02 Novembre 2014
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55° Thessaloniki Film Festival 2014 |
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55mo Thessaloniki Film Festival 2014
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Un film prodotto da Ungheria, Germania e Svezia, White God (Dio bianco) di Kornél Mundruczò ha inaugurato il Festival, la più importante manifestazione cinematografica greca, presenta in catalogo trecento film e dedica una grande retrospettiva ai cento anni del paese. In concorso abbiamo visto un film lettone, Modris, primo lungometraggio di finzione di Juris Kursietis dopo aver girato tre documentari. Il giovane Modris non ha ancora compiuto diciott’anni e vive con la madre che gli ha sempre detto che suo padre è in prigione. Cresciuto senza una guida, taciturno, il ragazzo frequenta saltuariamente un liceo di Riga. Le assenze sono dovute alla sua addizione al gioco e alla ricerca di denaro per soddisfare la sua dipendenza. Prima vittima la madre alla quale sottrae soldi, ma quando smonta e vende la stufa, lei lo denuncia affinché non segua la stessa sorte del padre.
Una volta schedato, la sua vita è monitorata dalla polizia. No e un cattivo ragazzo, ma è debole e sbandato. Ne approfitta una squinternata e malvagia compagna di scuola che lo induce a infrangere la legge, altri gli rubano i documenti e lui stesso arriva alla terza trasgressione facendosi sorprendere a bere alcool sulla via pubblica. Questa volta dovrà scontare i due anni di carcere che gli erano stati sospesi in prima istanza. Ambientata d’inverno a Riga, in giorni senza sole e con le strade coperte di neve, la vicenda di questo giovane è senza speranza. L’adolescente tenta tuttavia di rintracciare il padre che scoprirà lavorare in un’azienda di legnami, ma lo vedrà soltanto in carcere, quando la sua detenzione avrà riavvicinato i genitori. Film di novantotto minuti, interpretato con misura da Kristers Piksa e Rezija Kalnina, mette a fuoco l’inevitabile destino di un giovane sbandato che si isola da tutti e di tutti diventa la vittima.
Sconcertante la reazione del pubblico alla proiezione del film dell’inglese Peter Strickland The Duke of Burgundy (Il duca di Buirgundy), visto nella sezione Open Horizons, dura centosei minuti, ma dopo la prima mezz’ora è iniziato un esodo sincopato ma regolare. Alla fine c’è stato anche un po’ di chiasso. Sicuramente è un film per pochi, apparentemente lento e ripetitivo, simile a un ragno che tesse la tela, che narra la relazione a sfondo erotico e feticistico tra una studiosa di farfalle, ricercatrice e docente universitaria, e una trentenne appassionata di lepidotteri di quindici anni più giovane. La vicenda si svolge in villa nella campagna inglese, dove la seconda serve la prima sempre occupata con i suoi studi. Il rapporto tra amanti diventa spesso una relazione serva-padrona. Interpretato essenzialmente dalla coppia: Sidse Babett Knudsen (Cynthia) e Chiara D’Anna (Evelyn) il film non ne disdegna i difetti, dalla gelosia ai possibili tradimenti, ma è soprattutto una sorta di teatro da camera in chiave gotico-erotica con rituali macabri. Le relazioni sessuali sono appena accennate, in maniera simbolica, tra due protagoniste non più adolescenti e molto coperte. I dialoghi a volte offrono sponde curiose, ma sono limitati al massimo in un film di immagini sorretto dalle musiche di Rob Entwistle e Martin Pavey.
