Festival di Cannes 2010

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Festival di Cannes 2010 - Giorno per giorno. 12-23 maggio 2010

Cannes 1 - Mercoledì 12 maggio.

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Il Festival del Film di Cannes, maggiore manifestazione filmica d’'Europa, è giunto alla 63ª edizione che affronta con la solita alluvione di titolo spersi fra le sezioni ufficiali (Concorso, Un Certain Regard, Fuori Concorso, Cortometraggi, Cinefondation), iniziative collaterali autonome (Semaine de la Critique, Quinzaine des Réalisateurs) e, soprattutto il mercato. E' questo il vero cuore di un’iniziativa che da anni ha imboccato la strada del grande appuntamento con produzione e il commercio di film. Basta osservare gli spazzi fisici in cui si articola il festival per rendersi conto dei rapporti di forza. Quello riservato alle proiezioni ufficiali, infatti, è sicuramente minoritario rispetto alle aree e sale a disposizione del Marché. Per quanto riguarda il complesso del cartellone ufficiale esso appare costruito secondo un abile bilanciamento fra opere e registi di forte richiamo commerciale, affermati maestri del cinema, autori già sperimentati e nuove leve. Appartengono al primo gruppo il film d’'apertura, Robin Hood nella versione di Ridley Scott, Outrage del giapponese Takeschi Kitano, Utomlyonnye Solntsem 2 (Sole ingannatore 2 -– L'’esodo) del potente regista russo Nikita Mikhalkov, Incontrerai uno straniero altro e bruno (You Will Meet A Tall Dark Stranger) di Woody Allen, Wall Street - Money Never Sleeps (Wall Street - Il denaro non dorme mai) di Oliver Stone. Numerosi gli autori affermati che ritornano sulla Croisette, per citarne solo alcuni ricordiamo Biutiful, di Alejandro González Iñárritu, Copia conforme (Copie Conforme) di Abbas Kiarostami, Un altro anno (Another Year) di Mike Leigh, La principessa di Montpensier (La Princesse De Montpensier) di Bertrand Tavernier, Lo strano caso di Angelica (O Estranho Caso De Angélica) di Manoel De Oliveira, Film Socialisme (Film socialismo) di Jean-Luc Godard, Tamara Drewe di Stephen Frears, Chantrapas di Otar Iosseliani. C’'è, poi, un buon numero di autori provenienti dall'’estremo oriente (Wang Xiaoshuai, Apichatpong Weerasethakul, Hong Sangsoo, Jia Zhang-Ke, Vikramaditya Motwane). La presenza italiana è scarsa, con un solo film in concorso, La nostra vita di Daniele Luchetti, e l'’inventiva antiberlusconiana di Sabina Guzzanti: Draquila - L'Italia Che Trema.


Robin Hood
Robin Hood

 

Dopo decine di approcci dai connotati più diversi, dal comico all’'avventuroso vecchia maniera, – ecco ora una versione miliardaria e supertecnologica del mito di Robin Hood, l'eroe popolare inglese che, nel'l’immaginario collettivo, ruba ai ricchi per donare ai poveri. Com’è noto si tratta di una figura fra lo storico e il leggendario che, probabilmente, nasce dall'’unione fra l'’immagine di un nobile sassone decaduto mescolata a leggende nate attorno ad un immaginario dio della foresta. In ogni caso è un personaggio che, con lo scorrere degli anni, ha assunto connotazioni e significati diversi, passando dal classico folletto dei boschi, tanto da essere battezzato Satana dai primi cattolici che tentarono anche di cancellarne la memoria, sino alla figura positiva dei giorni nostri. Come abbiamo detto questa è la versione miliardaria e super-tecnologica firmata da Ridley Scott che ha completamente tralasciato la tradizione che vede questo eroe impegnato, con un pugno di amici, a vivere nei boschi. Questa volta l’'ottica precede i temi classici per avventurarsi negli anni in cui quest'eroe aveva nome Robin Longstride ed era uno dei capi arcieri dell'armata guidata da Riccardo Cuor di Leone (1157 - 1199). Lui aveva seguito il sovrano anche durante la terza Crociata e finì con l'opporsi al fratello, Giovanni Senza Terra (1166 -1216), che gli era succeduto nel regno. Robin, nella versione del regista anglo – americano, diventa l'artefice principale, con la compagna Marianna, della sconfitta del re francese Filippo II che tentava d'invadere l'Inghilterra. Secondo il film, fu sempre Robin a costringere il sovrano plantageneto a concedere la Magna Charta (1215), primo documento che sanciva i diritti dei sudditi. Ci sarebbe materia per un discorso ampio e originale sia su questa figura leggendaria, sia sulla storia dell'Inghilterra, sennonché il regista si limita a confezionare il solito polpettone generico, pieno di sangue e battaglie. Stupisce che la direzione di una manifestazione importante come il Festival di Cannes, si sia prestata a un lancio pubblicitario, non c'è davvero altra ragione per la proiezione del film come opera d’apertura, un prodotto davvero modesto.

 


Cannes 2 - Giovedì 13 maggio 2010

La sezione competitiva del Festival si è aperta con un film francese che tale non potrebbe essere di più. Tournée è il quarto lungometraggio diretto dall'attore e regista Mathieu Almaric che suggestionato, come lui stesso a confessato, dal romanzo I retroscena del music-hall (L'envers du music-hall, 1913) di Colette (Sidonie-Gabrielle Colette, 1873 – 1954), racconta di un produttore televisivo di successo che, giunto ai 40 anni, abbandona ogni cosa, vola in America e mette su una compagnia di spogliarelliste che riporta in Francia con il miraggio di un grande esordio a Parigi. La spedizione naufraga fra difficoltà economiche, scomparsa di teatri già prenotati e la poca grazia delle corpulente e mature ballerine. Quando tutto sembra sul punto di sfasciarsi, la provvidenziale sosta in un albergo sulla costa atlantica rimette le cose a posto, fa nascere un nuovo sentimento fra l'impresario e una delle spogliarelliste, apre uno squarcio (provvisorio?) di sereno in un cielo che sembrava sistematicamente votato al tempestoso. Dicevamo di opera tipicamente francese, in quanto i dialoghi vi hanno un ruolo importante e colto, nel senso che non sono mai banali anche se spesso sfiorano la leziosità. Allo stesso modo una nota di merito va alle interpreti, tutte provenienti dalla nuova giovinezza, esplosa ai primi anni novanta, del Burlesque, un tipo di spettacolo nato nella seconda metà dell'ottocento, nell'Inghilterra vittoriana, poi emigrato, con grande successo, negli Stati Uniti. E' un genere in cui confluiscono ironia e donne poco vestite, battute salaci e giochi d'abilità. Un ritorno al passato che il regista usa come ingrediente forte per un ritratto, non originalissimo, di una difficoltà del vivere priva di specifiche ragioni.

Wang Xiaoshuuai è uno di quegli autori che condividono il favore dei festival e la diffidenza degli uffici censura dei paesi in cui sono nati. Non uno degli otto titoli che ha girato sinora, in un periodo che va dal 1993 (all’epoca aveva 27 anni) al 2008, è passato indenne tra le maglie dell’ufficio di controllo cinematografico, tutti sono stati ostacolati, proibiti, costretti a essere rimontati. La cosa non sorprende perché questo regista ama affrontare problemi e situazioni vere, spesso tratte da fatti di cronaca. In compenso tutte le sue opere sono state accolte con entusiasmo dalla critica e spesso premiate dai maggiori festival internazionali. Anche Chongqing Blues (I blues di Chongqing) prende spunto da un fatto di cronaca e racconta di un capitano di mercantile che ritorna alla sua prima famiglia dopo essere stato molti anni in mare e aver saputo che suo figlio è stato ucciso dalla polizia. Il ragazzo, sconvolto dall’abbandono della compagna, ha ferito alcuni addetti alla sorveglianza di un grande magazzino e preso in ostaggio una dottoressa che vi si trovava per fare compere. Il lungo percorso di accertamento dei fatti servirà per mettere in luce il rapporto di amore - odio che lo legava al genitore e, cosa particolarmente importante, a dare un quadro della Cina moderna con tutte le sue ricchezze e miserie, la corsa ai consumi e la povertà di molti, lo smarrimento degli anziani, vissuti sotto il regime maoista, e il disadattamento dei giovani immersi in un orizzonte privo di coordinate sicure e punti fermi. Attori bravissimi e un montaggio preciso danno al film un tono particolarmente importante e svelano non poche cose sul tessuto profondo di quel paese. A proposito di questo si noti la scelta dell’ambientazione nella città di Chongqing, centro della Cina continentale e capoluogo di un distretto che, con trentatré milioni di abitanti, è il più popoloso del paese.

