Festival di Cannes 2009

Stampa
PDF
Indice
Festival di Cannes 2009
2° giorno
3° giorno
4° giorno
5° giorno
6° giorno
7° giorno
8° giorno
9° giorno
10° giorno
11° giorno
12° giorno
I premi
Tutte le pagine
Festival di Cannes 2009 - Giorno per giorno. 14-25 maggio 2009
Merceledì 13 maggio – Primo giorno.

Image

E’ bene essere prudenti nella valutazione delle manifestazioni sulla base dei soli annunci del programma, tuttavia è possibile individuarvi almeno speranze o perplessità di riuscita. Con questo metro il cartello del Festival International du Film di Cannes, giunto alla 62ma edizione, sembra tendere ad andare sul sicuro. Lo fa in varie direzioni: affidandosi a cineasti sperimentati (Marco Bellocchio, Pedro Almodóvar, Michael Hanake, Ang Lee, Ken Loach, Alain Resnais,…), inserendo in competizione autori che si sono già affermati in questa competizione (Jane Campion, Quentin Tarantino, Lars Von Trier, …). L’insieme di questi fattori porta a prevedere una manifestazione indirizzata su linee tradizionali, con poche sorprese, quantomeno per ciò che concerne la parte competitiva. Diverso il ventaglio proposto da Un certain Regard, la sezione riservata ai titoli che i selezionatori ritengono non sufficientemente clamorosi o troppo originali. Qui potrebbero registrarsi alcune piacevoli sorprese a iniziare dal romeno Corneliu Porumboiu, che presenta Politist, adjectiv (Poliziesco, aggettivo) e dal gruppo dei suoi connazionali (Hanno Höfer, Razvan Marculescu, Cristian Mungiu, Constantin Popescu, Ioana Uricaru) che hanno messo assieme l’antologia Aminiri din epoca de aur (Racconti dell'età dell'oro). Un dato di una certa novità si può cogliere nella decisione di riservare l’apertura della manifestazione al disegno animato Up (Là sopra) di Pete Docter e Bob Peterson, un film prodotto dalla Pixar, sezione specializzata nell’animazione elettronica della famosa Walt Disney. Questa decisione può essere letta in due modi. Da un lato si può interpretare come un’autentica consacrazione del disegno animato da parte di una grande rassegna internazionale che da qualche tempo ha mostrato sensibilità in questa direzione, come testimoniano le messe in programma di Shrek 1 (2001) e 2 (2004) e Spirit: Stallion of the Cimarron (Spirit cavallo selvaggio, 2002). Dall’altro può confermare, invece, lo stato di difficoltà in cui si dibatte il cinema a livello mondiale, con scarsità relativa sia di produzioni culturalmente apprezzabili, sia di titoli commercialmente forti, ma anche capaci di presentare doti sufficienti a giustificarne la presenza nel programma di una grande rassegna internazionale. Per quanto riguarda il film di chiusura, invece, i dubbi sono pochi, poiché Coco Chanel & Igor Stravinsky di Jan Kounen si annuncia come il solito film biografico ricco di talenti e denari, ma non altrettanto d’idee.
Image
Come già detto si è iniziato con Up (Là sopra), film d'animazione elettronica prodotto dalla Disney – Pixar e diretto da Pete Docter assieme a Bob Peterson. Al festival il film è stato presentato nella versione in 3D e ha stupito più per la resa tecnica che per l'originalità del racconto. Iniziamo dal primo punto. Il cinema in tre dimensioni ha fatto passi da gigante dai tempi in cui costringeva gli spettatori a guardare lo schermo con gli occhi coperti da precari pezzetti di cartoncino con una lente rossa e una verde. Oggi si usano veri occhiali, che possono anche essere messi sopra a quelli da vista, con lenti polarizzate e di un solo colore. Ciò non toglie che, dopo qualche decina di minuti, causino un certo fastidio, impaccio che sminuisce in parte la bellezza di immagini dotate di una notevole profondità di campo e di un pregevole realismo. Venendo al film c'è da dire che si tratta del solito prodotto ricco di buoni sentimenti e sorretto da quella facile morale a cui ci ha abituati il cinema made in Walt Disney. La storia ha qualche riferimento, quantomeno in partenza, al ben più fantastico Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004) del giapponese Hayao Miyazaki e racconta di un burbero pensionato americano la cui casa è circondata da cantieri che stanno costruendo enormi grattacieli. L'uomo, che in vita ha fatto il venditore di palloncini, colpisce per rabbia un operaio che ha danneggiato la sua cassetta per le lettere ed è condannato ad essere rinchiuso in un cento anziani perché socialmente pericoloso. Quando arrivano gli infermieri a prelevarlo, rimangono a bocca aperta vedendo la villetta prendere il volo sorretta da migliaia di palloncini. Nelle intenzioni dell'anziano, cui a sua insaputa si è aggiunto un boy scout grassottello e invadente, la meta dovrebbe essere quell'America Latina che ha sognato di visitare sin dall'infanzia, seguendo le orme di un famoso esploratore. Il percorso non è facile e il vegliardo dovrà vedersela proprio col suo mito di un tempo, diventato una sorta di ossesso che brama la conquista di un uccello rarissimo. La morale della favola, è il caso di dirlo, segna la riconciliazione con la natura, la bellezza della vita e il gusto di aiutare gli altri. E' un film decisamente per giovani e adulti non troppo cresciuti destinato a pingui incassi, stupori tecnici e corta memoria.