Il secondo film in concorso al Festival è stato Plemya (La tribù), primo lungometraggio del quarantenne ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, autore di cinque cortometraggi premiati in molte rassegne. Un’opera insolita perché ambientata nel mondo della lingua dei segni. Il film non utilizza la parola, né ha bisogno di traduzioni e sottotitoli. La tribù indica un universo circoscritto, quello dei sordomuti, che costituiscono una sorta di gruppo speciale in seno alla comunità cittadina. In particolare si riferisce ad alcune bande di adolescenti che operano all’ombra di un istituto per sordomuti. Il film si apre con l’arrivo di un nuovo studente che sembra applicare i comportamenti delle caserme. Più recluta che studente, il giovane viene subito maltrattato dai compagni. Gli tolgono tutti i soldi e lo adoperano per piccoli traffici. Quando sono organizzati incontri di pugilato, il giovane riesce a farsi valere e ad entrare nella gang. Scopre non solo traffici illeciti, ma anche furti, violenze e, in combutta con l’insegnante di laboratorio che è anche l’amministratore e l’autista dell’istituto, sortite notturne nelle quale due ragazze vengono scortate nella zona sosta dei Tir dove si prostituiscono. Le adolescenti lo fanno a cuor leggero, ma quando il giovane s’innamora di una di loro, cominciano i guai. Dopo il primo rapporto sessuale, il ragazzo vieta alla donna di andare con altri uomini, costringendo gli studenti a toglierli l’incarico. A causa sua, la ragazza va incontro ad altri guai, ma appena lei compie diciott’anni, l’insegnante gli fa ottenere il passaporto e anche un visto per l’Italia. A questo punto il giovane va fuori di testa e programma una cruenta vendetta. Sicuramente un regalo per i sordomuti e anche per lo spettatore comune, che resta sorpreso dell’inutilità dei dialoghi in un film di 130 minuti che scorre senza intoppi. Il dramma è servito nel più completo silenzio, senza parole, né musica o senza nomi. Pur sprovvisto di clamori mette in evidenza comportamenti efferati che esplodono con fragore.
Singolare un altro film in concorso, Urok (La lezione) dei bulgari Kristina Grozeva e Petar Valchanov al loro debutto dopo un paio di corti. Ancora un istituto, questa volta una normale scuola superiore, nella provincia bulgara. In seguito a un piccolo furto in una classe delle medie, l’insegnante di inglese dice agli allievi che chi ha commesso il furto deve avere il coraggio di ammetterlo. Lo sostiene e desidera che i ragazzi capiscano, perché lei è onesta, leale e precisa in tutte le sue cose. Il marito però è un incapace, e ne ha conferma quando rischia di veder pignorata la casa perché lui invece di pagare le bollette, per mesi ha investito i soldi nel suo camper. A questo punto il film assume i toni del thriller perché la donna deve assolutamente trovare i soldi in un breve lasso di tempo, e deve farlo secondo coscienza come ha sempre insegnato ai suoi allievi. Purtroppo il marito non fa che complicare la situazione. Il padre potrebbe aiutarla, ma dopo la morte della madre si è messo con una poco di buono e hanno rotto i ponti. Non gli resta che lo strozzino, e ne incontra uno che più cravattaro di così non si può e si caccia in un mare di guai. A questo punto capisce che una cosa è l’insegnamento dell’etica, un’altra cosa la risoluzione dei problemi quotidiani. Superbamente interpretato da Margita Gosheva, e bravi anche tutti gli altri, il film dura centocinque minuti accattivandosi l’attenzione del pubblico in una sarabanda di alti e bassi di una donna di carattere che ha deciso di venire a capo del problema senza sottomettersi, né umiliarsi. Non è facile, per riuscirci dovrà rivedere le sue convinzioni.
Due film di lingua spagnola, uno in concorso l’altro nella sezione Open Horizons, visti al Festival. Prodotto da Spagna e Francia, Magical Girl (Ragazza Magica) di Carlos Vermut, nome d’arte di Carlos Lòpez del Rey, premiato autore di graphic novel, è un film elegante le cui immagini superano lo smalto delle riviste patinate. Dura 127 minuti, e li vale tutti facendo confluire quattro destini in vicende in bilico tra realtà e finzione. Luis, insegnante di lettere, in pensione da sei mesi, è costretto a vendere i suoi libri per arrotondare. Ha una bambina malata di leucemia e sa che il suo sogno è la veste magica di un famoso stilista giapponese, ma costa sette mila euro. Una sera incontra Barbara, giovane e bella signora psicolabile in cura dal marito psichiatra, e con lei ha un rapporto sessuale. Giorni dopo decide di ricattarla per comprare il vestito alla figlia: settemila euro o racconta tutto al marito. Barbara non ha soldi, ma tramite amicizie influenti, accetta una notte da prostituta di lusso e paga Luis. Quando la bambina riceve la veste, ringrazia ma non sorride. In effetti manca lo scettro della magia che costa ventimila euro. Luis ricatta di nuovo Barbara, ma questa volta per ottenere quella cifra la donna subisce sevizie in tutto il corpo e, invece di recarsi in ospedale, si accascia davanti all’uscio di casa del suo vecchio insegnante di matematica, appena uscito di prigione, e gli racconta tutto. L’uomo, che non voleva essere rimesso in libertà perché si sentiva più sicuro dentro che fuori, e ha sempre mantenuto un rapporto magico con l’ex allieva, non ha nulla da perdere e decide di vendicarla. Descritto in queste righe come un fumetto, che è poi il terreno principale dell’attività del regista, il film assomiglia a un gioco di carte che riserva sorprese, e qui le carte sono le scene non sempre allineate al racconto, ma apparentemente sparse. A volte al limite del grottesco, spesso dentro un immaginario da fiction, il film segue tuttavia una linea reale tracciata fin dall’inizio dalla spiegazione dell’allieva Barbara all’insegnante Damiàn, un superbo José Sacristàn, alla replica dell’anziano alla fine della parabola. Una citazione merita la fotografia di Santiago Racaj, e anche gli attori, da Barbara Lenny a Luis Bermejo.