 

La camerriera
La camerriera

 

Nel 1960 il regista coreano Ki-young Kim diresse Hanyo, film destinato a rimanere il suo capolavoro. Quaranta anni dopo Im Sang-soo riprende il tutto per realizzare un rifacimento, il titolo internazionale è La cameriera, molto elegante, accurato, ma sostanzialmente privo d’anima. Una giovane è assunta come domestica al servizio della moglie di un ricco funzionario governativo. La donna sta aspettando due gemelli, è viziata e convinta che ogni cosa le sia dovuta. La casa è lussuosa, il trattamento principesco, gli ordini sopportabilmente arroganti, tuttavia le cose sono rovinate dalla lussuria del padrone convinto di poter fare ciò che vuole della servetta. Quando questa rimane incinta, ci si mette anche la suocera a tentare di ucciderla. Finale tragico con la ragazza che s’impicca e dà fuoco per vendicare il figlio che è stata costretta ad abortire e imprimere, nella memoria della figlia minore della coppia ricca, l’orrore di cui sono stati capaci i genitori. Immagini molto belle, eccessiva lunghezza, raffinatezza di tocco per un film che non dice quasi nulla né sull’ambiente in cui è immerso, né sulla psicologia profonda dei personaggi.

 

Lo strano caso di Angelica
Lo strano caso di Angelica

 

Ha preso il via anche la sezione collaterale Un Certain Regard, quella in cui i dirigenti del festival relegano, in una sorta di limbo, i titoli che non ritengono utili alla competizione. L’apertura è avvenuta alla grande con O estranho caso de Angélica (Lo strano caso di Angelica) del maestro Manoel De Oliveira. Arrivato alla verde età di 102 anni (!) questo portoghese arguto e vulcanico continua a dirigere film che paiono usciti dalla macchina da presa di un ragazzino, tanto sono originali e diversi l’uno dall’altro. In questo caso si è rifatto a un suo vecchio soggetto progetto, scritto nel 1952 e mai realizzato. Un fotografo ebreo (si pensi all’epoca e a quanti israeliti arrivavano in Portogallo con la speranza d’imbarcarsi per gli Stati Uniti) è chiamato a notte fonda per scattare alcune fotografie alla salma di una bellissima giovane, deceduta poco prima. Mentre fa il suo lavoro è ammaliato dalla grazia della defunta al punto di vederla sorridere al suo obiettivo. Da questo ne nasce un innamoramento che lo porterà alla morte per consunzione nella ricerca di un modo per raggiungere l’amata. Lo stile è quello abituale a quest’autore fatto di scenari precisi sino all’imitazione della pittura al cui interno si sviluppano tensioni e conflitti che, tuttavia, non raggiungono mai toni parossistici, ma rimangono al livello delle cose dette con grazia e quasi indifferenza. E’ un tipo di cinema che richiede molta pazienza da parte dello spettatore, ma che lo compensa con una poesia e una grazia che davvero non hanno prezzo.

 

Martedì dopo Natale
Martedì dopo Natale

 

Il cinema rumeno è fra i più vivaci sulla scena mondiale, per cui quasi tutti i festival cercano di accaparrarsene quanti più titoli possibili. Ecco allora Marti, dupa Craciun (Martedì, dopo Natale) di Radu Muntean in cui è radiografata, con toni quasi da cinema – verità, una crisi coniugale. Paul e Adriana sono sposati da dieci anni e hanno una figlia di otto, vivono senza troppi problemi economici, anche se lui fa un lavoro un po’ misterioso e ha a che fare con banche e dossier sospetti. Un giorno lui s’innamora di una giovane dentista, perde la testa e, dopo qualche mese, confessa tutto alla moglie, proprio alla vigilia di Natale con tanto di pranzo di famiglia, albero e regali in salotto. Il film non dice altro, non si schiera per nessuna delle parti, descrive con toni appassionati il nuovo amore, ma non ne fa oggetto di scandalo erotico. E’ un ritratto di normalità in un interno che la dice lunga sugli sbandamenti delle nuove generazioni e sulla perdita di punti di riferimento, anche personali. Davvero un bel film.

 


 

 

Wall Street - Il denaro non dorme mai
Wall Street: il denaro non dorme mai

 

Cannes 3 - Venerdì 14 maggio 2010

Oliver Stone (1946) non è mai stato un maestro di cinema nel senso pieno del termine, ha diretto qualche film passabile, ma si è sempre mantenuto sul filo delle opere rivolte all’attualità, magari criticandola (Platoon, 1986), voltandola all’agiografia seppur mascherata da critica (Nixon, 1995 - JFK, 1991 - W, 2008) oppure mettendo mano a colossi storici come Alexander (2004). Wall Street: Money Never Sleeper (Wall Street: il denaro non dorme mai) fa parte di questo cinema, più precisamente del filone che cavalca o tenta di cavalcare l’attualità. Il condizionale deriva dal fatto che questo centone ricco e magniloquente vorrebbe affrontare il tema della grande crisi economica di due anni or sono, ma sbocca in un melodrammone confuso e ridondante. La storia riprende il filo del primo Wall Street, quello che terminava con l’arresto e la condanna del faccendiere Gordon Gekko. Lo ritroviamo quando, nel 2001, esce solitario dalla prigione dopo aver scontato otto anni di detenzione. Poche stagioni ancora e rieccolo sulla breccia, ha scritto un libro di successo in cui si denunciano i pericoli della bolla speculativa che è in corso e vive da nababbo con il solo cruccio della figlia che non ha voluto più aver a che fare con lui dopo la morte, per overdose, del fratello. Ora la ragazza, un promettente architetto, vive con un altro trader finanziario che ha il pallino delle energie pulite e il rispetto dell’ambiente. Il vecchio marpione si fa vivo in ogni modo e convince la figlia a riallacciare i rapporti, salvo poi imbrogliare anche lei carpendole la firma per sbloccare un centinaio di milioni di dollari che aveva messo al sicuro in Svizzera prima di andare in galera. Dopo i prevedibili alti e bassi tutto finirà in gloria, con il vecchio trafficante quasi convinto all’ecologismo e il giovane che riesce a vendicare, finanziariamente, il suicidio di un suo mentore rovinato da un tipaccio ancor più spregiudicato del futuro suocero. E’ un melodramma pesante, verboso che maschera dietro un diluvio di termini tecnici una spaventosa pochezza d’analisi. Se qualcuno pensasse di capire anche solo qualche briciola della crisi che ancor oggi viviamo, rinunci a vedere questo polpettone indigesto e si affidi a qualche buon libro.

 

Aurora
Aurora

 

Oggi non c’erano film in concorso, quello di Oliver Stone era un gentile omaggio pubblicitario alla produzione, mentre abbiamo visto due opere della sezione Un Certain Regard. Abbiamo già ricordato il momento di particolare fortuna attraversato dal cinema rumeno. Una nuova conferma è venuta da Aurora, ultima fatica di Cristi Puiu che ne interpreta anche il ruolo principale. Come il precedente Moartea domnului Lazarescu (La morte del signor Lazarescu, 2005), che ha ottenuto il premio di questa sezione nell’edizione del 2005, anche il nuovo film ha un andamento lento, attento ai piccoli gesti del quotidiano, ai lunghi silenzi interrotti da atti di grande violenza, mai mostrati in modo compiaciuto. La storia è quella dei due giorni nella vita di un ingegnere siderurgico turbato dal divorzio con la moglie, rancoroso verso i suoceri e il notaio che ha indotto la donna a lasciarlo. Meditabondo, cupo, solitario attraversa le ore con gesti che sembrano insensati, ma che hanno fini precisi: l’uccisione dei suoi nemici. Compirà la strage e si consegnerà alla polizia, quasi adempiendo a un rituale burocratico, lo stesso che lo accoglie fra le mura del commissariato. Indifferenza, malessere esistenziale, difficoltà di rapporto con gli altri, tutto questo rimpolpa un film di grande forza che chiede allo spettatore la pazienza necessaria a seguirne i tempi narrativi consegnando, alla fine, un ritratto disperato e impietoso in cui brillano persino alcuni frammenti d’ironia. E’ davvero un film importante e di grande spessore.

