Festival di Cannes 2009 - 9° giorno

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Festival di Cannes 2009
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Giovedì 21 maggio – Nono giorno
 
Bastardi senza gloria
Bastardi senza gloria
Quentin Tarantino è uno dei registi il cui lavoro divide nettamente i critici. La cosa non può meravigliare quando si consideri che questo cineasta ha come faro stilistico il cinema di genere - americano, asiatico, europeo, poco importa – e alcuni autori, come Sergio Leone, di cui apprezza in modo particolare le opere più nettamente inseribili lavoro filmico artigianalmente alto. I maggiori consensi gli sono arrivati quando il ricorso agli stilemi produttivi bassi si è sposato a un preciso distacco ironico, come nel caso di Pulp Fiction (1994), titolo con cui quest’autore vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes. La sua filmografia successiva è stata segnata da un avventurarsi dei riferimenti ai prodotti commercialmente medi, scelta che ha sconcertato parte della critica, come dimostrano le contrastanti accoglienze riservate a Kill Bill 1 e 2. Con Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria) quest’autore imbocca la strada del film bellico, con espliciti rimandi alla cinematografia di genere degli anni quaranta e cinquanta – il riferimento citato in più di un’occasione è a Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari - coniugata a un eccesso di effetti sanguinolenti degni del peggior cinema horror. Nella Francia occupata del 1940 una ragazzina ebrea sfugge al massacro della sua famiglia da parte di un sadico colonnello nazista. Quattro anni dopo la ritroviamo nelle vesti di proprietaria di una sala cinematografica parigina in cui i tedeschi vogliono proiettare, in anteprima, un film di propaganda dedicato alle gesta di un cecchino che ha ucciso, da solo, decine di soldati americani. L'occasione è ghiotta per organizzare un attentato che potrebbe mutare le sorti della guerra, poiché alla serata parteciperà lo stesso Adolf Hitler con l'intera dirigenza del Reich. L'evento ha attirato anche l'attenzione degli alleati, che incaricano della bisogna una compagnia specializzata in azioni pericolose e detta dei bastardi perché i suoi membri hanno l'abitudine di incidere una croce uncinata sulla fronte dei pochissimi prigionieri che lasciano in vita. E' un gruppo di volontari ebreo-americani che da qualche tempo causa lutti e danni ai nazisti, usando metodi guerriglieri e fornendo prova di una ferocia incredibile. Tutto dovrebbe risolversi in una notte e cosi sarà, con tanto d’incendi, scoppi di bombe e raffiche di mitra a non finire. Fantastoria, dunque, legata sia al cinema di genere sia ai fumetti, con tanto di eroi che sopravvivono a ferite che ucciderebbero un elevante, difficili operazioni chirurgiche eseguite come nulla fosse e via elencando. Non a caso il racconto inizia con il classico c’era una volta. Il punto irrisolto del film non è tanto nella scelta, del tutto legittima, di usare materiali popolari, quanto nel ricavarne un testo privo di ritmo, con vari momenti noiosi, senza ironia, un'opera lunghissima e, nello stesso tempo, carente proprio sul terreno che ha scelto di percorrere. Si dirà che anche Sergio Leone amava dilatare i tempi, ma in questo caso non si tratta tanto di dilatazione, quanto di allungamento ingiustificato, come dimostra l'intero primo episodio, con il dialogo fra il feroce nazista e il contadino francese che nasconde la famiglia ebrea.
Il nastro bianco
Il nastro bianco
Michael Haneke è un regista austriaco la cui filmografia è quasi interamente rivolta ai crimini che si nascondono sotto la rispettabilità borghese, in particolare alla violenza e i delitti compiuti dai giovani. Si può dire che, per lui, la malvagità naturale dell'età giovanile sia quasi un'ossessione e che attraverso la sua denuncia si prefigga di tracciare il quadro di un'intera società. Le opere di questo regista, spesso intrise di una violenza quasi fisicamente insopportabile, solo in pochissimi casi si alimentano di scene di sangue, aggressioni o delitti espressi in modo diretto. Ciò che gli interessa è suggerire la ferocia, farla percepire cogliendo il prima e il dopo dei fatti, quasi mai l'accadimento nel suo presentarsi diretto. E' il medesimo metodo usato in Das Weisse Band (Il nastro bianco) in cui, per la prima volta, costruisce una storia volta al passato. Il film si colloca fra il 1913 e il 1915, in un paesino protestante della Germania del Nord. Qui avvengono una serie di fatti gravissimi, apparentemente slegati, ma che, alla fine, risulteranno essere commessi da un gruppo di giovani che colpiscono i maggiorenti, i loro figli, in particolare i deboli e gli handicappati. Solo il maestro del borgo riuscirà a tessere le fila dell'intera vicenda, ma il pastore del villaggio gli impedirà di rivelarle minacciandolo di gravi sanzioni. Nel frattempo i tuoni della guerra si fanno sempre più forti e il mondo, quel villaggio compreso, sembra aver altro a cui pensare. Ancora una volta una storia individuale, superbamente fotografata in un bianco e nero pittorico, fa da spia ad una malessere più ampio che si annuncia con i toni terribili della fine di un impero e con le prime avvisaglie del nazismo: la persecuzione dei diversi. Non è la miglior opera di questo autore, che si è lasciato prendere la mano, almeno in parte, da un gusto formale un po' troppo fine a se stesso, ma è un film importante e di grande struttura narrativa.
A occhi spalancati
A occhi spalancati


La sezione Un Certain Regard ha presentato due titoli, nessuno dei quali entusiasmante. Einaym Pkuhoy (A occhi spalancatii, con evidente riferimento al titolo - Eyes Wide Shut - dell'ultimo film di Stanley Kubrich) porta la firma dell'israeliano Haim Tabakman e racconta una storia d'amore omosessuale fra due ebrei ortodossi. Titubanze iniziali, passione violenta poi, con prevedibile corollario d'indignazione e d'aggressioni da parte della comunità. Se voleva essere un film di denuncia delle umiliazioni cui sono sottoposti i gay, allora è troppo generico e ambiguo, se, invece, mirava a colpire l'oltranzismo religioso, allora appare scarsamente motivato. In poche parole un film pieno di buone intenzioni, girato in maniera professionalmente corretta, ma sostanzialmente mancato.
Ninfa
Ninfa
Non migliore il bilancio a cui approda il tailandese Pen-Ek Ratanuruang con Nymph (Ninfa). Una coppia campeggia ai bordi di una foresta, i due sono in crisi: lei ha un amante e non vuole più fare l'amore con lui che, preso dal suo lavoro di fotografo, passa le ore a fissare sulla pellicola grovigli di radici e liane. Un giorno lui scompare e nessuno riesce a trovarlo. Lei ritorna a casa e, al risveglio, se lo ritrova nel letto. Si riconciliano e lei è persino disposta ad abbandonare l'amante che, a sua volta, ha lascito la moglie. Nuova scomparsa dell'uomo e inseguimento sino ad un grande albero che sembra dotato di poteri magici. Nuovo ritorno e imposizione della fine del legame adulterino. Francamente è difficile sbrogliare tanti simboli e riferimenti, se non cogliendo il senso di una ambigua e assoluta difesa della famiglia in nome della legge della natura e in presenza di un'occidentalizzazione spinta della società (entrambi gli adulteri sono moderni, belli e di successo). Idea sicuramente importante in una società orientale densa di valori come quella tailandese, ma piuttosto discutibile alle nostre latitudini.