Produzione minore, col sostegno di molte istituzioni e di produttori di Argentina, Colombia, Francia, Germania e Polonia, quella del film argentino Refugiado (Rifugiato) di Diego Lerman, trentottenne qui al quarto film, affronta il problema dei soprusi e delle angherie di molti mariti sulle mogli. Il film si apre con Matias, sette anni, di ritorno dalla festa di compleanno di un amico. A casa trova la madre dolorante stesa sul pavimento. Dopo un passaggio al pronto soccorso, lei è ospite per quarantotto ore di un centro di accoglienza per donne maltrattate. Racconta di essere stata brutalmente aggredita dal marito, e non è stato un fatto nuovo, ma questa volta in maniera ossessiva perché il coniuge non ha ritenuto sua la gravidanza della donna e l’ha accusata di avere una relazione col suo datore di lavoro. Terrorizzata, indebolita dalla gravidanza, Laura farà di tutto per sottrarsi alla persecuzione del marito. Da questo punto in poi il film si configura come un thriller con una donna in fuga, tallonata dal marito - padrone. La vediamo scappare col fiato in gola, tra molte incomprensioni e un bambino capriccioso, fino ad approdare a una casa di campagna dove la vecchia madre l’aiuterà a rifarsi una vita. Circa novanta minuti, pieni di suspense, per mostrare una di infinite storie di miserie e di violenze quotidiane. La protagonista, Laura, è Julieta Diaz.
Composta essenzialmente di prime e seconde opere, la sezione ufficiale del Festival privilegia quest’anno temi concernenti studenti e istituzioni scolastiche, e soprattutto i problemi della donna nella società contemporanea. Quelli contenuti nel secondo film dell’israeliano Asaf Korman, autore anche di sei corti, parlano di una giovane donna coraggiosa, Chelli, che preferisce prendersi cura di Gabby, la sorella disabile, invece di affidarla a un istituto. Lo fa malgrado la madre suggerisca di affidarla a terapeuti che si prendano cura di lei, e lo fa malgrado il suo lavoro a scuola che la separa per parte del giorno dalla sorella ventiquattrenne, dall’imprevedibile comportamento infantile. At ti layla (Vicino a lei), di cui abbiamo parlato anche dall’ultimo festival di Montpellier, racchiude in novanta minuti un breve periodo della vita delle sue sorelle e mostra la dedizione di Chelli, il suo affetto e il lavoro per proteggere la sorella da atti di autolesionismo. Al mattino la conduce in un centro di accoglienza, per riprenderla all’uscita da scuola e per passare con lei il resto del giorno, spesso guardando la Tivù. Una svolta si delinea quando a scuola arriva Zohar, supplente di educazione fisica. E’ attrazione reciproca. I due si mettono insieme, e lui, che vive con la madre in un miniappartamento, trasloca a casa di Chelli. La vita a tre non è facile, perché le sorelle avevano l’abitudine di dormire insieme e anche perché per lei è più importante l’affetto per la sorella dell’amore per il collega. Tuttavia i rapporti si stabilizzano. Il dramma esplode quando Chelli scopre che Gabby è incinta. Infuriata, mette alla porta Zohar e si ritrova sola e desolata. Un velo di tristezza copre le sue giornate, ma il vero dramma per lei sarà la scoperta del fatto che non è stato il suo fidanzato a ingravidare la sorella. Film lineare, premiato in alcuni Festival, e ben interpretato da Liron Ben-Shlush (Chelli), Dana Ivgy e Yaacov Daniel Zada.