 

Chatroom
Chatroom

 

Hideo Nakata è un cineasta giapponese particolarmente attratto dal surreale per cui era quasi inevitabile che finisse col confrontarsi con il mondo virtuale. Chatroom oscilla continuamente fra realtà e mondo del computer, raccontando l’amicizia e la ferocia che percorrono un gruppo di adolescenti che trovano nella rete il solo nodo d’incontrarsi e confrontare i propri problemi. La confezione è debitamente allucinata, i passaggi dalla realtà al mondo virtuale quasi mai chiari, in definitiva un film che lascia molto insoddisfatti.

 


 

 

Un altro anno
Una altro anno

 

Cannes 4 - Sabato 15 maggio 2010

La giornata si è aperta con due bei film sulla famiglia. Ha iniziato l’inglese Mike Leight presentando, in concorso, Another Year (Un altro anno) con al centro quella che potremmo definire la famiglia perfetta. Gerri è psicologa e lavora in una struttura pubblica, Tom è geologo e sta collaborando ai carotaggi per la costruzione di una nuova fognatura londinese. Vanno d‘'amore e d’'accordo, amano la buona cucina, coltivano un orto biologico e curano i fiori in giardino, sono tranquilli e privi di problemi, il figlio sta percorrendo la sua strada, è andato via di casa, ma mantiene ottimi rapporti con loro. Attorno, un mondo che pare impazzito fatto com’'è di persone insicure, infelici, sfortunate, incapaci di reggere il ritmo della vita. S'’inizia con una casalinga che vuole le siano prescritti dei sonniferi, altrimenti non riesce a dormire e il sonno è il solo momento in cui può allontanarsi da una vita infelice. Si prosegue - sarà uno delle assi del film - con la donna stagionata ma ancora velleitaria, incapace di fare qualsiasi cosa pratica, tranne il lavoro d'’ufficio, pessima cuoca, innamorata insensatamente del figlio della coppia felice. Si procede con il fratello di Tom annichilito dal dolore per la morte della moglie e in pieno conflitto con il figlio. Tutto questo è cadenzato dallo scorrere delle stagioni, dalla primavera all'’inverno. Forse non è l’'opera migliore di questo regista che spesso si è rivolto a temi di forte impatto sociale come Tutto o niente (All or Nothing, 2002) o Il segreto di Vera Drake (Vera Drake, Leone d’'Oro alla Mostra di Venezia 2004), ma che non ha mai disdegnato la commedia o, persino, il biografico - musicale (Topsy-Turvy, 1999). Questa volta il disegno riguarda, in particolare la borghesia medio - alta. Nessuno dei personaggi ha veri problemi economici, ma tutti - tranne la coppia catalizzatrice - sono preda a malesseri e a triboli esistenziali che rendono loro difficile il vivere. In questo modo finiscono coll’'assumere un ruolo di protagonisti relegando sullo sfondo quelli che, a prima vista, appaiono al centro del film. Questo nel senso che le figure di questi uomini e donne .turbati e insicuri. costruiscono qualche cosa di molto vivo e si trasformano nei veri poli d’'attrazione per lo sguardo dello spettatore.

 

Incontrerai uno straniero alto e bruno
Incontrerai uno straniero alto e bruno

 

Vita familiare anche per You Will Meet a Tall Dark Stranger (Incontrerai uno straniero alto e bruno), ultima fatica di Woody Allen, presentata fuori concorso. Lo scenario e quello della Londra dell’alta borghesia cui appartengono due coniugi che si separano a causa dei pruriti giovanilisti del marito. La moglie cade preda di una medium cialtrona quanto abile, la figlia è costretta a scegliere il lavoro per far quadrare il bilancio familiare, poiché il marito, laureato in medicina, non porta a casa un soldo assorto com’è nello scrivere un romanzo che, secondo lui, farà epoca. La giovane, che ha trovato lavoro in una galleria d’arte, finisce ben presto preda del fascino del proprietario, mentre il marito si perde dietro le grazie di una bella vicina che ha intravvisto dalla finestra. Dopo varie peripezie tutto potrebbe aggiustarsi - il marito anziano in smanie scopre i tradimenti della giovane, nuova moglie e lo scrittore rischia di essere smascherato, visto che ha presentato come suo un libro di un altro autore che credeva morto - sennonché non tutto quadra e, forse la falsa veggente non ha sbagliato del tutto i pronostici. Il film è accompagnato da una voce narrante che apre e chiude citando una verso del Macbeth di William Shakespeare ((la vita è solo un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla - Atto V, scena 5^), come dire che siamo in balia di forze che non riusciamo a controllare, anche se crediamo di poterlo fare. Il film è lieve, melanconico, usualmente perfetto nella confezione e privo di qualsiasi elemento comico. E’ una bella proposta su cui converrà ritornare.

 

L'uomo che grida
L'uomo che grida

 

Il secondo film in concorso era una di quelle opere davanti alla quali ci si toglie di cappello come omaggio alla generosità e, in un certo senso, al candore. Un homme qui crie (Un uomo che grida) porta la firma di Mahamat-Saleh Hardoun, è il primo film che viene, almeno in parte, dal Ciad - è una coproduzione di questo paese con Francia e Belgio - e racconta il calvario di un padre, un tempo campione locale di nuoto, che perde il lavoro e il figlio che, in un momento di smarrimento, consegna dalla sanguinosa guerra che ha travolto il territorio di questa nazione sin quasi ai primi anni 2.000. Sono intenti generosi legati a un sano desiderio di pace e fratellanza, sentimenti un po’ troppo generici per consentire allo spettatore di capire qualche cosa di questa lunga e sanguinosa tragedia. Nel film i contendenti sono genericamente identificati come ribelli, senza dire che si trattava di libici, così come si parla, altrettanto genericamente, di governativi dimenticando l’importante supporto offerto al presidente Hissène Habré da francesi e americani. In poche parole è un testo generoso e pacifista, non certo un film indimenticabile.

 

La città al disotto
La città al disotto

 

Nella sezione Un Certain Regard è stato presentato uno strano film tedesco: Under Dir Die Stadt (La città al disotto) di Christoph Hochhäuste. Un’opera che inizia come una storia d’adulterio, fra un potente banchiere e la moglie di un suo funzionario, per assumere, nell’estremo finale, i toni quasi da profezia rivoluzionaria. Detto in due parole è un pasticcio non privo d’eleganza formale, ma scombinato e di non facile decifrazione.

 


 

 

La principessa di Montpensier
La principessa di Montpensier

 

Cannes 5 - Domenica 16 maggio 2010

Bertrand Tavernier ha messo mano a uno dei più celebri romanzi francesi, La principessa di Clèves (La Princesse de Clèves, 1678), di Madame de La Fayette (1634 – 1693) ambientato in piena guerra di religione, esplose nel 1562 e proseguite, inframmezzate da periodi di tregua, fino al 1598, fra ugonotti (protestanti) e cattolici (papisti), questi ultimi guidati da Carlo IX (1550 – 1574), prima, e da Enrico III di Valois (1551 – 1589), poi. Un conflitto che troverà momenti di ferocia inaudita, come il massacro di molti protestanti perpetrato, per opera dei seguaci del duca Enrico di Guisa (1550 – 1588), il primo marzo 1562. Ribattezzando il racconto La Princesse de Montpensier (La principessa di Montpensier) il regista compie una scelta ancor più in favore di un’attenzione primaria verso le vicende sentimentali di questa nobildonna bellissima, innamorata del rampollo del Duca di Guisa e malmaritata dal padre al rampollo dei Montpensier. Tutto intorno, combattimenti ed eccidi debitamente registrati in maniera quasi realistica, vale a dire con abbondanza di sangue, arti divisi dal corpo, agonie da colpi la lancia e spada. Bisogna dire che la cosa sorprende non poco venendo da un cineasta che ci aveva abituati a un contatto forte con l’attualità o alla rivisitazione del passato in chiave di lettura politica o immagine del presente. Qui quei propositi appaiono abbandonati quasi del tutto in favore di un buon prodotto spettacolare, abilmente girato, spruzzato di richiami generici alla tolleranza e contro la violenza bellica. In poche parole è una mezza delusione per un testo di pregevole fattura ma di lieve spessore politico e civile.