Giovedì 14 maggio – Secondo giorno
Febbre primaverile
Febbre primaverile
Lou Ye è un regista scomodo. Il suo primo film, Zhou mo qing ren (Gli amanti del fine settimana, 1994) è stato censurato, il secondo, Suzhou he (Il fiume Sezhou, 2000) lo ha girato clandestinamente, non ha potuto accompagnare il terzo, Zi hudie (Farfalla porpora, 2003), a Cannes dove era stato selezionato per la sezione Un Certain Regard, non avendo ottenuto il visto d'uscita, mentre il quarto Yihe yuan (Una giovinezza cinese, 2006) gli è costato un bando di cinque anni in quanto trattava un tema di cui i burocrati cinesi non vogliono si parli: gli scontri della Piazza Tienanmen del giugno 1989. Molto probabilmente anche questo Chun feng chen zui de ye wan (Febbre di primavera), visto in apertura del festival, non avrà vita facile. La storia è ambientata a Nanchino, ai giorni nostri, ma è liberamente ispirata ad un romanzo scritto da Yu Dafu nel 1923 e ruota attorno a cinque personaggi, due donne e tre uomini che intrecciano i loro amori in un carosello alla cui base ci sono gli incontri fra il giovane maliardo Jiang Cheng che, prima attira il marito di Wang Ping, poi, Lou Haitao, che era stato ingaggiato da Wang per scoprite l'infedeltà del coniuge. Tutto culmina in una notte di primavera in cui i sensi sembrano esplodere sia verso l'altro sia verso il proprio sesso. Il film è girato con macchina digitale manovrata a mano, usando tempi narrativi distesi, attenzione ai dettagli dei corpi e a quelli degli ambienti. Ne nasce un testo solleticante, ma eccessivamente pesante dal punto di vista stilistico, ripetitivo senza vera necessità, a tratti intellettualmente compiaciuto come testimoniano i non pochi riferimenti Jules e Jim (Jules et Jim, 1962) di François Truffaut. La radiografia dei sentimenti e delle pulsioni profonde trova nel regista un esaminatore attento, ma a tratti prolisso. Il suo lavoro ha forza anticonvenzionale, ma anche venature di compiacimento. Un autore di classe, ma privo di misura.

Venerdì 15 maggio – Terzo giorno
La vasca dei pesci
La vasca dei pesci
Non è una novità che i Festival di cinema non amino i film di commedia e li premino molto raramente. La predilezione, infatti, va ai drammi e alle tragedie. La 62ma edizione del Festival di Cannes ha confermato in pieno questa tendenza aprendo con due titoli particolarmente cupi non di potrebbe. Fish Tank (La vasca dei pesci) porta la firma dell'inglese Andrea Arnold che aveva ottenuto qui, nel 2006, il Premio della Giuria con Red Road (Strada Rossa). L'ambiente è quello della periferia di una media città inglese (il film è stato girato nel Kent) ove una quindicenne, che vive con la madre single e la sorella minore, si scontra continuamente con le coetanee, anela a liberare una vecchia giumenta che un gruppo di gitani tiene legata ad un masso, sfugge la scuola e qualsiasi impegno civile. Le cose precipitano quando la madre si porta in casa un bel giovanotto che, lo scopriremo alla fine, è sposato con prole. L'uomo non disdegna le grazie della ragazzina, ma l'abbandona dopo averla sedotta. Furiosa la giovane gli rapisce la figlia per qualche ora, quindi sembra avviarsi ad una vita più regolare al fianco di uno degli zingari. Il film non dice nulla di nuovo, tenuto conto che sono molte le opere proposteci dal cinema britannico dedicate alle difficili condizioni e al degrado morale di molti giovani di quel paese. I momenti di maggiore novità vengono dall'interpretazione intensa della debuttante Katie Jarvis e da uno sguardo freddo e lucido sulla periferia di una grande città segnata da un'abdicazione pressoché totale di ogni valore e senso di solidarietà.
Sete
Sete
Se quello d'apertura della competizione è stato un film ruvido, il secondo lo è stato ancora di più. Bak-jwi (Sete – Questo è il mio sangue) del sudcoreano Park Chan-Wook è un film di vampiri con al centro un prete cattolico che, causa un misterioso virus che sta devastando l'umanità, si trasforma in non morto. Come nella migliore tradizione contagia anche una donna che diventa la sua complice e amante. Già in passato questo regista aveva mostrato una forte predilezione per le immagini e le sequenze crude, ributtanti e violente, come testimoniano Oldboy (2003) e Chinjeolhan geumjassi (Lady Vendetta, 2005). Questa volta,sembra essere andato oltre, con sangue che zampilla a flotti, vomito in abbondanza, aggressioni e uccisioni a ripetizione. Ciò che resta è un senso di vuoto per un'operazione tesa più a stupire e disgustare che non a costruire un discorso minimo. Si aggiunga una quasi totale incapacità del protagonista a mostrare anche la più semplice emozione e si avrà il quadro completo di un bilancio decisamente deludente.
I Gatti persiani
I Gatti Persiani
Ha aperto le danze anche la sezione Un Certain Regard e lo ha fatto assi bene con Zasi az gorbehayeh irani khabar nadareh (In Iran nessuno sa niente dei gatti persiani) di Bahman Ghobadi. Il regista - è il compagno di Roxana Saberi, la giornalista irano-americana imprigionata con l'accusa di spionaggio e liberata solo di recente - racconta il calvario di un gruppo di giovani musicisti rock per riuscire a organizzare un concerto. Ogni sforzo sarà vano e ogni strada, sia legale sia illegale, robustamente sbarrata. Solo il suicidio o la morte porranno fine a questa immane fatica, tesa unicamente ad esprimere la propria creatività. Il film è un lungo percorso nei meandri degli ardori dei giovani musicisti, capaci di riunirsi per suonare persino in una stalla, e sui numerosi sbarramenti che il regime pone sul loro cammino. Un testo bello e drammatico che somma la denuncia dell'oppressione alla passione per i lavoro e la creatività dei giovani.
Bamboola Gonfiabile
Bamboola Gonfiabile
Meno pregevole il secondo titolo di questa sezione, Kuki ningyo (Bambola gonfiabile) del giapponese Kore-eda Hirokazu. L'idea di partenza è decisamente originale: il cameriere di un ristorante di lusso allevia la solitudine con una bambola gonfiabile a cui affida il ruolo di vera compagna di vita. Poco a poco l'oggetto assume caratteristiche umane, scopre di avere un cuore, di poter parlare e stabilire rapporti con gli uomini. Tuttavia è pur sempre uno strumento di piacere e come tale finirà in una discarica di rifiuti non prima di avere accidentalmente ucciso l'uomo di cui si era innamorata. Molto probabilmente il regista pensa di avere nascosto nei risvolti della storia osservazioni e filosofemi profondi, ma così non è. Il film ha una buona partenza, poi si perde aggrovigliandosi su sé stesso senza cogliere un senso qualsiasi.

