì per le sirene e snobbano il Caffè, come Tchipi snobba Lana che vorrebbe avere una relazione sessuale con lui. La madre deve occuparsi anche della nipotina Tamar, ma decide di indire un Party delle sirene per attirare gente. Quando la festa sembra riuscita e Lana coinvolge Tchipi, l’improvvisa scomparsa di Tamar riporta tutti con i piedi per terra. Trasgressivo, a tratti cinico e amaro, spesso divertente, grottesco nella tradizione spagnola, il film può sembrare anche ribaldo nel suo rifiutare il politicamente corretto, ma esprime la forza della natura e libera le coscienze. Originale esordio della regista israeliana che si è formata in Francia, e bella prova delle attrici Joy Rieger ed Evgenia Dodina.
skate-kitchen previewMano interessante il film su adolescenti newyorkesi che dedicano l’estate a superarsi nello skate diretto dalla statunitense Crystal Moselle. Skate Kitchen, titolo del film e nome di un gruppo che pratica lo skate, descrive la passione per questo sport da parte di Camille, che dopo un piccolo incidente e dopo un alterco con la madre, lascia la casa a Long Island per andare a vivere e a competere con gli adolescenti del gruppo. Lunghe esibizioni di acrobazie con la tavoletta a ruote, turbamenti adolescenziali, litigi e riappacificazioni fino al ritorno a casa di Camille e all’apertura della madre verso questo sport. 106 minuti per le strade di New York per un film dedicato ai giovani. 


virus tropicalTra gli ultimi tre film delle sezioni di concorso dedicate a opere prime, anche un film d’animazione già presentato alla Berlinale. Virus Tropical, diretto da Santiago Caicedo e prodotto da Colombia ed Ecuador, si avvale di animatori quali David Restrepo, Manuel D’Macedo, Felipe Sanín, Carolina Gomez. Girato in bianco e nero per un percorso di 97 minuti, narra la storia di un paio di generazioni attraverso la vita di una famiglia vista dall’ultima nata, Paola. In realtà il film si apre con la madre in visita da medici che le diagnosticano un virus tropicale, fino ad arrivare a quello giusto che le rivela la gravidanza. E la neonata suscita la gelosia della sorella e l’imbarazzo del padre prete che approfittando della visita dell’anziana madre lascia Quito e la famiglia per andare a vivere con lei a Cali in Colombia. Film di donne e di adolescenti desiderose di indipendenza tra risvegli sessuali e piccole liti, segue il normale tran tran della vita: crescita, distacchi. matrimoni e nuovi virus tropicali. Con lo spirito de I Simpson, e con una grafica apparentemente povera e semplificata il film riesce a coinvolgere lo spettatore nei problemi di una famiglia in movimento tra Ecuador e Colombia man mano che appaiono alla ribalta altri figli e altri problemi. Dalla Graphic Novel di Paola Power una galleria di ritratti di donne di tutte le età e di tutti gli strati sociali.
red cowTurbamenti adolescenziali femminili sono anche al centro degli altri due film. Red Cow (Vitello rosso) dell’israeliana Tsivia Barkai Yacov ci introduce nell’ortodosso insediamento di Silwan in territorio palestinese a est di Gerusalemme. Benny, florida diciassettenne dai capelli rossi che ha perso la madre alla nascita, vive col padre, religioso fondamentalista. E si sostengono reciprocamente fino a quando la ragazza sente forti impulsi sessuali. Si confida con una coetanea, introversa e autolesionista, e la loro intesa sbocca in un caloroso approccio sessuale. Per Benny è una liberazione, ma la sua foga intimorisce la partner che mette fine ai loro approcci. Il titolo, che gioca sul vitellino rosso nel giardino di Benny e sul colore dei capelli della ragazza, ha anche un riferimento nella Torah dove si parla di un vitello rosso portato sul Monte degli Ulivi per essere macellato e bruciato. Interpretato da Avigayil Koevary, Gal Toren, Moran Rosenblatt, il film dura 91 minuti e mette in risalto le scelte dell’adolescente, personali, sociali e religiose, dopo l’infuocata relazione sessuale. Sullo sfondo i problemi dei rapporti israelo-palestinesi, i piccoli affrontamenti quotidiani e il delirio religioso del padre che sostiene il prossimo avvento della redenzione.
animaleL’afflato con una coetanea cambia anche il comportamento di Mati, protagonista di L’animale dell’austriaca Katharina Mückstein. Già nella sezione Panorama della Berlinale, il film si svolge in un paese dove un adolescente, nell’anno in cui sta preparando la maturità, occupa molto tempo con una banda di giovani motociclisti che fanno il bello e il cattivo tempo. Si comporta infatti come un ragazzaccio che intimorisce coetanei indifesi e che trascorre molto tempo in birreria con la banda. Collabora anche con la madre veterinaria e quando una ragazza si presenta con un gattino malato, nasce una simpatia che le sarà d’aiuto. Uno della banda, infatti, s’innamora di lei e l’infastidisce. Per tutta risposta, Mati si rifugia in casa della nuova amica. E le cose non vanno meglio per la madre, che scopre tradimenti del marito e deve decidere se affrontare il problema o far finta di niente. Un racconto di 100 minuti con qualche eccesso nel comportamento della banda e con la canzone di Franco Battiato L’animale che chiude il film.