 

Oltraggio
Oltraggio

 

Il secondo film in concorso della giornata era Outrage (Oltraggio) del giapponese Takeshi Kitano che ritorna alle sue amate vicende di yakuza con una storia spinta all’estremo, piena di ammazzamenti, botte e sangue. Poco vale la trama, la solita storia di scalata al potere di un’organizzazione criminale, e, persino, la caratura del personaggio interpretato dallo stesso regista, ciò che conta è il diluvio di spari e cazzotti, agguati e uccisioni a tradimento. Quest’autore sembra davvero aver estenuato il suo mondo sino a renderlo qualche cosa di surreale, ma un surreale involontario. Forse tanto grand guignol troverà il suo pubblico, ma lo farà nella stessa direzione in cui si avventura Quentin Tarantino e senza neppure un sospetto d’ironia.

 

Pál Adrienn
Pál Adrienn

 

La sezione Un Certain Regard ha confermato di essere fra i luoghi del Festival quello in cui è più facile incontrare film d’alto livello. L’ha testimoniato Pál Adrienn dell’ungherese Ágnes Kocsis, un preciso e doloroso ritratto, lungo oltre due ore e un quarto, della solitudine e quieta disperazione di un’infermiera, brutta e grassa, che lavora nella sezione femminile del reparto incurabili in un ospedale di Budapest. La donna passa i giorni ingurgitando dolci e guardando i monitor che registrano il battito cardiaco dei degenti, ma sono più le volte che, quando accorre, è per trasportare salme in obitorio che quelle in cui da un qualche sollievo. Un giorno le capita, come paziente in coma, una donna i cui documenti dicono chiamarsi Pál Adrienn, stesso nome di una sua vecchia amica d’infanzia. La cosa le fa scattare la voglia di ritrovare la compagna, forse solo per dare un significato a un’esistenza rimasta ancor più vuota dopo che il marito, un tipetto ben poco simpatico che passe il tempo libero alla costruzione di un enorme plastico ferroviario, l’ha abbandonata senza lasciare recapito. Da un ex - compagno a un’anziana maestra è un ripercorrere a ritroso la strada della vita e, nello stesso tempo, saggiare i destini diversi di una medesima generazione. Alla fine riuscirà a scoprire dov'è finita l’amica di un tempo, ma si accorgerà anche di non avere più voglia di parlarle. Forse ora ha raggiunto una minima pace e non a caso il film si chiude con l’immagine del tracciato di un cuore (il suo?) che batte. E’ un film in cui quasi non accade nulla, ma che mantiene viva una tensione forte e struggente. Un’opera ricca d’immagini non certo tranquillizzanti, ma che si accettano come parte necessaria di un racconto, immerso in luci marcescenti e livide, ma percorso anche da un sottilissimo filo di speranza. Davvero molto bello.

 

Io desidero, io so
Io desidero, io so

 

Il secondo titolo in cartellone in questa sezione era un documentario su Shanghai, Hai shang chuan oi (Io desidero, io so), firmato da Jia Zhangke. La storia della megalopoli è ricostruita, dalla fine dell’'ottocento ai giorni nostri, attraverso testimonianze di gente comune, artisti, professori universitari. E’ un metodo non originalissimo, ma che approda a un risultato sociologicamente interessante, anche se artisticamente meno robusto di quanto era lecito attendersi.

 


 

 

Biutiful
Biutiful

 

Cannes 6 - Lunedì 17 maggio 2010

Alejandro Gonzáles Iñarritu è un regista messicano che ha molto impressionato, soprattutto con il primo film: Amores perros (2000), storia del rapporto fra un ragazzo e un cane da combattimento. Il suo cinema non disdegna le immagini forti, ma le stempera in una malinconia che riguarda direttamente la difficoltà del vivere. Così è anche in questo Biutiful, presentato nella sezione competitiva. Lo scenario è quello dei quartieri poveri di Barcellona, qui campa malamente Uxbal, un caporale d’'immigrati di colore e cinesi che lucra sul lavoro che procura loro, ma non è privo di un suo senso si solidarietà e rispetto. Sin dalle prime inquadrature si capisce che fa questo feroce mestiere perché non ha la possibilità di fare altro. Del resto la vita non è stata generosa con lui: è separato di una giovane instabile di mente, che non disdegna il letto di suo fratello, e deve crescere due figli, il più piccolo dei quali mostra già segni di ribellione e irrequietezza. A completare il quadro gli arriva tra capo e collo una diagnosi di cancro alla prostata con connessa prognosi di un paio di mesi di vita. Un quadro tutt’altro che allegro che poggia, per buona parte, sulle spalle di Javier Bardem, non nuovo a ruoli di moribondi, si ricordi la parte scolta in Mare dentro (Mar adentro, 2004) di Alejandro Amenábar. In altre parole siamo davanti alla radiografia di un’'agonia e tutto ciò che accade intorno - i cinesi uccisi dalle stufe a gas, la moglie pazza, i rapporti con la polizia - ha funzione unicamente per la costruzione ed enunciazione della psicologia del personaggio. In questo l’'attore è davvero formidabile, ma non tanto da supplire quanto manca al film: la dimensione corale e una sceneggiatura non sempre debitamente robusta, almeno non tanto da reggere le quasi due ore e mezzo di proiezione.

 

Copia Conforme
Copia conforme

 

Uno dei crimini culturali di cui devono rispondere i regimi totalitari non è solo quello di impedire agli intellettuali di creare le loro opere, ma anche quello di costringere all’esilio e, in molti casi, molti creatori. La cosa viene in mente vedendo Copie conforme (Copia conforme) il film che Abbas Kiarostami ha girato in Toscana con capitali francesi e italiani, dopo che, nei fatti, gli è stato impedito, a lui come a moltissimi altri, di lavorare in Iran. Abbiamo parlato di sterilità poiché il film è perfetto dal punto di vista registico, forse solo un po’ sovrabbondante nei dialoghi, così come nella fotografia, ma è segnato da un gelo che gli impedisce di essere corpo vivo, se volete un’opera anche di pancia non solo di testa, diventando una costruzione meccanica, perfetta ma algida. Un esperto d’arte arriva ad Arezzo per il lancio di un suo libro dedicato a originali e copie. Un volume in cui si sostiene una tesi singolare che vorrebbe, in pittura, davvero primigeni solo i soggetti ritratti, perché già il dipingerli li trasformerebbe in una, magari migliore dell’originale, ma pur sempre una riproduzione. Dopo l’incontro con il pubblico lo scrittore partecipa a una breve gita con una mercantessa d’arte del luogo, ma a mano a mano che i due si perdono nella bellezza del borgo di Lucignano, scopriamo che sono marito e moglie, in crisi dopo quindici anni di matrimonio e impegni di lavoro diversi che hanno finito coll’allontanare l’uno dall’altra. Lei è la bravissima Juliette Binoche, sensuale e nel pieno della sua maturità. Lui è il grande baritono inglese William Shimme, in verità più prestante che bravo attore. In definitiva un film gelido e la cosa meraviglia vista la forza di una storia che avrebbe dovuto puntare proprio sui sentimenti. Un testo perfetto, ma distante.

 

Film socialismo
Film socialismo

 

Nella sezione Un Certain Regard è stata presentata l’ultima fatica del maestro Jean-Luc Godard: Film socialisme (Film socialismo). Questi è stato fra i capostipiti della nouvelle vogue e continua tenacemente a praticare un cinema antinarrativo per definizione. Le sue opere mettono insieme immagini, spezzoni di altri film, scritte sul genere di quelle dei film muti, brani televisivi e sequenze cinematografiche. Questo suo ultimo lavoro è diviso abbastanza nettamente in due parti. La prima mostra immagini di una crociera nel mediterraneo su una lussuosa nave della Costa Armatori. La prima cosa evidente è lo iato fra il pessimismo rivoluzionario e anticapitalista del discorso, seppure frammentato in cento battute e slogan, e le immagini patinate, pubblicitarie del grande albergo navigante. C’è in questo un conflitto che non è possibile sanare solo usando l’ironia come metro giustificativo. La seconda parte, poi, ritorna al modo di fare cinema pseudo - narrativo tipico di questo regista con una ministoria ambientata in un garage di provincia ove una teleoperatrice di colore (emblema dell’Africa?) sta realizzando con alcuni colleghi un servizio per la rete regionale francese. Difficile fare chiarezza, anche se un certo filo conduttore si può intravvedere nei molti ritorni di slogan e giochi di parole che arrivano direttamente dalle opere precedenti di questo cineasta. In definitiva è più una testimonianza del passato che qualche cosa di veramente nuovo.