Sabato 16 maggio – Quarto giorno
Stella brillante
Stella brillante
Due titoli importanti per il quarto giorno del Festival. Con Bright Star (Stella brillante) l'australiana Jane Campion porta sullo schermo l'amore travagliato e infelice del grande poeta romantico inglese John Keats (1795 – 1821) per la giovane Fanny Brawne. I due si conobbero, come vicini di casa, nel 1818, si amarono, fidanzarono, ma non si sposarono. Quando venne il momento in cui le nozze sembravano possibili con il crollo degli ostacoli di censo che li separavano - lei era più che benestante, lui poverissimo - il letterato morì di tubercolosi, a Roma dove si era rifugiato sperando nei benefici di un clima migliore di quello inglese. La regista racconta questa tragica storia d'amore con uno sguardo particolarmente rivolto alla tenacia e alla passione della donna, che arrivò a sfidare le convenzioni del tempo e le stesse regole di famiglia pur di unirsi all'uomo che amava. In ciò serpeggia qualche frammento della battaglia intelligentemente femminista che questa regista conduce sin dai tempi di Sweetie (1989) e che ha trovato il suo apice in Lezioni di piano (The Piano, 1993). L'autrice mostra una coerenza di tutto rispetto che non teme di misurarsi con la storia e con personaggi di grande spessore intellettuale e creativo. Il tutto sorretto da uno stile narrativo limpido e classicheggiante che costituisce il dato di maggior pregio del film, parzialmente negativo, invece, un gusto per la scenografia d'epoca e per la bella fotografia che frenano alcuni momenti del discorso. Per quanto riguarda gli interpreti, se Abbie Cornisch da a Fanny tutte le sfumature che le servono – magari con qualche presa di coscienza femminista in eccesso – Ben Wishaw non va oltre il cliché del poeta sfortunato, tisico e disprezzato dai contemporanei.
Andare a Woodstock
Andare a Woodstock
Il secondo titolo del programma competitivo è stato, Taking Woodstock, (letteralmente Andare a Woodstock anche se in Italia uscirà con il titolo Motel Woodstock) di Ang Lee, prende spunto dal libro Taking Woodstock: A True Story of a Riot, a Concert, and a Life (Andando a Woodstock: la vera storia di una rivolta, un concerto e una vita) l'autobiografia che Elliot Tiber ha scritto con Tom Mont. Lo scenario è un preciso momento storico: il grande concerto tenutosi fra il 15 e il 18 agosto del 1969 in un campo a pochi chilometri da New York e cui parteciparono migliaia di giovani pacifisti, hippy, fan della musica rock e strenui avversari della guerra in Viet Nam. Questo sfondo storico contorna e alimenta la presa di coscienza del giovane, d'origine ebraica, Elliot Tiber che mette in moto l'intero meccanismo proponendo agli organizzatori - che erano stati cacciati da un borgo vicino i cui abitanti non volevano aver a che fare con persone sporche, ladre e antipatriottiche - uno spazio prossimo al motel dei genitori. Quest'ottica mette in secondo piano l'evento – la colonna sonora non contiene quasi nessuna musica fra quelle che risuonarono sul palco del concerto – in favore di un precorso di formazione, in particolare l'accettazione e lo svelamento della propria omosessualità. Un'ottica del tutto legittima e coerente con la filmografia del regista – si pensi a Il banchetto di nozze (Hsi yen, 1993) e a I segreti di Brokeback Mountain (Brokeback Mountain, 2005) – ma che trascura, anche se la cita a parole, la forza esplosiva, per un'intera generazione, di quell'evento. Stilisticamente il film riprende alcuni stilemi dell'epoca, primo fra tutti la divisione dello schermo in parti in cui si svolgono altrettante azioni, annega brevi spezzoni documentari in un tessuto narrativo integralmente ricostruito, inventa personaggi, come l'ex – marine mutatosi in travestito, piacevoli e funzionali all'assunto principale, ma poco inseriti nel filone narrativo principale. In altre parole, è un film piacevole e interessante, ma tutt'altro che totalmente soddisfacente.
Preziosa
Preziosa
La sezione Un Certain Regard continua a proporre titoli di grande interesse. Lo è senz'altro Precious (Preziosa) in cui l'americano Lee Daniel racconta, partendo da romanzo Pusch (Push - La storia di Precious Jones, 1996) della poetessa newyorchese Ramona Lofton, in arte Sapphire, la tragica esistenza di una sedicenne di colore, grassa e già madre di due figli, analfabeta, ma dotata in matematica. La sua fortuna è di trovare un'insegnate, lesbica e bella, di una scuola speciale che, lentamente e con molta costanza, riesce a riportarla ad un'esistenza quasi normale: la poveretta ha contratto l'AIDS, passatole dal padre che l'ha più volte violentata e messa in cinta. Progressivamente e senza scene madri, il regista racconta questa tragedia, da voce all'incesto e allo stupro, senza ricorrere ad effetti melodrammatici, ma proprio per questo serrando alla gola lo spettatore e costringendolo a guardare in faccia una realtà orribile. E' un film ben costruito, preciso nelle descrizioni psicologiche e capace di raccontare, con toni misurati e stile limpido, una realtà che definire terribile è dire poco.
