Festival di Cannes 2010 - Pagina 11

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Festival di Cannes 2010
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Sole ingannatore 2 - L'esodo
Sole ingannatore 2 - L'esodo

 

Cannes 11- Sabato 22 maggio.

Nikita Sergeevič Michalkov (1945) è un regista russo si ottimo mestiere. Rampollo di una famiglia di grandi intellettuali - suo nonna era una nota poetessa, suo nonno scrisse i versi dell'inno dell'Unione Sovietica, suo fratello Andrej Konchalovskij è un affermato regista – è anche abile uomo di potere. Per rendersene conto basti pensare che è stato l'ultimo candidato dei conservatori contro la perestrojka voluta da Michail Gorbačëv, per poi diventare, dopo la dissoluzione dell'URSS, il presidente della Federazione dei Cineasti Russi. Inutile aggiungere che è persona ricchissima e amico personale di Vladimid Putin. Una figura molto ben inserita nell'entourage del vertice russo per cui i suoi lavori hanno anche il senso di un test sulle tendenze del potere. Nel 1994 diresse Utomlyonnye solntsem (Sole ingannatore), premio Oscar per il miglior film in lingua russa, storia di un alto ufficiale dell'armata rossa, il generale Sergei Petrovich Kotov, epurato da Stalin e mandato in un gulag. A sedici anni di distanza ecco la seconda tappa, Utomlyonnye solntsem 2 (Sole ingannatore 2 – L'esodo), in attesa di una terza il cui titolo è già noto Utomlyonnye solntsem 3 (Sole ingannatore 3 – La cittadella). Il film è stato presentato al Festival come ultimo titolo del concorso. La storia inizia con il salvataggio del protagonista durante la prigionia, salvataggio nato da un provvidenziale cambio di classificazione (da delinquente politico a malversatore) arrivato grazie i buoni uffici degli amici che conservava nell'apparato. Il favore non sfugge al dittatore georgiano che incarica lo stesso agente della polizia segreta che si era infiltrato nella famiglia per raccogliere le prove del tradimento, di rintracciare il fuggitivo. Quest'ultimo ha partecipato, come soldato semplice, alla guerra, compiendo azioni eroiche, ma si è sempre, comprensibilmente, sottratto a encomi e onori. Il film si muove sulla falsariga di questa indagine, mettendo in parallelo la vicenda del militare e quella di sua figlia, crocerossina di prima linea. E' un'opera ancor più spettacolare della precedente, vale a dire che vi dominano le azioni di massa, le scene di guerra, i bombardamenti e la ferocia dei massacri. Emerge anche un posticcio senso religioso, legato alla scoperta di Dio in momenti particolarmente tragici. Da notare la lunga scena finale in cui un carrista diciannovenne, moribondo chiede all'infermiera di mostragli i seni, almeno morirà avendo visto, almeno una volta, il petto di una donna. Lei che si spoglia e la camera sale e sale a svelare un panorama di desolazione e rovina. A parte la scarsa novità della trovata (già in un film ceco degli anni sessanta una ragazza faceva l'amore con alcuni condannati a morte per alleviare la loro sofferenza) è la ridondanza delle immagini a togliere ogni poesia all'idea e a coniugarla in maniera omogenea al resto del film. E' un buon prodotto spettacolare, ma privo di anima.

 

L'albero
L'albero

 

Per terminare il discorso sui film non resta che parlare dell'opera presentata in chiusura. L’albero (L’arbre) di Julie Bertuccelli, presentato in chiusura del Festival, nasce dal libro Our Father who art in the tree (Nostro padre che sei in un albero) di Judy Pascoe e racconta di una famiglia australiana in difficoltà dopo la morte del padre, fulminato da un infarto. Una delle figlie è convinta che lo spirito del genitore si sia trasferito nel grande albero che sovrasta la casa. Le radici del mastodontico vegetale causano seri danni all’edifico, ma lei si oppone con tutte la sue forze a che sia tagliato. L’arrivo di un uragano che devasta l’intera regione e abbatte l’albero e aprirà per tutti una nuova fase di vita. La vicenda intreccia realismo a magia, ma lo fa in modo abbastanza grossolano senza fondere i due elementi su cui si regge la storia. Il film è girato bene, offre maestosi paesaggi, ma non si discosta da una comune produzione commerciale.

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Conclusioni

La valutazione di questa 63ma edizione, ridotta a un solo aggettivo, oscilla fra modesto e scarso. Non c’è stato un titolo capace di polarizzare gran parte dell’attenzione e anche quelli che sono andati meglio - Another Year (Un altro anno) di Mike Leight, Des Hommes et Des Dieux (Uomini e Dei) di Xavier Beauvois - non hanno varcato la soglia della sufficienza. Poiché sono vari anni che ci troviamo in questa situazione, vale la pena chiedersi il perché. Intanto va scartata l’ipotesi che vi fossero altri titoli, quantomeno vi fossero in misura numerosa, sfuggiti all’occhio dei selezionatori. Chiunque frequenta, anche sporadicamente, il mondo dei grandi enti sa che la stessa forza di cui dispongono, e quella del Festival di Cannes è sicuramente la maggiore nel settore, non commettono errori tanto estesi. Può sfuggire uno, due titoli ma il resto finisce nella bisaccia che raccoglie il meglio in circolazione. La riposta allora non può che segnalare la profonda crisi creativa che percorre il cinema a livello mondiale. Asciugate alcune fonti per le censure interne (Iran), messe in difficoltà altre a causa di scelte produttive apertamente commerciali (Cina), non resta che fare affidamento su qualche piccolo paese (Romania) incapace di sollecitare una produzione così copiosa da soddisfare le esigenze delle numerose, grandi manifestazioni che si affacciano sul terreno. A proposito di cinema rumeno c’è da dire che gli organizzatori hanno commesso l’errore di relegare i due film provenienti da quel paese - Marti, dupa Craciun (Martedì dopo Natale) di Radu Muntean e Aurora di Cristi Puiu - nella sezione Un Certain Regard privando il cartellone della competizione, già esangue, di due puntelli che avrebbero potuto rinforzarne le sorti.