dogmanll 35° Jerusalem Film Festival si conclude il 5 agosto, e gli spettatori hanno l’occasione di vedere i film premiati questa notte. Dei film israeliani, sette di finzione e otto documentari, la giuria composta dai registi: Calin Peter Netzer (Romania), Anat Yuta Zuria (Israele), Malgorzata Szumowska (Polonia), Caroline Champetier (Francia), ha assegnato il Premio Robert Nissim Haggiag di US $ 27.000 per il miglior film israeliano di finzione, ex aequo a The Dive (L’immersione) di Yona Rozenkier, e a Red Cow (Vitello rosso) di Tsivia Barkai-Yacov. Il premio Van Leer di US $ 13.500 al miglior documentario per Jonathan Agassi saved my Life (Jonathan Agassi mi ha salvato la vita) di Tomer Heymann. La giuria per la competizione internazionale, composta dal critico britannico Fionnuala Halligan, dal direttore di The Match Factory, Michael Weber, e dalla regista israeliana Elite Zexer ha assegnato il Premio della Fondazione Gabriel Sherover di US $ 20.000 per il miglior film internazionale a DOGMAN di Matteo Garrone. La menzione speciale è andata a Gräns, o Border (Confine) dell’iraniano/svedese Ali Abbassi.
Tornando ai film israeliani, gli altri premi. Per la regia a My War Hero Uncle (Mio zio eroe di guerra) di Shakeb Goren. Il Premio Dalia Sigan per la sceneggiatura a Mor Loushy e Daniel Silvan, registi di The Oslo Diaries (I diari di Oslo). Il Premio Haggiag al miglior attore, assegnato ex aequo ai fratelli Yoel, Micah e Yona Rozenkier per The Dive di Yona Rozenkier. Migliore attrice: Avigayl Koevary, protagonista di Red Cow.
Il Premio Aharon Emanuel per la migliore fotografia a Oded Ashkenazi per The Dive. Il Premio Yoram Golan al miglior montaggio è andato a Tal Rabiner e Alex Khusid per Jonathan Agassi saved my Life. Il Premio Van Leer alla migliore colonna sonora è stato vinto da Assaf Talmudi per il suo lavoro nel film Redemption (Redenzione) di Joseph Madmony e Boaz Yehonatan Yacov: il film ha vinto anche il Premio del Pubblico. Quello del Pubblico per il miglior film documentario è stato invece assegnato a Wild Kids (Ragazzi selvaggi) di Tal Pesses.
Passando agli altri premi, quello della critica internazionale (Fipresci) ha considerato il miglior film internazionale d’esordio Sauvage (Selvaggio) del francese Camille Vidal-Naquet. Miglior film d’esordio israeliano Virgins (Vergini) di Keren Ben Rafael.
Il Premio nello spirito della libertà in ricordo di Wim van Leer è stato assegnato a Felice come Lazzaro di Alice Rohrwacher. Il Premio Ostrovsky per il documentario a Infinite Football (Inesauribile calcio) del rumeno Corneliu Porumboiu.
Il Premio Van Leer al miglior corto israeliano Girl with a Fork in a World of Soup (Ragazza con una forchetta in un mondo di minestre) di Yotam Knispel, (Beit Berl Academic College). Premio Van Leer al miglior documentario: Shore Stories (Storie di spiaggia) di Uri Smoly (Sam Spiegel School). Miglior corto d’animazione: Calpotis di Mor Israeli (La Poudrière – Film and Animation School).
Il Premio del Presidente Avner Shalev - Yad Vashem di riuscita artistica per il miglior film relazionato all’Olocausto è andato a Black Honey, The Life and Poetry of Avraham Sutskever, (Miele nero, La vita e la poesia di Avraham Sutskever) di Uri Barabash. Menzione speciale per Shabbos Kallah di Aleeza Chanowitz.
Concludiamo col Premio del 13° Jerusalem Pitch-Point (Progetti di produzione e Work-in Progress Stage) che per tre giorni ha riunito produttori di tutto il mondo. Il Premio Goralska è stato assegnato a Lot’s Wife (La moglie di Lot), diretto da Avishai Sivan e prodotto da Ronen Tal.