Poliziesco, aggettivo
Poliziesco, aggettivo
Corneliu Porumboiu ha alle spalle un titolo di grande forza che ha trovato la via della distribuzione anche nelle nostre sale: A Fost sau n-a fost? (Ad est di Bucarest, 2006). Questa sua nuova fatica, Politist, adjectiv (Poliziesco, aggettivo), è uno straordinario ritratto dell'adeguamento di un giovane agente alle regole burocratiche e al rispetto delle gerarchie. Cristi è un poliziotto che prende sul serio il lavoro, ma non lascia dietro la porta le ragioni umanitarie. Un informatore gli segnala che alcuni liceali fumano hashish. Cocciuto e umano, inizia a pedinare uno degli studenti e si rende conto che si tratta di nulla più che una bravata giovanile e che il vero colpevole, se mai ne esiste uno, è il fratello maggiore di uno dei ragazzi che utilizza frequenti viaggi in Italia per contrabbandare fumo. A questo punto la logica vorrebbe che si lasciassero perdere i ragazzini per prendere in trappola il fornitore, ma il capo della polizia pretende arresti immediati e con una lezione di semantica, da qui il titolo, degna di una cattedra universitaria, costringe l'agente ad organizzare una retata, con tanto di telecamere, progettata come se si trattasse di arrestare qualche pericoloso delinquente. E' un film apparentemente semplice, in realtà ricco di riflessioni sulla vita e la società rumene. Certo vi sono lungaggini che ostacolano alcuni momenti del racconto – i pedinamenti seguiti quasi in diretta – ma il risultato finale è di grande interesse e conferma il momento di particolare grazia attraversato dal cinema rumeno.

Domenica 17 maggio – Quinto giorno
Un profeta
Un profeta
Jacques Audiard ha un particolare interesse nelle storie criminali e sembra averlo raccolto ed esaltato in questo Un prophète (Un profeta) in cui racconta il percorso verso l'affermazione nel mondo della criminalità di un giovane magrebino. Malik El Djebena è diventato da poco maggiorenne quando varca il cancello della Prigione Centrale, condannato a sei anni di reclusione per aver picchiato alcuni agenti di polizia. Non sa né leggere né scrivere ed impara sin dalle prime ore come le leggi del carcere siano molto diverse da quelle che vigono fuori. Lo picchiano, gli rubano le scarpe, lo isolano. L'unica soluzione sembra quella di mettersi al servizio di una banda di corsi, metà indipendentisti, metà delinquenti. Il suo primo compito è uccidere un arabo che si appresta a testimoniare contro la banda, lui non ha mai ammazzato nessuno, ma esegue il compito e viene accolto, seppure in un ruolo servile, nelle fila della gang. Inizia così il suo apprendistato nella malavita, un percorso che lo porterà, di tappa in tappa, ad essere considerato, quando uscirà dal carcere avendo scontato la pena, un vero e proprio nuovo capo. Il film dettaglia quest'ascesa con grande attenzione alle varie tappe, acutezza psicologica, gusto per i dettagli. Sviluppa temi non consueti, come quello dei contrasti fra malavita corsa e araba, illumina la complicità dei carcerieri nel consentire ai delinquenti di continuare a gestire gli affari pur entro le mura della prigione. E' un testo robusto nella costruzione e ben articolato, con il solo difetto di eccedere in lunghezza, quasi due ore e mezzo di proiezione, e di non lesinare effettacci inutili come il fantasma del primo assassinato che compare, di tanto in tanto, davanti al protagonista. In definitiva un testo professionalmente maturo, con alcuni spunti interessanti, ma tutt'altro che originale.
Macellata
Macellata
La concisione dello stile e del ritmo non caratterizza i film criminali e carcerari messi in concorso quest'anno. Lo testimonia anche Kinatay (Macellata), del filippino Brillante Mendoza, in cui si racconta la notte interminabile passata da un giovane studente di criminologia che ha appena regolarizzato il legame con la donna che gli ha dato un figlio. Lo studente, per consentire alla compagna di studiare a sua volta, si mette al servizio di una banda incaricata di punire una prostituta che non ha pagato la droga che le è stata fornita. La donna è sequestrata, picchiata, stuprata e, alla fine, uccisa e squartata. Un bel programmino lungo poco meno di due ore, girato con macchina a mano e con toni cupi, spesso nel buio quasi totale. Lo scopo dovrebbe essere quello di denunciare la violenza e l'incapacità della polizia a porvi rimedio, in realtà il tasso di compiacimento è talmente alto da rasentare il disgusto. Come già accadeva nel precedente Serbis, visto lo scorso anno sempre qui, l'impressione è di un'operazione furba, che solletica i peggiori istinti dello spettatore facendo finta di denunciarli.
Madre
Madre
Giornata fiacca anche a Un Certain Regard, ove sono stati presentati un modesto film sudcoreano, Mother (Madre) di Bong Joon-Ho, e un ancor meno interessante film australiano, Samson and Delilah (Sansone e Dalila) di Warnick Thornton. Il primo è, nella sostanza, un giallo basato su una madre che tenta in ogni modo di scagionare il figlio, corto di mente, dall'accusa di aver ucciso una studentessa avida di rapporti con gli uomini. Quando le ricerche della donna la porteranno a raccogliere la testimonianza diretta della colpevolezza del figlio, piuttosto che arrendersi all'evidenza, ucciderà il testimone e incendierà la baracca in cui vive. Questa volta sarà il figlio a aiutarla, nascondendo la prova che potrebbe incriminarla. Il film è lento nella descrizione dei fatti, arzigogolato in quella dei personaggi, poco ritmato e sostanzialmente non va oltre ciò che porta sullo schermo.
Sansone e Dalila
Sansone e Dalila
Ancora peggiore il bilancio a cui approda il film assi, storia di due giovani aborigeni che fuggono di casa, si perdono nei meandri dello sniffo di benzina, subiscono violenze ed soprusi, ma riescono, grazie alla forza di volontà della ragazza, a risalire le china e costruire una vera famiglia. E' un testo generoso nella denuncia dell'emarginazione che colpisce gli abitanti originali dell'Australia, ma non va oltre la perorazione generosa e retorica.