 

Carancho
Carancho

 

La stessa cosa non può dirsi di Pablo Trapero, un regista argentino che aveva suscitato molte speranze quando esordì, nel 1999, con Mondo Grua (Mondo gru). Da quel momento si è assestato su un livello professionale alto, ma sempre inserito nel cinema di genere, preferibilmente poliziesco, pur con qualche incursione nel mondo della commedia sociale. Carancho (Uccello predatore) ha al centro un avvocato che collabora a truffare le assicurazioni e una giovane dottoressa tossicomane. S’incontrano, si amano e finiranno sanguinanti e moribondi dopo essersi scontrati con la mafia avvocatesco - poliziesca che ruota attorno ai falsi risarcimenti per incidenti stradali. Il film funziona abbastanza bene sul piano narrativo, ma si muove su binari prevedibili e già percorsi migliaia di volte.

 


 

 

Uomini e Dei
Uomini e Dei

 

Cannes 7 - Martedì 18 maggio 2010

La sezione concorso del Festival ha presentato un film di grande valore, porta la firma di Xavier Beauvois e s'intitola Des Hommes et des Dieux (Uomini e Dei, ma in Italia uscirà con il titolo Uomini di dio). Il racconto s’ispira a un grave fatto di sangue avvenuto in Algeria il 26 marzo 1996 quando militanti armati - gli estremisti islamici del GIA - rapirono e uccisero sette monaci cistercensi che vivevano in un convento di Thibirine, in perfetta armonia con gli abitanti mussulmani cui prestavano preziosi servizi sanitari e sociali. La rivendicazione degli estremisti armati mussulmani no ha convinto del tutto e vari osservatori continuano a credere al coinvolgimento di qualche settore deviato dei servizi segreti algerini. In quei mesi la situazione del paese africano era diventata esplosiva dopo la vittoria elettorale degli islamici del FIS, 23 dicembre 1991, e la cancellazione del responso elettorale, con la proclamazione dello stato d’assedio, per opera del governo sorretto dall’esercito. Nonostante gli attentati si ripetessero - il 14 gennaio 1992 morirà per mano dei terroristi lo stesso presidente della repubblica Mohamed Boudiaf - i religiosi avevano rifiutato di abbandonare il monastero e continuato ad aiutare la popolazione e chiunque ne avesse bisogno, compresi i feriti dei rivoltosi. Quest’ultima scelta aveva attirato su di loro le ire dei vertici militari, da qui il sospetto di un coinvolgimento dei servizi segreti nel loro calvario. Il film mette in risalto l’umanità e la tolleranza che regnano fra i cristiani e gli islamici sino all’irrompere degli opposti estremismi. Lo fa descrivendo con grazia e bellezza la vita monastica, non rinunciando a qualche spiffero ironico, ma non nascondendo neppure la dialettica fra i religiosi, alcuni dei quali, almeno all’inizio, non sono per nulla felici di rischiare il martirio. La storia è immersa in paesaggi bellissimi che riescono a rendere sopportabile persino le atrocità degli uomini. E’ un forte messaggio di tolleranza religiosa e non solo.

 

La mia felicità
La mia felicità

 

Il secondo film in concorso della giornata era Schastye moe (La mia felicità) di Sergei Loznitsa, ucraino che vive in Germania. L’opera era attesa poiché è l’unico esordio presente in concorso e, per giunta, era stata magnificata dai selezionatori che parlavano di autentica perla. Date queste premesse, la delusione non poteva essere più cocente. E’ il racconto di un insieme di situazioni che oscillano fra gli anni della grande guerra patriottica e l’oggi. Su entrambi i fronti ciò che domina è la violenza, il sopruso, l’aggressione di tutti contro di tutti. Il tenue filo lo dovrebbe fornire un giovane camionista che sta facendo il suo lavoro e incappa in un reduce che ha ucciso un ufficiale della polizia militare che gli aveva rubato le poche cose che aveva riportato dalla guerra. Incontra, poi, una prostituta bambina che rifiuta, aggressivamente, le sue attenzioni paterne, un paio di briganti che lo stordiscono per rubargli il camion lasciandolo afono e privo di memoria, una coppia di poliziotti della stradale degni di una galleria degli orrori e via elencando. Dovrebbe essere una metafora della dissoluzione criminale nata dalla fine degli stati socialisti, in particolare l’Unione Sovietica, anche se il regista è ucraino e la produzione maggioritaria tedesca. A parte il fatto che quello del degrado è ormai diventato un vero e proprio filone del cinema dei paesi ex - socialisti, qui si ha l’impressione che sangue e violenza siano notevolmente fini e a se stessi. Per tacere di una sceneggiatura sgangherata in cui l’intreccio dei tempi narrativi stride a ogni passo, mentre la parte della storia odierna fa acqua da ogni parte.

 

Le labbra
Le labbra

 

Nella sezione Un certain Regard è stato presentato Los labios (Le labbra) dei cineasti argentini Ivan Fund e Santiago Loza. Tre donne vanno in un miserabile paesino dell’interno per porgere assistenza a madri e puerpere. Le alloggiano in un ospedale in smantellamento, le trasportano su un’auto che cade a pezzi, devono protestare par avere ciò che spetta loro. Un’esperienza dura che, tuttavia, servirà per capirsi meglio e annodare solide legami con i poveri. Un film ricco di buone intenzioni, girato interamente con camera a mano per dare allo spettatore un ancor maggior sensazione di verità.

 


 

 

Route Irish
Route Iris

 

Cannes 8 - Mercoledì 19 maggio 2010

Route Irisch (La via irlandese) è il nome dato dai militari alla strada che collega l’'aeroporto di Bagdad alla Zona verde, il quartiere superprotetto in cui hanno sede le ambasciate e gli edifici pubblici. E’ anche il titolo dell’'ultimo, attesissimo, film di Ken Loach presentato oggi al Festival. Al centro della vicenda c’è un contractor, un militare che fa parte di quei soldati privati che assicurano la protezione alle persone importanti e ai giornalisti che soggiornano nella capitale irachena. Ritornato a Liverpool - dopo un lungo soggiorno in scenari di guerra, prima come membro dei reparti speciali inglesi poi come militare privato - va in crisi quando gli annunciano che il suo migliore amico, da lui convinto a farsi mercenario, è morto in un agguato sulla famosa strada. Tuttavia sono troppe le cose che non quadrano e lo inducono a mettersi alla ricerca di ciò che è realmente successo. Verità che emergerà in tutto il suo orrore quando scoprirà che il compagno è stato, di fatto, ammazzato da uomini della stessa società che l’aveva ingaggiato e i cui dirigenti erano in panico per le rilevazioni che lui voleva fare in merito a una delle tante uccisioni ingiustificate di civili compite dai suoi colleghi, omicidi di cui aveva le prove. Il protagonista riuscirà a fare vendetta, uccidendo uno dei complici della montatura e facendo saltare in aria i dirigenti della società, questo subito dopo quei manager hanno firmato un accordo con un'’azienda americana, direttamente controllata dalla CIA, intesa che apre loro nuovi orizzonti in altri paesi in guerra. Il tema della privatizzazione strisciante dei conflitti è al centro della denuncia portata vanti dal film. Un crimine che, come ricorda lo sceneggiatore Paul Laverty, ha consentito a David Lesar - presidente dell’'Halliburton, la società americana di cui è stato a capo Dick Cheney, uno dei punti di forza dell’'amministrazione di George W. Bush - di guadagnare poco meno di 43 milioni di dollari nel solo 2004. Ancora una volta Ken Loach affronta un tema di grande attualità e lo fa con un film lineare, plausibile, coraggioso anche se non privo di qualche punta retorica. Il vero problema è che questa volta questo cineasta perde qualche cosa nella sua forza, come accaduto le volte che ha abbandonato la miscela di denuncia e ironia che rimpolpa i suoi testi migliori in favore di quella del dramma a tutto tondo. In questo caso ci consegna un’'opera bella e necessaria, ma non perfetta come alcuni dei suoi testi in cui dominava lo sguardo sul proletariato e mancava la voglia dell’'avventura.

