Festival di Cannes 2010 - Pagina 6

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Festival di Cannes 2010
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Biutiful
Biutiful

 

Cannes 6 - Lunedì 17 maggio 2010

Alejandro Gonzáles Iñarritu è un regista messicano che ha molto impressionato, soprattutto con il primo film: Amores perros (2000), storia del rapporto fra un ragazzo e un cane da combattimento. Il suo cinema non disdegna le immagini forti, ma le stempera in una malinconia che riguarda direttamente la difficoltà del vivere. Così è anche in questo Biutiful, presentato nella sezione competitiva. Lo scenario è quello dei quartieri poveri di Barcellona, qui campa malamente Uxbal, un caporale d’'immigrati di colore e cinesi che lucra sul lavoro che procura loro, ma non è privo di un suo senso si solidarietà e rispetto. Sin dalle prime inquadrature si capisce che fa questo feroce mestiere perché non ha la possibilità di fare altro. Del resto la vita non è stata generosa con lui: è separato di una giovane instabile di mente, che non disdegna il letto di suo fratello, e deve crescere due figli, il più piccolo dei quali mostra già segni di ribellione e irrequietezza. A completare il quadro gli arriva tra capo e collo una diagnosi di cancro alla prostata con connessa prognosi di un paio di mesi di vita. Un quadro tutt’altro che allegro che poggia, per buona parte, sulle spalle di Javier Bardem, non nuovo a ruoli di moribondi, si ricordi la parte scolta in Mare dentro (Mar adentro, 2004) di Alejandro Amenábar. In altre parole siamo davanti alla radiografia di un’'agonia e tutto ciò che accade intorno - i cinesi uccisi dalle stufe a gas, la moglie pazza, i rapporti con la polizia - ha funzione unicamente per la costruzione ed enunciazione della psicologia del personaggio. In questo l’'attore è davvero formidabile, ma non tanto da supplire quanto manca al film: la dimensione corale e una sceneggiatura non sempre debitamente robusta, almeno non tanto da reggere le quasi due ore e mezzo di proiezione.

 

Copia Conforme
Copia conforme

 

Uno dei crimini culturali di cui devono rispondere i regimi totalitari non è solo quello di impedire agli intellettuali di creare le loro opere, ma anche quello di costringere all’esilio e, in molti casi, molti creatori. La cosa viene in mente vedendo Copie conforme (Copia conforme) il film che Abbas Kiarostami ha girato in Toscana con capitali francesi e italiani, dopo che, nei fatti, gli è stato impedito, a lui come a moltissimi altri, di lavorare in Iran. Abbiamo parlato di sterilità poiché il film è perfetto dal punto di vista registico, forse solo un po’ sovrabbondante nei dialoghi, così come nella fotografia, ma è segnato da un gelo che gli impedisce di essere corpo vivo, se volete un’opera anche di pancia non solo di testa, diventando una costruzione meccanica, perfetta ma algida. Un esperto d’arte arriva ad Arezzo per il lancio di un suo libro dedicato a originali e copie. Un volume in cui si sostiene una tesi singolare che vorrebbe, in pittura, davvero primigeni solo i soggetti ritratti, perché già il dipingerli li trasformerebbe in una, magari migliore dell’originale, ma pur sempre una riproduzione. Dopo l’incontro con il pubblico lo scrittore partecipa a una breve gita con una mercantessa d’arte del luogo, ma a mano a mano che i due si perdono nella bellezza del borgo di Lucignano, scopriamo che sono marito e moglie, in crisi dopo quindici anni di matrimonio e impegni di lavoro diversi che hanno finito coll’allontanare l’uno dall’altra. Lei è la bravissima Juliette Binoche, sensuale e nel pieno della sua maturità. Lui è il grande baritono inglese William Shimme, in verità più prestante che bravo attore. In definitiva un film gelido e la cosa meraviglia vista la forza di una storia che avrebbe dovuto puntare proprio sui sentimenti. Un testo perfetto, ma distante.

 

Film socialismo
Film socialismo

 

Nella sezione Un Certain Regard è stata presentata l’ultima fatica del maestro Jean-Luc Godard: Film socialisme (Film socialismo). Questi è stato fra i capostipiti della nouvelle vogue e continua tenacemente a praticare un cinema antinarrativo per definizione. Le sue opere mettono insieme immagini, spezzoni di altri film, scritte sul genere di quelle dei film muti, brani televisivi e sequenze cinematografiche. Questo suo ultimo lavoro è diviso abbastanza nettamente in due parti. La prima mostra immagini di una crociera nel mediterraneo su una lussuosa nave della Costa Armatori. La prima cosa evidente è lo iato fra il pessimismo rivoluzionario e anticapitalista del discorso, seppure frammentato in cento battute e slogan, e le immagini patinate, pubblicitarie del grande albergo navigante. C’è in questo un conflitto che non è possibile sanare solo usando l’ironia come metro giustificativo. La seconda parte, poi, ritorna al modo di fare cinema pseudo - narrativo tipico di questo regista con una ministoria ambientata in un garage di provincia ove una teleoperatrice di colore (emblema dell’Africa?) sta realizzando con alcuni colleghi un servizio per la rete regionale francese. Difficile fare chiarezza, anche se un certo filo conduttore si può intravvedere nei molti ritorni di slogan e giochi di parole che arrivano direttamente dalle opere precedenti di questo cineasta. In definitiva è più una testimonianza del passato che qualche cosa di veramente nuovo.

 

Carancho
Carancho

 

La stessa cosa non può dirsi di Pablo Trapero, un regista argentino che aveva suscitato molte speranze quando esordì, nel 1999, con Mondo Grua (Mondo gru). Da quel momento si è assestato su un livello professionale alto, ma sempre inserito nel cinema di genere, preferibilmente poliziesco, pur con qualche incursione nel mondo della commedia sociale. Carancho (Uccello predatore) ha al centro un avvocato che collabora a truffare le assicurazioni e una giovane dottoressa tossicomane. S’incontrano, si amano e finiranno sanguinanti e moribondi dopo essersi scontrati con la mafia avvocatesco - poliziesca che ruota attorno ai falsi risarcimenti per incidenti stradali. Il film funziona abbastanza bene sul piano narrativo, ma si muove su binari prevedibili e già percorsi migliaia di volte.