Lunedì 18 maggio – Sesto giorno
Vendetta
Vendetta
C'è un tipo di cinema la cui migliore definizione è: giocattolo. Questo nel senso che il suo primo obiettivo è stupire, il secondo divertire, che poi se ne possano, volendolo fermamente, ricavare anche altri significati, sia stilistici che morali, è altro discorso ed esula quasi del tutto dall'evidenza dello schermo. Il cino - hongkonghese Jonnie To, una sessantina di titoli all'attivo come produttore e regista, appartiene all'universo dei cineasti che amano questo tipo di cinema. Lo conferma Vengeance (in mandarino Fu chou, Vendetta) accolto in concorso al Festival. Un ristoratore parigino, interprete un Johnny Hollyday sempre più imbolsito, con un passato di killer arriva a Macao per assistere e vendicare la figlia, unica, casuale superstite di un massacro ordito da un mafioso locale che ha fatto sterminare tutta la sua famiglia. Il francese entra casualmente in contatto con un gruppo di fuoco che si dedica agli omicidi a pagamento, li assolda cedendo loro tutto ciò che possiede e accompagna nella ricerca degli assassini. Un percorso ricco di sparatorie e colpi di scena che si sviluppa fra la città ex portoghese e Hong Kong. Alla fine, sarà il solo a sopravvivere e, anche se ha perso la memoria, a riuscire a farsi giustizia. Questo autore è diventato famoso per l'abilità con cui riesce ad organizzare le scene d'azione, quasi sempre simili a balletti, per le immagini dettagliate di armi e oggetti – retaggio di una forte vocazione pubblicitaria – e l'abilità nella gestione di interminabili sparatorie in cui sono esplosi migliaia di colpi con esiti raramente letali per i protagonisti del film. E' un cinema che mira al grande pubblico, al successo presso i giovani spettatori, ma che ha trovato estimatori anche presso una parte della critica. Francamente, non riusciamo proprio ad entusiasmarci. Certo la confezione è accattivante, il ritmo quasi sempre ammagliante, alcuni inserti ironici riescono a rompere la ripetitività degli scontri. Tuttavia, questo non basta a fare di un film un'opera d'autore o, quantomeno, una proposta intrigante.
Anticristo
Anticristo
Indignazione e delusione ha suscitato il tanto atteso Antichrist (Anticristo) del regista danese Lars Von Trier, in cui una coppia perde il figlio infante che cade dalla finestra mentre i due fanno all'amore. Il marito, nel tentativo di porre rimedio alla profonda depressione in cui è caduta la moglie, la conduce in un capanno circondato da una foresta debitamente misteriosa. Solo che la donna perde completamente la bussola e, nell'ordine, colpisce con una terribile tranvata i genitali dello sposo, lo masturba facendo sgorgare sangue, gli trapana una caviglia e vi applica una pesante mola in modo che non possa fuggire, dopo di che si taglia la clitoride con una paio di forbici. L'uomo, da parte sua la strangola non appena riesce a liberarsi. Tutto questo dovrebbe a servire ad annunciare l'arrivo dell'Anticristo (il piccino che muore all'inizio? La moglie? L'uomo che la uccide?) suscitato dalla brama di sesso delle donne. Raramente ci è capitato di assistere ad un film più antifemminile, volgare, gratuito, opportunista. Vi è, unica ragione evidente, una continua tensione alla ricerca dello scandalo e del far parlare di se, cosa che è probabile accada nelle prossime ore. L'inizio ha un tono quasi bergmamiano, che la regia abbandona quasi subito deliziandosi di amplessi e efferatezze varie.
Il padre dei miei figli
Il padre dei miei figli
La sezione Un Certain Regard ha presentato un film francese, tipico esempio di quella qualità media transalpina universalmente riconosciuta da critici e dalla parte più colta e sensibile degli spettatori. Le père de mes enfants (Il padre dei miei figli) è l'opera seconda di Mia Hansen- Løve, una cineasta arrivata dietro la macchina da presa passando per la recitazione e la critica. Un produttore di film di qualità, con molto prestigio e altrettanti debiti, è giunto alla resa dei conti e si uccide. La seconda moglie tenta di raddrizzare l'azienda, ma è costretta ad abbandonare la partita assistendo impotente alla liquidazione della ditta. Il film è ben sceneggiato, con psicologie precise, guarda con abilità al mondo della produzione qualitativamente pregevole, ma economicamente fallimentare, e tratteggia un bel ritratto di famiglia borghese in un interno. Lo fa con alta professionalità, ma senza vera originalità, per cui spesso si ha l'impressione di assistere ad un film già visto.
L'armata del crimine
L'armata del criminne
Molto più interessante L'arnèe du crime (L'esercito del crimine), presentato come proiezione speciale e diretto dal marsigliese Robert Guédiguian che riprende la vicenda di quel gruppo partigiano, comunista e internazionalista, che è stato già al centro de L'affiche rouge (Il manifesto rosso, 1976) di Frank Cassenti. Siamo nella Francia occupata dai tedeschi, qui un poeta e combattente d'origine armena, Missak Manouchian, mette in assieme una brigata formata da ungheresi, polacchi, italiani, rumeni, spagnoli. Ventitré di loro, fra cui una donna, saranno fucilati, con grande clamore propagandistico nel febbraio del 1944. I nazisti li indicheranno l'opinione pubblica come l'armata del crimine e punteranno molto sulla loro natura di immigrati e, in molti casi, reduci dalla guerra di Spagna. Il regista affronta questa storia con l'obiettivo sia di rendere omaggio ai resistenti comunisti, sia di esaltare il valore degli immigrate verso la patria d'adozione. Il film ha un taglio popolare, nel senso migliore del termine, e mira a far comprendere ad un vasto pubblico una storia che ha non pochi agganci con i pessimi sentimenti verso i nuovi arrivati che circolano anche oggi e non solo nella società francese.