Una donna è anche la protagonista di Risttuules (Il vento di traverso) del regista estone Martti Helde, ventisette anni e una dozzina di spot per la Tivù. Si chiama Erna, e insieme a circa mezzo milione di estoni, lettoni e lituani, venne deportata in Siberia il 14 giugno del 1941 in seguito alla pulizia etnica ordinata da Stalin. I prigionieri furono costretti a lavorare fino alla morte del dittatore, quando il comitato centrale decise che potevano tornare a casa. La loro vicenda è narrata attraverso le lettere che Erna spediva al marito Heldur, e che soltanto al suo ritorno, seppe che era morto cinque giorni dopo la deportazione. Io non comprendo – scriveva - cosa diavolo noi semplice gente abbiamo fatto all’immane Russia. Un regime non può rapinare tutte queste persone che credono in lui e che l’amano. Singolarità del film, girato in bianco e nero, rifiuta il movimento delle immagini a favore di una rappresentazione di quadri viventi. Dura ottantasette minuti e soltanto alcune sequenze legate ai ricordi felici della protagonista mostrano immagini in movimento. Durante quasi tutto il film la cinepresa scorre lieve davanti a pose statuarie di deportati al lavoro nella tundra e nei boschi siberiani, è la voce della protagonista, Laura Peterson, a condurre il racconto. Si direbbe un audiolibro con foto, anche se su grande schermo con paesaggi innevati e sconfinati boschi di betulle. Molto probabilmente la scelta del regista ha origine da una lettera di Erna, nella quale scrive: gli anni più belli della mia vita sono passati come se io fossi rimasta immobile. Per la cronaca: molti spettatori, impreparati per l’evento, hanno lasciato la sala. Sicuramente è un azzardo proporre un’interpretazione poetica del dramma della deportazione confidando più nel messaggio che nella messinscena.
In concorso al Festival due film nuovi di zecca, inediti persino in Scandinavia. Uno norvegese: Amnesia della trentatreenne Nini Bull Robsahm, l’altro svedese, Flugparken dell’ex ballerino e coreografo Jens Ostberg. Nini Bull Robsahm, già attrice e sceneggiatrice, mette a confronto due giovani, un lui e una lei in un’isola deserta. Sono marito e moglie. Thomas, scrittore di successo, Kathrine, scrittrice in erba, in vacanza nell’unico chalet dell’isola. Dopo una notte d’amore, a colazione si delinea un conflitto e si rivela il comportamento psicopatico di Thomas. Lei non vuole mostrargli il manoscritto del romanzo che sta scrivendo: lui insiste per leggerlo e correggerlo. Lei si difende affermando che essere un autore di best-seller non lo autorizza a invadere il suo mondo. Con uno scatto d’ira lui gli rimprovera il fatto che non hanno figli, e la aggredisce in maniera violenta. Nella colluttazione lui scivola, batte la testa e perde la memoria. Quando lui le chiede chi è e cosa fa in quel luogo, lei è perplessa, ma coglie l’occasione per nascondere i libri e l’identità del marito. Ora vorrebbe lasciare l’isola, ma Thomas ha delle intuizioni e lei non capisce quanta memoria abbia recuperato. Sorta di lotta tra gatto e topo, quando il marito diventa nuovamente violento, lei si difende con una piccola arma da taglio, ma lo scontro si protrarrà fino a quando uno dei due non uscirà di scena. Interpretato da Pia Tjelta e Christian Rubeck, e definito thriller psicologico, il film sembra chiedersi chi siamo, come siamo fatti e in relazione a chi e a che cosa. Dura settantaquattro minuti.
Se le cose non vanno bene in Norvegia, neanche nella Svezia del nord se la passano meglio. In Flugparken tutto ruota intorno a un giovane frustrato, Kille, ex campione di hockey. Una notte, il suo migliore amico e marito della sua ex fidanzata, ubriaco fradicio, gli chiede di seguirlo nel bosco vicino casa. Dopo una discussione, l’amico cade e lui se ne va. Interrogato sulla scomparsa dell’amico, Kille omette di averlo accompagnato nel bosco. Convinto che il bambino della sua ex sia suo, frequenta la casa di lei, ma quando la sue presenza diventa ossessiva, lei lo mette alla porta. Timido e gentile all’inizio, Kille diventa violento e litiga nel parco cittadino. Sembra riacquistare fiducia quando viene ritrovato il corpo dell’amico e il padre della vittima lo invita al funerale. Bevono insieme e lui ammette di essere stato nel bosco col figlio. L’anziano lo rassicura, gli dice che dopo una notte di riposo potranno andare dalla polizia e rivedere il verbale, ma intanto si offre di accompagnarlo a casa passando attraverso al bosco. E’ evidente che nel gelo del nord e in un piccolo centro non ci sia molto da divertirsi, ma è anche evidente che il regista ha messo in scena un mondo di soprusi e di violenze che da una parte rientra nelle finzioni cinematografiche e televisive, dall’altra potrebbe trarre ispirazione dalla assenza di luce e di calore che incide sul comportamento delle persone. In sintesi, un film di alti e bassi, lungo novantasette minuti, spesso prevedibile, a volte ripetitivo. Il protagonista, sbandato e irresoluto, è Sverrir Gudnason.