 

La nostra vita
La nostra vita

 

Il secondo film in concorso della giornata era l’unico italiano in lizza: La nostra vita di Daniele Lucchetti. Claudio è un operaio edile che svolge funzioni di capocantiere e anela a mettersi in proprio. Ha due figli e la moglie aspetta il terzo. La sua famiglia è molto unita e lo aiuta in tutto. Una domenica, alla fine di una bella giornata al mare, la donna sente le prime doglie. Corsa all’ospedale, lungo travaglio e nascita del terzo figlio, ma la madre muore nel darlo alla luce. Rimasto improvvisamente solo, si butta nel lavoro creando una sua ditta, ci riesce anche sfruttando la complicità dell’appaltatore principale che ha aiutato a seppellire clandestinamente un romeno caduto nella tromba dell’ascensore di un palazzo in costruzione. Per riuscire nell’impresa deve contrarre un forte debito con uno spacciatore in carrozzella che, a sua volta, riceve la merce da una banda di gitani. Ovvio che, quando non sarà in grado di saldare il dovuto, tutto gli crolla addosso: gli operai se ne vanno portandosi via mezzo ufficio, i creditori devastano la casa del paralitico, il vecchio appaltatore si fa avanti per raccogliere, con profitto, i resti dell’impresa. Un colpo di reni dell’intera famiglia gli consentirà di riprendere il lavoro e portare a termine la commessa. La sostanza del film è un’elaborazione di un lutto su cui s’innestano alcuni spunti sociali (il lavoro nero, l’immigrazione clandestina, le scatole cinesi degli appalti edili) che finiscono col saldarsi malamente all’asse portante dell’opera, indebolendola notevolmente. Inoltre anche la definizione dei personaggi è meno precisa del necessario facendoli oscillare fra il sommario e lo scarsamente definito. Un ultimo dato negativo è legato alla confezione stilistica sicuramente made in RAI, che coproduce il film ed è alla fase di un linguaggio fatto quasi esclusivamente di primi e primissimi piani. In poche parole è un film zoppicante.

 

Poesia
Poesia

 

Il terzo titolo in concorso era Shi (Poesia) del sudcoreano Lee Changdong. Vi si racconta di una matura signora che sopravvive facendo da badante a un generale paralizzato e accudendo un nipote che alleva dopo il divorzio della figlia. Il ragazzo, scontroso e musone come tutti gli stereotipi sui giovani moderni, finisce coinvolto in una brutta storia di stupro ai danni di una studentessa che, dopo, si toglie la vita. Il crimine è stato consumato da sei ragazzi e i genitori del gruppo si tassano di cinque milioni di won (circa 3.200 euro) a testa per indennizzare la madre della vittima, ma l’'anziana badante quei soldi non li ha. Negli stessi giorni ha scoperto la poesia, attraverso un corso letterario, e la usa per sfuggire alla terribile realtà in cui è immersa, ma è una barriera fragile non in grado di resistere agli assalti e alle offese dal mondo. Alla fine riuscirà a trovare la somma che le serve, quale compenso dell’'amore fatto con il vecchio paralitico, ma preferirà andare alla polizia e denunciare il nipote. Il film ha un punto di forza nella stupenda interpretazione di Yun Junghee, leggendaria attrice del cinema coreano, e presenta una confezione di grande professionalità sorretta da una fotografia, nota abbastanza comune per il cinema orientale, molto bella. Tutto questo non basta a salvare l’opera da un senso già visto e dall’'impressione che, in qualche punto, sentimenti e psicologie cedano il passo al formalismo.

 

Ottobre
Ottobre

 

Nella sezione Un certain regard si è visto un interessante film peruviano: Octubre (Ottobre) di Daniel e Diego Vega. E’ il ritratto di uno strozzino, figlio d’arte, che vive solitario senza quasi comunicare con nessuno. Un giorno, rientrando a casa, trova una bimba di pochi giorni lasciatagli da una donna di facili costumi con cui ha avuto una relazione. La madre è sparita e ogni tentativo di ritrovarla è inutile, per cui diventa inevitabile affidarsi a una vicina nubile che nutre per lui una passione nascosta. Le cose sembrano andare per il meglio, compreso il sogno di un suo amico di portare alla festa patronale di Lima la moglie che giace immobile in un letto d’ospedale. Tutto è rimesso in discussione quando il prestasoldi ha un guizzo d‘indipendenza o vuole mandare tutto a monte, allora è la donna a sparire con la piccola e l‘uomo a mettersi alla sua ricerca. Forse la ritroverà nel bel mezzo di una processione religiosa. Il film è girato con luci livide come il destino dei protagonisti che non riescono a evadere da una realtà oppressiva e terribile. Il tutto sulla scia di Tony Manero (2008) di Pablo Larraín, ma con meno originalità e cattiveria.

 


 

 

Gioco equo
Gioco equo

 

Cannes 9 - Giovedì 20 maggio 2010

E' noto che il cinema americano ha la straordinaria capacità di trasformare cronaca, problemi sociali, temi politici in forme di spettacolo a vasta diffusione. Lo conferma Fair Geme (Gioco equo) di Doug Liman, presentato oggi in concorso. Lo spunto del film, tratto dai libri Fair Game di Valerie Plame e The Politics of Truth (La politica della verità) di Joseph Wilson, nasce dal cosiddetto affare Plame – Wilson. Vale a dire la vicenda dell'agente della CIA Valerie Plame il cui nome, indirizzo e numero di telefono furono dati in pasto alla stampa il 14 luglio 2003 da una Casa Bianca infuriata parchè suo marito, l'ex- ambasciatore Joseph Wilson, aveva scritto un articolo, pubblicato dal The New York Times, che smentiva la versione di George W Bush secondo cui l'attacco all'Iraq di Saddam Hussein era giustificato dal fatto che quel regime stava preparando la bomba atomica. Le prove dovevano essere sia l'acquisto in Cina di una partita di tubi d'alluminio destinati, si diceva, all'arricchimento dell'uranio, sia l'acquisto, dal Sudan, di una consistente partita di minerale da destinare al progetto. Entrambe le notizie risulteranno, in seguito, del tutto prive di fondamento: i tubi metallici erano destinati ad altri usi militari e l'acquisto dell'uranio grezzo non era mai avvenuto. Da queste due falsità nascerà la frenesia con cui l’intelligence americana si dedicherà alla ricerca, senza esito, dei depositi di armi di distruzione di massa dopo l'occupazione di Baghdad. Il film ricostruisce minuziosamente gli scontri fra CIA e Casa Bianca, le operazioni di disinformazione e calunnia messe in atto contro l'ex – agente e suo marito, il pesante clima instaurato dagli uomini dell'amministrazione, molti dei quali trarranno lauti proventi personali dalla seconda guerra irachena. Sono materiali scottanti, messi in scena in modo drammaturgicamente adeguato secondo una tradizione di denuncia che è nel DNA del cinema Usa. Detto questo, bisogna anche aggiungere che non si riescono a comprendere le ragioni, a parte quelle divistiche, che hanno spinto gli organizzatori del Festival a inserire un film di buona qualità mercantile, ma pur sempre commerciale, nel cartellone del concorso. Da vedere con calma.

 

Lo zio Boonmee, quello che ricordava le sue vite precedenti
Lo zio Boonmee, quello che ricordava le sue vite precedenti

 

Apichatpong Weerasethakul è uno dei pochi cineasti tailandesi ed anche fra i rari autori capaci di piegare il cinema al sopranaturale, alla favola, al mondo dei fantasmi. Il suo ultimo film, Loong Boonmee raleuk chat (Lo zio Boonmee quello che ricordava le sue vite precedenti), racconta di un anziano malato di diabete che decise di andare a morire in campagna. Durante l’agonia, assistito da una parente zoppa e da un lavoratore laotiano, rincontra la moglie morta da anni, rivede il figlio sotto forma di grande scimmia dagli occhi rossi, parla del passato e del mondo che lo attende. C’è anche tempo per la storia di una brutta principessa, amata da uno schiavo, che gode dei servizi, anche sessuali, di un pesce gatto. Nell’ultima parte, dopo la morte del malato, il film vira alla contemporaneità con una serie d’immagini fisse che raffigurano uomini armati in tuta mimetica e con la ministoria della donna che l’ha assistito e del monaco che ne ha celebrato il funerale. Nell’estremo finale questi due personaggi si sdoppiano: due di essi rimangono a guardare la televisione che parla di violenza e di guerra e due vanno al ristorante. Da queste semplici note, che non esauriscono le molte sorprese che attendono lo spettatore durante poco meno di due ore di proiezione, si sarà capito che siamo alla presenza di un’opera in cui la metafora e l’esplosione fantastico - fiabesca la fanno da patrone. Del resto così era anche in Sud sanaeha (Devotamente vostro, 2002) visto qui a Cannes otto anni or sono. E’ un tipo di cinema sicuramente personale e di non facile lettura, poiché vi confluiscono moltissimi elementi specifici, come quelli tipici del pensiero religioso che crede alla trasmigrazione dell’anima fra gli uomini, le piante, gli animali e i fantasmi. In ogni caso è un film sicuramente da festival, uno dei pochi di questo tipo visti sino ad ora.