Martedì 19 maggio – Settimo giorno
Cercando Eric
Cercando Eric
Eric Bishop fa il postino a Manchester, la sua è una vita disastrata dopo il divorzio dalla prima moglie, due figli che non parlano con lui e gli riempiono la casa di ospiti inattesi e di merci di dubbia provenienza. Ha anche una figlia che sta per diplomarsi e che lo ha già reso nonno. Il lavoro è monotono e privo di soddisfazioni, solo le bevute con i colleghi e le partite di calcio del Manchester United, viste in gruppo o seguite, in trasferta, in pullman lo soddisfano e danno un minimo di luce alla sua vita. Un giorno si trova in camera il fantasma di Eric Cantona, il famoso giocatore francese che ha passato alcune stagioni gloriose e ricche di polemiche – prese a calci un tifoso che lo aveva chiamato francese di merda – proprio nel M.U. L'ex – campione, famoso per le battute e i proverbi con cui sconcertava i giornalisti alle conferenze stampa, inizia ad impartirgli alcune lezioni di vita tese a fargli riconquistare l'ex moglie e a risolvere un pericolosa situazione in cui si è infilato il figlio maggiore facendo da spalla ad un delinquente, capo di una banda molto pericolosa. La soluzione verrà da una rumorosa, quando devastante, incursione di tifosi e colleghi di lavoro nella villa del criminale che sarà devastata, il padrone coperto di vernice e filmato nella sua umiliazione con minaccia di mettere il tutto su You Tube. Con Looking for Eric (Cercando Eric) Kean Loach firma un dei suoi film migliori, un'opera in cui l'ironia, la solidarietà di classe – impareggiabile quell'Eric Cantona che saluta la fine dell'incursione nella villa del gangster con il pugno chiuso – la forza delle relazioni fra lavoratori: quando lasciano il malvivente imbrattato fra la devastazione della sua villa gli gridano: non ti azzardare a dare più fastidio al nostro amico, noi sapremo sempre trovarti, siamo postini! In quest'opera il regista inglese sposa amabilmente una piacevole ironia con la passione per il calcio e la militanza d'estrema sinistra. Il suo modo di mettere in circolo il mito - la sola idea del fantasma di Eric Cantona avrebbe dovuto far tremare i polsi - trasformandolo in qualche cosa di utile e profondamente inserito nei bisogni della classe operaia è un esempio di intelligenza politica e di cinema d'alto spessore sociale. Allo stesso modo gli bastano poche battute, la discussione al pub fra tifosi vecchio stampo e nuove leve, per disegnare le trasformazioni, anche politiche, subite dallo sport più bello del mondo con l'entrata in campo di sponsor miliardari, televisioni a pagamento, commerci vari. Un film stilisticamente maturo, privo di fronzoli, forte nel discorso e nelle proposte. Un grande, classico, divertente, commovente cinéma de papà.
Vincere
Vincere
Il secondo film in concorso della giornata era il solo titolo italiano ammesso alla competizione: Vincere di Marco Bellocchio. Lo spunto da cui è partito il regista era quanto mai avvincente e funzionale alla sua poetica: l'esaltazione dell'inquietudine giovanile, la denuncia dell'oppressione del potere, il disgusto per la corruzione delle azioni e delle idee che si accompagna all'avanzare degli anni. Nulla di più appropriato, dunque, della storia di Ida Dasser, moglie segreta di Benito Mussolini, che lo amò quando ancora militava nelle file socialiste. Un amore travolgente al punto che lei vendette ogni cosa per aiutarlo ad avviare il giornale Il popolo d'Italia, fondato dopo aver dato le dimissioni da L'Avanti!. Dal futuro Duce ebbe anche un figlio, Benito Albino Mussolini, prima riconosciuto poi rinnegato dal padre. Gliene derivò una continua sorveglianza della polizia politica, fu rinchiusa per anni in manicomio, privata della libertà e di ogni avere. Il figlio fu ugualmente messo in collegio, spedito all'estero per lunghi periodi e, infine, rinchiuso a sua volta in manicomio. Il film affronta un lungo periodo ricco di eventi: la Grande Guerra, la presa del potere del fascismo, il consolidamento del regime, la guerra imperiale, il secondo conflitto mondiale, la caduta del regime. Un arco temporale tanto ampio da rendere impossibile racchiuderlo nell'ambito di una sola opera e che, peraltro, non ha alcun intento di storico, anche se il regista non lesina il ricorso a cinegiornali, materiali di repertorio, sequenze di film di quegli anni, citazioni di eventi artistici, come la prima esposizione dei Futuristi, il tutto inserito in un'intelaiatura grafica ricca di citazioni riferibili allo stile dell’epoca. Non è, dunque, su questo versante che sorgono i maggiori dubbi, ma sulla rinuncia a trattare i temi che gli sono particolarmente cari a quest’autore. Una scelta fatta in favore di una storia d'amore che rientra poco nelle sue corde. La produzione e distribuzione della RAI, poi, ha fatto il resto, con immagini asfittiche, spesso giostrate su primi e primissimi pani che solo in rari casi – l'arrampicata della prigioniera sulle sbarre, il ritorno al paese natale vestita da suora – riescono ad assumere un preciso valore cinematografico. In conclusione un film piuttosto deludente che non sembra in grado, come sostengono alcuni, di costruire una metafora del fascismo o, meglio ancora, dei nostri giorni.
Indipendenza
Indipendenza
La sezione Un Certain Regard ha presentato due titoli decisamente d'autore. Indipendencia (Indipendenza) del giovane regista filippino Raya Martin è girato come un film degli anni quaranta, in un bianco e nero appena virato all'azzurro, sfondi dichiaratamente falsi e giungle costruite in studio. Siamo all'inizio degli anni venti e il paese, uscito da una ventina d'anni dalla dominazione spagnola, é in piena colonizzazione americana. Una madre si rifugia nella giungle con il figlio per sfuggire ai massacri che segnano le città. Qui incontrano una ragazza appena violentata e, con lei, formano una sorta di minicomunità che sopravvive per vari anni, ma sarà distrutta sia da un tifone sia perché raggiunta dai nuovi colonizzatori che non si fanno remora di uccidere donne e bambini. L'esperimento è stilisticamente curioso, ma manca di un reale collegamento con la dolorosa storia del paese, storia citata più che vissuta attraverso le immagini.
Irene
Irene
La seconda proposta odierna di questa sezione veniva da uno degli autori francesi più amati dalla critica: Alain Cavalier che, da qualche anno confeziona film in termini di diario personale, traducendo sino alle estreme conseguenze quella teoria della caméra-stylo cara ad Alexandre Astruc (1923) e che costituì una delle prime basi teoriche della nouvelle vague. Nel caso di Irene il regista ci consegna una lunga riflessione sull'amore - complesso, ma anche ricco di elementi di tensione - che lo legava alla moglie Iréne, morta in un incidente d'auto nel gennaio del 1972. Si sente e apprezza la mano del cineasta di razza che fa forza al pudore per esorcizzare una tragedia di cui sente ancora il peso, dando vita ad un'opera ricca d'umanità e sprazzi di commozione.

