12 Maggio 2010
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Cannes 5 - Domenica 16 maggio 2010
Bertrand Tavernier ha messo mano a uno dei più celebri romanzi francesi, La principessa di Clèves (La Princesse de Clèves, 1678), di Madame de La Fayette (1634 1693) ambientato in piena guerra di religione, esplose nel 1562 e proseguite, inframmezzate da periodi di tregua, fino al 1598, fra ugonotti (protestanti) e cattolici (papisti), questi ultimi guidati da Carlo IX (1550 1574), prima, e da Enrico III di Valois (1551 1589), poi. Un conflitto che troverà momenti di ferocia inaudita, come il massacro di molti protestanti perpetrato, per opera dei seguaci del duca Enrico di Guisa (1550 1588), il primo marzo 1562. Ribattezzando il racconto La Princesse de Montpensier (La principessa di Montpensier) il regista compie una scelta ancor più in favore di unattenzione primaria verso le vicende sentimentali di questa nobildonna bellissima, innamorata del rampollo del Duca di Guisa e malmaritata dal padre al rampollo dei Montpensier. Tutto intorno, combattimenti ed eccidi debitamente registrati in maniera quasi realistica, vale a dire con abbondanza di sangue, arti divisi dal corpo, agonie da colpi la lancia e spada. Bisogna dire che la cosa sorprende non poco venendo da un cineasta che ci aveva abituati a un contatto forte con lattualità o alla rivisitazione del passato in chiave di lettura politica o immagine del presente. Qui quei propositi appaiono abbandonati quasi del tutto in favore di un buon prodotto spettacolare, abilmente girato, spruzzato di richiami generici alla tolleranza e contro la violenza bellica. In poche parole è una mezza delusione per un testo di pregevole fattura ma di lieve spessore politico e civile.
Il secondo film in concorso della giornata era Outrage (Oltraggio) del giapponese Takeshi Kitano che ritorna alle sue amate vicende di yakuza con una storia spinta allestremo, piena di ammazzamenti, botte e sangue. Poco vale la trama, la solita storia di scalata al potere di unorganizzazione criminale, e, persino, la caratura del personaggio interpretato dallo stesso regista, ciò che conta è il diluvio di spari e cazzotti, agguati e uccisioni a tradimento. Questautore sembra davvero aver estenuato il suo mondo sino a renderlo qualche cosa di surreale, ma un surreale involontario. Forse tanto grand guignol troverà il suo pubblico, ma lo farà nella stessa direzione in cui si avventura Quentin Tarantino e senza neppure un sospetto dironia.
La sezione Un Certain Regard ha confermato di essere fra i luoghi del Festival quello in cui è più facile incontrare film dalto livello. Lha testimoniato Pál Adrienn dellungherese Ágnes Kocsis, un preciso e doloroso ritratto, lungo oltre due ore e un quarto, della solitudine e quieta disperazione di uninfermiera, brutta e grassa, che lavora nella sezione femminile del reparto incurabili in un ospedale di Budapest. La donna passa i giorni ingurgitando dolci e guardando i monitor che registrano il battito cardiaco dei degenti, ma sono più le volte che, quando accorre, è per trasportare salme in obitorio che quelle in cui da un qualche sollievo. Un giorno le capita, come paziente in coma, una donna i cui documenti dicono chiamarsi Pál Adrienn, stesso nome di una sua vecchia amica dinfanzia. La cosa le fa scattare la voglia di ritrovare la compagna, forse solo per dare un significato a unesistenza rimasta ancor più vuota dopo che il marito, un tipetto ben poco simpatico che passe il tempo libero alla costruzione di un enorme plastico ferroviario, lha abbandonata senza lasciare recapito. Da un ex - compagno a unanziana maestra è un ripercorrere a ritroso la strada della vita e, nello stesso tempo, saggiare i destini diversi di una medesima generazione. Alla fine riuscirà a scoprire dov'è finita lamica di un tempo, ma si accorgerà anche di non avere più voglia di parlarle. Forse ora ha raggiunto una minima pace e non a caso il film si chiude con limmagine del tracciato di un cuore (il suo?) che batte. E un film in cui quasi non accade nulla, ma che mantiene viva una tensione forte e struggente. Unopera ricca dimmagini non certo tranquillizzanti, ma che si accettano come parte necessaria di un racconto, immerso in luci marcescenti e livide, ma percorso anche da un sottilissimo filo di speranza. Davvero molto bello.
Il secondo titolo in cartellone in questa sezione era un documentario su Shanghai, Hai shang chuan oi (Io desidero, io so), firmato da Jia Zhangke. La storia della megalopoli è ricostruita, dalla fine dell'ottocento ai giorni nostri, attraverso testimonianze di gente comune, artisti, professori universitari. E un metodo non originalissimo, ma che approda a un risultato sociologicamente interessante, anche se artisticamente meno robusto di quanto era lecito attendersi.
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