 

Rebecca H (Ritorno ai cani)
Rebecca H (Ritorno ai cani)

 

Il programma della sezione Un Certain Regard ha presentato una giornata del tutto negativa. Si è iniziato con Rebecca H. (Return to the Dog) - Rebecca H (Ritornano ai cani) - dell’americano Lodge Kerrigan che in settantacinque minuti, che paiono ore, racconta i triboli, le difficoltà e lo spiazzamento di un’attrice che sta interpretando un film diretto dallo stesso regista. Il materiale stampa parla di Pailhas Gerladine interpreta il ruolo della cantante Grace Slick dei Jefferson Airplane. Una storia che ruota attorno alla relazione di Grace Slick e una donna affascinata dalla star del rock. Confessiamo candidamente che vedendo il film non lo avevamo capito.

 

Simon Werner è sparito …
Simon Werner è sparito …

 

E’ andata appena meglio con il secondo titolo presentato oggi dalla sezione: Simon Werner a disparu … (Simon Werner è scomparso...) del francese Fabrice Gobert. In un liceo la scomparsa di uno studente sollecita molte ipotesi e altrettanti possibili scenari, sino alla soluzione del mistero che si rivela quanto mai banale. E’ un film d’imitazione americana che, in realtà, non aveva titolo per essere presente al Festival.

 


 

 

Fuorilegge
Fuorilegge

 

Cannes 10 - Venerdì 21 maggio.

Grande schieramento di polizia, moltiplicazione dei controlli, manifestazione davanti al municipio, impazzare di troupe televisive e microfoni. Tutto questo per la presentazione, in concorso, di Hors-la-loi (Fuorilegge) il film che Rachid Bouchareb, regista francese d'origine algerina, ha dedicato alla lotta, in Francia, degli uomini del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) durante la guerra per l'indipendenza del paese nordafricano (1954-1962). Il tutto attraverso la storia di tre fratelli che, sul territorio metropolitano, imboccano strade diverse. Massaoud partecipa alla guerra d'Indocina, da cui è congedato con onore per le ferite riportate in combattimento, tuttavia, quando ritorna a casa, scopre che la sola via per una vita degna è quella della lotta armata per l'indipendenza, il che lo porterà a diventare uno degli esecutori del FNL. Abdelkader partecipa ai moti per l'indipendenza, è testimone del massacro di Sérif (Algeria, 8 maggio 1945) in cui polizia ed esercito uccisero decine di algerini esacerbando l'umore di una folla che, a sua volta, ammazzò non pochi pied-noir (francesi residenti nella colonia). Arrestato e condannato, uscirà alcuni anni dopo e diventerà uno dei capi della lotta armata in Francia. Il terzo fratello, Saïd, sceglie invece la via degli affari sul filo della legge – prostituzione, criminalità dei locali notturni – e persegue il sogno, lui che è menomato a un braccio, di diventare il manager del campione di Francia di pugilato. Tre storie diverse che confluiscono nel terrorismo e nei suoi orrori. Certo, si può capire l'indignazione dei ben pensanti, dei teorici della destra, dei reduci e, più, in generale, dei fanatici razzisti: nel film le forze dell'ordine francesi non ci fanno davvero una bella figura, creano gruppi di assassini non sottoposti ad alcun controllo (La Mano Rossa), torturano, distruggono le case, già miserabili, degli algerini, picchiano e ricattano. Del resto, come non ricordare che La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo (1919 – 2006) è stato bandito sino a non molti anni or sono dagli schermi francesi? Detto questo per chiarezza d'inquadramento, non bisogna tacere che il film si presenta molto modesto, più che un affresco di un grande movimento d'indipendenza sembra quasi di assistere a un western che segue la struttura classica dei fratelli che prendono strade diverse per poi ritrovarsi nella sparatoria finale. Indubbiamente il regista ha voluto mettere assieme un tema politicamente importante e una narrazione molto popolare, come aveva fatto con Indigènes (2006), la vicenda dei magrebini ingaggiati come carne da macello nell'esercito francese e messi da parte subito dopo la vittoria sui nazisti. Se questo è vero, allora occorre anche distinguere fra valore politico dell'opera e sua consistenza artistica: il primo è molto alto, la seconda piuttosto modesta.

 

Un ragazzo fragile - Il progetto Frankenstein
Un ragazzo fragile - Il progetto Frankenstein

 

Kornél Mundruczó uno dei registi più promettenti del cinema magiaro. Due anni or sono il suo Delta (2008) convinse molti critici e raccolse svariati premi, per questo sua ultima fatica, Szelíd teremtés - A Frankensteien Terv (Un ragazzo fragile - Il progetto Frankenstein), era molto attesa. Diciamo subito che è stata più la delusione che la conferma. Un padre cineasta ha abbandonato per anni il figlio in un orfanatrofio, ora, a diciassette anni, il ragazzo parte alla ricerca del genitore e della madre. Incontra il primo mentre sta facendo i provini per il cast di un nuovo film, lui stesso si propone, ma poi, preso da un raptus, strangola un'aspirante attrice che cercava di baciarlo (paura dell’altro sesso spinta al parossismo?). Poi è nascosto dalla madre, che lo sottrae alla furia del padre della ragazza, ma lui, lo uccide e ammazza anche la genitrice. A questo punto il padre - regista lo porta in Austria per sottrarlo alla legge. Durante il percorso l’auto sbanda, lui muore nel freddo, il genitore si perde nella neve. Raccontato in questo modo, si potrebbe dare l’idea di un film che procede in maniera lineare, invece il racconto cinematografico è denso di momenti oscuri, atmosfere misteriose, punti non chiari. Il centro del discorso dovrebbe essere quello che i mostri sono in noi e che siamo noi a creare, in questo ha un senso chiarificatore la seconda parte del titolo con il riferimento al romanzo Frankenstein, o il moderno Prometeo (Frankenstein, or the modern Prometheus, 1818) di Mary Shelley (1797 – 1851). Ci sono molte buone intenzioni rette da una struttura narrativa volutamente complessa per un film non straordinario.

 

Hahaha
Hahaha

 

A Un Certain Regard è stato presentato Hahaha del sud coreano Hong Sangsoo. Un cineasta e un critico s'incontrano prima della partenza del primo per il Canada, scoprono che poco tempo prima hanno visitato entrambi la cittadina di Ton-yung, un piccolo centro in riva al mare che vanta i natali di un celebre ammiraglio, vincitore dei giapponesi nella guerra del 1910. Decidono di raccontarsi le rispettive esperienze, ma solo quelle positive. Questa parte del film è realizzata con fotogrammi fissi in banco e nero. La parte a colori, invece, intreccia le rispettive storie di amori difficili ma destinati a un lieto fine, e di unioni che si rompono e rinascono diverse. Ne nasce un film lieve, piuttosto flebile, più in giochetto stilistico che un'opera veramente nuova.

 

La vita, soprattutto
La vita, soprattutto

 

Un altro titolo visto in questa sezione è stato Life, Above All (La vita, soprattutto) del sudafricano Oliver Schmitz che affronta il dramma dell’AIDS con la storia di una donna nera infettata dal marito e respinta dalla comunità in cui vive. Sarà la giovanissima figlia a farla accettare superando ogni pregiudizio. E’ un film generoso, ricco di buone intenzioni e destinato a svolgere, non ne dubitiamo, un importante ruolo sociale nel paese che l’ha prodotto. Accertati questi meriti, non si può sorvolare sul sentimentalismo e su un’eccessiva semplificazione dei problemi posti sul tappeto.

 


 

 

Sole ingannatore 2 - L'esodo
Sole ingannatore 2 - L'esodo

 

Cannes 11- Sabato 22 maggio.