Mercoledì 20 maggio – Ottavo giorno
Abbracci spezzati
Abbracci spezzati
Pedro Almodóvar è fra gli autori che, quando hanno raggiunto una loro precisione stilistica e narrativa, la seguono fedelmente. Dopo le mattane dei primi anni e le oscillazioni della metà della sua carriera, da almeno una decina d'anni ha imboccato la via del melodramma. Lo ha fatto con la sicurezza di un allievo moderno di Douglas Sirk, un discepolo che ne ha assimilato la lezione e la porta avanti con un piacevole surplus d'ironia. Una leggerezza che non contrasta affatto con la profondità dei sentimenti e delle emozioni messe in circolo. La cosa trova conferma in Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati) presentato in concorso al Festival. L'azione si sviluppa su due piani temporali: il 1994 e il 2008. Quattordici anni or sono un regista stava dirigendo la sua prima commedia – qui il madrileno cita il suo Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull'orlo di una crisi di nervi, 1988) – con interprete che è anche l'amante di un magnate dalla finanza il quale, per farle un regalo, ha accettato di produrre il film. L'attrice s'innamora del regista, destando la furia e la gelosia del finanziatore. I due fuggono in un tranquillo albergo in riva al mare e qui, causa un terribile incidente stradale, la donna muore e il cineasta perde la vista. E' passato più di un decennio e il regista si è trasformato in uno sceneggiatore di successo, fedelmente assistito da una donna con la quale ha avuto una rapida storia d'amore molti anni prima. A dargli una mano c'è anche il figlio della fedele assistente, che scopriremo essere carne della sua carne. Raccontata in questo modo può sembrare una storia lineare e semplice, ma Pedro Almodóvar la narra intersecando i piani temporali, mescolando le storie, muovendosi intelligentemente e con gusto fra cinema e realtà, fra realismo e fantasia. Un film robusto, piacevolissimo, stilisticamente maturo, interpretato alla perfezione da un gruppo di attori fra cui spiccano Penélope Cruz, Lluís Homar, Blanca Portillo e José Luis Gómez.
Le erbacce
Le erbacce
Alain Resnais è uno dei maestri del cinema contemporaneo, basti pensare a capolavori come Hiroshima mon amour (1961) La guerre est finie (La guerra è finita, 1966). Nel suo cinema un posto ragguardevole lo hanno sempre avuto i testi ispirati da romanzi o copioni teatrali. Ispirati, si badi bene, non tratti, visto che questo cineasta non ha mai portato pedissequamente sullo schermo le pagine scritte, ma le ha sempre reinventare in modo originale. E' quanto accaduto anche al libro L'incident (L'incidente) di Christian Gailly. Ribattezzato Les Herbes folles (Le erbacce), che è diventato un film costruito in maniera sincopata, con sequenze che si inseguono senza quasi un reale filo logico, come se fossero il riassunto di uno sguardo circolare e, in parte, casuale sul mondo. Un filo conduttore apparente c'è: una donna è scippata della borsa, il ladro getta il portafoglio con i documenti in un parcheggio sotterraneo, qui lo trova un maturo signore, che vive in una deliziosa casa alla periferia di Parigi, sposato da trent'anni con una donna, la sua seconda moglie, più giovane di lui. Quasi inseguendo una normale curiosità, almeno all'inizio, l'uomo cerca di mettersi in contatto con la derubata, consegna il portafoglio alla polizia e, quando lei, una dentista affermata, lo chiama per ringraziarlo, le chiede un appuntamento che lei rifiuta indignata. Inizia così una sorta di persecuzione con lettere, telefonate, appostamenti, sino al danneggiamento delle gomme dell'automobile. A questo punto la dottoressa si rivolge alla polizia, che diffida il molestatore a continuare nelle sue iniziative. Tutto sembrerebbe finito, ma ora è la donna che vuole un rapporto con l'uomo e cerca persino la complicità della moglie per convincerlo a rivederla. Le cose sembrano aggiustarsi quando i tre partono per un volo, la dentista è anche pilota, ma il velivolo precipita. Non ci sono soluzioni precise da trarre, se non la constatazione dell'imprevedibilità e dell'irrazionalità della vita, della casualità che governa i nostri giorni. Il film è molto elegante, spesso divertente, qualche volta irresistibile, ma rimane lontano dal miglior cinema di questo autore, soprattutto non riesce a scrollarsi di dosso una patina letteraria che intralcia la forza delle immagini.
Racconti dell'età dell'oro
Racconti dell'età dell'oro
La sezione Un Certain Regard ha proposto un film rumeno e uno francese. Amintiri din epoca de aur (Racconti nell'età dell'oro) è un college di cinque storie firmate da Hanno Höfer, Razvan Marculescu, Cristian Mungiu, Costantin Popescu, Iona Uricaru e dedicate ad altrettante leggende metropolitane in vigore all'epoca di Nicolae Ceauşescu (1918 – 1989). Si passa dai pasticci innescati dall'annuncio della classica visita del dittatore a un villaggio di campagna, ai traffici a cui sono costretti – vera economia del baratto – i comuni mortali, alle assurdità imposte da funzionari più papisti del papa, alla pratica dello sport nazionale: imbrogliare lo Stato e gli altri cittadini. Come sempre capita in produzioni di questo tipo, non tutte le parti hanno un'identica forza, ma due si impongono sulle altre: l'esplosione in un appartamento i cui inquilini hanno tentato di macellare un maiale in casa e la piccola truffa ordita da due ragazzi per guadagnare qualche lei facendosi passare per funzionari pubblici che chiedono agli abitanti di un casermone bottiglie con un campione di acqua potabile per poi rivenderne il vuoto. Complessivamente il film testimonia un'ironica intelligenza che invita a fare i conti con un passato terribile senza eccessi retorici e con la convinzione che il sorriso è l'arma migliore per liquidare gli sciocchi e i violenti.