Domani sera i premi, oggi gli ultimi film in concorso al Festival, tra questi, alcuni già visti in altri Festival. Degli austriaci Veronika Franz e Severin Fiala, Ich seh, Ich seh, (Vedo, vedo) era a Cannes e al Fantastico di Sitges dove la vicenda dei due fratellini che non riconoscono la madre dopo un’operazione di chirurgia plastica in seguito a incidente nel quale è morto il padre, rientrava nello spirito del Festival. I due bambini, infatti, sono colpiti dal differente e duro comportamento della madre e non dalle modifiche del volto, e dopo essere stati maltrattati si rivoltano trasformandosi in aguzzini del tiranno. Visti e scritti dal Festival di Karlovy Vary due interessanti film in concorso: il messicano La tirisia di Jorge Pérez Solano e il russo Klass korrekzii (Classe di sostegno) di Ivan I. Tverdovsky. E a Karlovy Vary c’era anche l’inconcludente film greco Norviyia (Norvegia) di Yiannis Veslemes, qui in concorso insieme con un nuovo film greco Forget me not di Yannis Fagras. Purtroppo niente di nuovo nel cinema greco anche se il film parlato principalmente in inglese e ambientato tra New Orleans e l’Alaska mostra qua e là paesaggi originali. Secondo film dopo il premiato Sempre alla ricerca di morfina, questo origina il titolo da un fiore, Non ti scordar di me, e segue due personaggi, Alexis e Daphne, alla ricerca di un mito. Lui lo incontriamo in un bordello di New Orleans, dove ha fatto amicizie e da dove partirà in battello dal Pacifico allo stretto di Bering per compiere un’immersione in Alaska. Lei lo tallona rimandando il contatto al punto d’arrivo. In vista dell’Alaska un’altra donna, figlia di un magnate, raggiungerà in aereo Alexis. Road movie di centodue minuti, dove la strada è il mare, spesso in burrasca e sempre minaccioso, più che una storia è la cronaca di un lungo e pacato inseguimento. Yannis Stankoglou interpreta Alexis.
Non solleva le sorti del cinema greco neanche l’esordio del ventiduenne Théo Koutsaftis, nato in Francia e che in francese ha girato Sur toute la ligne (Su tutta la linea), qui presentato fuori concorso. Il film si svolge a Parigi dove tre ragazze di origine greca, non accettano che la morte di Tom, loro amico d’infanzia e ricercatore di una grande azienda farmaceutica, venga catalogata come morte per overdose. Si mettono a indagare e il film va avanti per ottantadue minuti descrivendo continui andirivieni e inseguimenti per le strade della città.
Unico film greco di livello, tra quelli visti, è sicuramente Stratos, quinto film del cipriota Yannis Oikonomidis. In anteprima alla Berlinale, e qui nella sezione del cinema nazionale, il film dura centotrentasette minuti riuscendo ad accattivarsi l’attenzione del pubblico attraverso le vicenda di un piccolo uomo insignificante, ma duro e leale. Un crimine passionale porta Stratos in prigione dove trascorre metà della sua vita. E ne esce vivo grazie alla protezione di Leonidas, un boss della mala. Ora si è rifatto una vita, e lavora ufficialmente di notte in una panetteria. Solo pochissimi intimi sanno che di giorno è un killer a pagamento. Quando Leonidas ha bisogno di soldi per fuggire dal carcere, Stratos consegna a Yorgos, fratello del boss, tutti i suoi risparmi. Però la felicità per aver saldato i conti con l’amico è breve. Un suo confidente gli dice che Leonidas è stato ucciso in carcere e che Yorgos è scappato con i soldi. Che fare? Vangelis Mourikis presta il volto a un coraggioso, smunto e taciturno Stratos, centro di un racconto teso, scritto da cinque sceneggiatori, e che potrebbe essere distribuito anche all’estero.