Nikita Sergeevič Michalkov (1945) è un regista russo si ottimo mestiere. Rampollo di una famiglia di grandi intellettuali - suo nonna era una nota poetessa, suo nonno scrisse i versi dell'inno dell'Unione Sovietica, suo fratello Andrej Konchalovskij è un affermato regista – è anche abile uomo di potere. Per rendersene conto basti pensare che è stato l'ultimo candidato dei conservatori contro la perestrojka voluta da Michail Gorbačëv, per poi diventare, dopo la dissoluzione dell'URSS, il presidente della Federazione dei Cineasti Russi. Inutile aggiungere che è persona ricchissima e amico personale di Vladimid Putin. Una figura molto ben inserita nell'entourage del vertice russo per cui i suoi lavori hanno anche il senso di un test sulle tendenze del potere. Nel 1994 diresse Utomlyonnye solntsem (Sole ingannatore), premio Oscar per il miglior film in lingua russa, storia di un alto ufficiale dell'armata rossa, il generale Sergei Petrovich Kotov, epurato da Stalin e mandato in un gulag. A sedici anni di distanza ecco la seconda tappa, Utomlyonnye solntsem 2 (Sole ingannatore 2 – L'esodo), in attesa di una terza il cui titolo è già noto Utomlyonnye solntsem 3 (Sole ingannatore 3 – La cittadella). Il film è stato presentato al Festival come ultimo titolo del concorso. La storia inizia con il salvataggio del protagonista durante la prigionia, salvataggio nato da un provvidenziale cambio di classificazione (da delinquente politico a malversatore) arrivato grazie i buoni uffici degli amici che conservava nell'apparato. Il favore non sfugge al dittatore georgiano che incarica lo stesso agente della polizia segreta che si era infiltrato nella famiglia per raccogliere le prove del tradimento, di rintracciare il fuggitivo. Quest'ultimo ha partecipato, come soldato semplice, alla guerra, compiendo azioni eroiche, ma si è sempre, comprensibilmente, sottratto a encomi e onori. Il film si muove sulla falsariga di questa indagine, mettendo in parallelo la vicenda del militare e quella di sua figlia, crocerossina di prima linea. E' un'opera ancor più spettacolare della precedente, vale a dire che vi dominano le azioni di massa, le scene di guerra, i bombardamenti e la ferocia dei massacri. Emerge anche un posticcio senso religioso, legato alla scoperta di Dio in momenti particolarmente tragici. Da notare la lunga scena finale in cui un carrista diciannovenne, moribondo chiede all'infermiera di mostragli i seni, almeno morirà avendo visto, almeno una volta, il petto di una donna. Lei che si spoglia e la camera sale e sale a svelare un panorama di desolazione e rovina. A parte la scarsa novità della trovata (già in un film ceco degli anni sessanta una ragazza faceva l'amore con alcuni condannati a morte per alleviare la loro sofferenza) è la ridondanza delle immagini a togliere ogni poesia all'idea e a coniugarla in maniera omogenea al resto del film. E' un buon prodotto spettacolare, ma privo di anima.

 

L'albero
L'albero

 

Per terminare il discorso sui film non resta che parlare dell'opera presentata in chiusura. L’albero (L’arbre) di Julie Bertuccelli, presentato in chiusura del Festival, nasce dal libro Our Father who art in the tree (Nostro padre che sei in un albero) di Judy Pascoe e racconta di una famiglia australiana in difficoltà dopo la morte del padre, fulminato da un infarto. Una delle figlie è convinta che lo spirito del genitore si sia trasferito nel grande albero che sovrasta la casa. Le radici del mastodontico vegetale causano seri danni all’edifico, ma lei si oppone con tutte la sue forze a che sia tagliato. L’arrivo di un uragano che devasta l’intera regione e abbatte l’albero e aprirà per tutti una nuova fase di vita. La vicenda intreccia realismo a magia, ma lo fa in modo abbastanza grossolano senza fondere i due elementi su cui si regge la storia. Il film è girato bene, offre maestosi paesaggi, ma non si discosta da una comune produzione commerciale.

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Conclusioni

La valutazione di questa 63ma edizione, ridotta a un solo aggettivo, oscilla fra modesto e scarso. Non c’è stato un titolo capace di polarizzare gran parte dell’attenzione e anche quelli che sono andati meglio - Another Year (Un altro anno) di Mike Leight, Des Hommes et Des Dieux (Uomini e Dei) di Xavier Beauvois - non hanno varcato la soglia della sufficienza. Poiché sono vari anni che ci troviamo in questa situazione, vale la pena chiedersi il perché. Intanto va scartata l’ipotesi che vi fossero altri titoli, quantomeno vi fossero in misura numerosa, sfuggiti all’occhio dei selezionatori. Chiunque frequenta, anche sporadicamente, il mondo dei grandi enti sa che la stessa forza di cui dispongono, e quella del Festival di Cannes è sicuramente la maggiore nel settore, non commettono errori tanto estesi. Può sfuggire uno, due titoli ma il resto finisce nella bisaccia che raccoglie il meglio in circolazione. La riposta allora non può che segnalare la profonda crisi creativa che percorre il cinema a livello mondiale. Asciugate alcune fonti per le censure interne (Iran), messe in difficoltà altre a causa di scelte produttive apertamente commerciali (Cina), non resta che fare affidamento su qualche piccolo paese (Romania) incapace di sollecitare una produzione così copiosa da soddisfare le esigenze delle numerose, grandi manifestazioni che si affacciano sul terreno. A proposito di cinema rumeno c’è da dire che gli organizzatori hanno commesso l’errore di relegare i due film provenienti da quel paese - Marti, dupa Craciun (Martedì dopo Natale) di Radu Muntean e Aurora di Cristi Puiu - nella sezione Un Certain Regard privando il cartellone della competizione, già esangue, di due puntelli che avrebbero potuto rinforzarne le sorti.




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I premi
Sezione lungometraggi
Palma d’oro: LUNG BOONMEE RALUEK CHAT (Lo zio Boonmee, quello che ricordava le sue vite precedenti) di Apichatpong WEERASETHAKUL.
Gran Premio della giuria: DES HOMMES ET DES DIEUX (Uomini e Dei) di Xavier BEAUVOIS.
Premio della regia: Mathieu Amalric per TOURNÉE.
Premio della sceneggiatura: LEE Chang-dong per SHI (Poesia).
Premio per la migliore interpretazione femminile: Juliette BINOCHE per l’interpretazione in COPIE CONFORME (Copia conforme) di Abbas KIAROSTAMI.
Premio per la migliore interpretazione maschie (ex-aequo):
Javier BARDEM per la sua interpretazione in BIUTIFUL di Alejandro GONZÁLEZ IÑÁRRITU
e
Elio GERMANO per la sua interpretazione in LA NOSTRA VITA di Daniele LUCHETTI.
Premio della giuria: UN HOMME QUI CRIE (Un uomo che grida) di Mahamat-Saleh HAROUN.
Sezione cortometraggi
Palma d’oro: CHIENNE D'HISTOIRE (Storia cagna) di Serge AVÉDIKIAN.
Premio della giuria: MICKY BADER (Micky fa il bagno) di Frida KEMPFF.
Sezione Un Certain Regard
Primo premio: HAHAHA di Hong SANG-SOO.
Premio della Giuria: OCTUBRE (Ottobre) di Daniel e Diego VERGA.
Premio speciale alle attrici di LOS LABIOS (Le labbra) di Ivan FUND e Santiago LOSA.
Quinzaine des Réalisateurs
Primo premio: PIEDS NUS SUR LES LIMACES (Piedi nudi sulle lumache) di Fabienne BERTHAUD.
Secondo premio: ILLÉGAL (Illegale) di Olivier MASSET-DEPASSE.
Europa Cinema Label: LE QUATTRO VOLTE di Michelangelo FRAMMARTINO.
Palm Dog conferito dalla stampa inglese al miglior cane presente nei film del Festival: Vuk interprete di LE QUATTRO VOLTE di Michelangelo FRAMMARTINO.
Premio Fipresci della critica
Sezione concorso: TOURNÉE di Mathieu AMALRIC.
Sezione Un Certain Regard: PAL ADRIENN di Agnes KOCSIS.
Sezione Quinzaine des réalisateurs: TODOS VOS SOLDES CAPITANS (Siete tutti capitani) di Olivier LAXE.
Premio dalla Giuria Giovani
COPIE CONFORME (Copia conforme) di Abbas KIAROSTAMI.
La Semaine de la Critique
Miglior film: ARMADILLO di Janus METZ.
Premio della Giuria Ecumenica
DES HOMMES ET DES DIEUX (Uomini e Dei) di Xavier BEAUVOIS.