Miglior film - Alessandro D’oro Theo Angelopoulos
LA TIRISIA (Tristezza continua) di JORGE PEREZ SOLANO (Messico, 2014)
Premio speciale della giuria – Alessandro d’Argento
AT LI LAYLA (Vicino a lei) di ASAF KORMAN (Israele, 2014)
Premio speciale della giuria per originalità e innovazione – Alessandro di bronzo
UROK (La lezione) di KRISTINA GROZEVA, PETAR VALCHANOV (Bulgaria, Grecia – 2014)
Premio per la migliore regia
MYROSLAV SLABOSHPYTSKIY per PLEMYA (La tribù), (Ucraina, 2014)
Premio per la migliore sceneggiatura
KRISTINA GROZEVA, PETAR VALCHANOV per UROK (La lezione) di Kristina Grozeva, Petar Valchanov (Bulgaria-Grecia, 2014)
Premio alla migliore attrice
BROOKE BLOOM per la sua interpretazione in SHE’S LOST CONTROL (Lei ha perso il controllo) di Anja Marquardt (USA, 2014)
Premio al miglior attore
SVERRIR GUDNASON per la sua interpretazione in LUGPARKEN (Parco del Moscone) di Jens Östberg (Svezia, 2014)
Premio al contributo artistico
RISTTUULES (Il vento di traverso) di MARTTI HELDE (Estonia, 2014)
Premio Fipresci
Per il concorso internazionale:
ICH SEH, ICH SEH (Buonanotte Mamma) di VERONIKA FRANZ e SEVERIN FIALA (Austria, 2014)
Per la sezione del cinema greco
NORVIYIA (Norvegia) di YIANNIS VESLEMES (Grecia, 2014)
Menzione speciale a
POLK di NIKOS NIKOLOPOULOS e VLADIMIROS NIKOLOUZOS (Grecia, 2014)
Premio per i valori umani
KLASS KORREKZII (Classe di sostegno) di IVAN I. TVERDOVSKY (Russia-Germania, 2014)
Premio del pubblico
Per la sezione competitive internazionale a KLASS KORREKZII (Classe di sostegno) di IVAN I. TVERDOVSKY (Russia-Germania, 2014)
Per la sezione riservata al cinema greco – Premio MICHAEL CACOYANNIS a DARK ILLUSION (Illusioni nere) di MANOS KARYSTINOS (Grecia, 2014)
Per la sezione rassegna del cinema balcanico a TRI DRITARE DHE NJË VARJE (Tre finestre e un impiccato) di ISA QOSJA (Kosovo - Germania, 2013)
Per un film della sezione Orizzonti Aperti a THE LITTLE DEATH (La piccola morte) di JOSH LAWSON (Australia, 2014)
Premio Agora
Ai progetti:
KIDS FROM THE EAST (Bambini dell’Est) regia di Aramisova, produttore Michal Kračmer (Cinedix) (Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca)
TAILOR regia Sonia Liza Kenterman, produttrice Fenia Cossovitsa (Grecia)
TRAMONTANE (Tramontana), regia: Vatche Boulghourjian, produttore Georges Schoucair (Abbout Productions) (Libano)
Centro di scrittura dell’istituto per il film mediterraneo.
Premio al progetto KIDS FROM THE EAST (Bambini dell’Est) regia di Aramisova, produttore Michal Kračmer (Cinedix) (Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca)
Per il quarto anno consecutivo la società Initiative Film ha scelto il progetto di film greco: ARK regia Aristotelis Marangos, produttore Vasilis Chrysanthopoulos (Plays2place productions) (Grecia).
Inoltre la stessa società ha offerto una sessione di consulenza al progetto PACK OF SHEEP (Un gruppo di pecore) regia Dimitris Kanellopoulos, produttori Elina Psykou e Konstantina Stavrianou (Graal Films) (Grecia)
Premio Agora, lavoro in costruzione
Il premio GRAAL co-production, con una dotazione in servizi per immagini di post – produzione sino ad un ammontare di 70.000 euro, è stato assegnato al film SUNTAN, regia Argyris Papadimitropoulos, prodotto da Phaedra Vokali, Marni Films e Argyris Papadimitropoulos (Grecia)
Premio dell’associazione dei critici greci (PEKK)
TO MIKRO PSARI (STRATOS) di YANNIS ECONOMIDES (Grecia, Germania Cipro, 2014)
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