Domani all'alba
Domani all'alba
Demain des l'aube (Domani all'alba) porta la firma del francese Denis Dercourt ed è un pasticcio nato da un'idea che, forse, avrebbe potuto avere un esito interessante. Un famoso pianista, in crisi d'identità, capita casualmente in un gruppo che gioca alla guerra, più precisamente a quelle napoleoniche. Sono persone, ce ne sono anche da noi, che passano il tempo libero a travestirsi da militari per poi spararsi addosso con armi ad aria compressa. Solo che in questo caso i giocatori sono preda di una sorta di delirio per cui pretendono, arrivando sino ad uccidergli la madre ricoverata in ospedale, che si batta in duello per lavare l'offesa fatta dall'ignaro artista quando, durante una cena in costume, aveva detto che un certo reggimento ussaro è formato da opportunisti. Il duello si farà veramente e a parteciparvi saranno il musicista e il fratello, che abbatteranno il capo dei folli. Poteva essere una buona occasione per denunciare la stupidaggine del militarismo o l'incongruenza di certa retorica patriottarda, ma il regista si tiene lontano da queste strade, preferendo imboccare un percorso ambiguo e sostanzialmente improduttivo.


Giovedì 21 maggio – Nono giorno
 
Bastardi senza gloria
Bastardi senza gloria
Quentin Tarantino è uno dei registi il cui lavoro divide nettamente i critici. La cosa non può meravigliare quando si consideri che questo cineasta ha come faro stilistico il cinema di genere - americano, asiatico, europeo, poco importa – e alcuni autori, come Sergio Leone, di cui apprezza in modo particolare le opere più nettamente inseribili lavoro filmico artigianalmente alto. I maggiori consensi gli sono arrivati quando il ricorso agli stilemi produttivi bassi si è sposato a un preciso distacco ironico, come nel caso di Pulp Fiction (1994), titolo con cui quest’autore vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes. La sua filmografia successiva è stata segnata da un avventurarsi dei riferimenti ai prodotti commercialmente medi, scelta che ha sconcertato parte della critica, come dimostrano le contrastanti accoglienze riservate a Kill Bill 1 e 2. Con Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria) quest’autore imbocca la strada del film bellico, con espliciti rimandi alla cinematografia di genere degli anni quaranta e cinquanta – il riferimento citato in più di un’occasione è a Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari - coniugata a un eccesso di effetti sanguinolenti degni del peggior cinema horror. Nella Francia occupata del 1940 una ragazzina ebrea sfugge al massacro della sua famiglia da parte di un sadico colonnello nazista. Quattro anni dopo la ritroviamo nelle vesti di proprietaria di una sala cinematografica parigina in cui i tedeschi vogliono proiettare, in anteprima, un film di propaganda dedicato alle gesta di un cecchino che ha ucciso, da solo, decine di soldati americani. L'occasione è ghiotta per organizzare un attentato che potrebbe mutare le sorti della guerra, poiché alla serata parteciperà lo stesso Adolf Hitler con l'intera dirigenza del Reich. L'evento ha attirato anche l'attenzione degli alleati, che incaricano della bisogna una compagnia specializzata in azioni pericolose e detta dei bastardi perché i suoi membri hanno l'abitudine di incidere una croce uncinata sulla fronte dei pochissimi prigionieri che lasciano in vita. E' un gruppo di volontari ebreo-americani che da qualche tempo causa lutti e danni ai nazisti, usando metodi guerriglieri e fornendo prova di una ferocia incredibile. Tutto dovrebbe risolversi in una notte e cosi sarà, con tanto d’incendi, scoppi di bombe e raffiche di mitra a non finire. Fantastoria, dunque, legata sia al cinema di genere sia ai fumetti, con tanto di eroi che sopravvivono a ferite che ucciderebbero un elevante, difficili operazioni chirurgiche eseguite come nulla fosse e via elencando. Non a caso il racconto inizia con il classico c’era una volta. Il punto irrisolto del film non è tanto nella scelta, del tutto legittima, di usare materiali popolari, quanto nel ricavarne un testo privo di ritmo, con vari momenti noiosi, senza ironia, un'opera lunghissima e, nello stesso tempo, carente proprio sul terreno che ha scelto di percorrere. Si dirà che anche Sergio Leone amava dilatare i tempi, ma in questo caso non si tratta tanto di dilatazione, quanto di allungamento ingiustificato, come dimostra l'intero primo episodio, con il dialogo fra il feroce nazista e il contadino francese che nasconde la famiglia ebrea.
Il nastro bianco
Il nastro bianco
Michael Haneke è un regista austriaco la cui filmografia è quasi interamente rivolta ai crimini che si nascondono sotto la rispettabilità borghese, in particolare alla violenza e i delitti compiuti dai giovani. Si può dire che, per lui, la malvagità naturale dell'età giovanile sia quasi un'ossessione e che attraverso la sua denuncia si prefigga di tracciare il quadro di un'intera società. Le opere di questo regista, spesso intrise di una violenza quasi fisicamente insopportabile, solo in pochissimi casi si alimentano di scene di sangue, aggressioni o delitti espressi in modo diretto. Ciò che gli interessa è suggerire la ferocia, farla percepire cogliendo il prima e il dopo dei fatti, quasi mai l'accadimento nel suo presentarsi diretto. E' il medesimo metodo usato in Das Weisse Band (Il nastro bianco) in cui, per la prima volta, costruisce una storia volta al passato. Il film si colloca fra il 1913 e il 1915, in un paesino protestante della Germania del Nord. Qui avvengono una serie di fatti gravissimi, apparentemente slegati, ma che, alla fine, risulteranno essere commessi da un gruppo di giovani che colpiscono i maggiorenti, i loro figli, in particolare i deboli e gli handicappati. Solo il maestro del borgo riuscirà a tessere le fila dell'intera vicenda, ma il pastore del villaggio gli impedirà di rivelarle minacciandolo di gravi sanzioni. Nel frattempo i tuoni della guerra si fanno sempre più forti e il mondo, quel villaggio compreso, sembra aver altro a cui pensare. Ancora una volta una storia individuale, superbamente fotografata in un bianco e nero pittorico, fa da spia ad una malessere più ampio che si annuncia con i toni terribili della fine di un impero e con le prime avvisaglie del nazismo: la persecuzione dei diversi. Non è la miglior opera di questo autore, che si è lasciato prendere la mano, almeno in parte, da un gusto formale un po' troppo fine a se stesso, ma è un film importante e di grande struttura narrativa.
A occhi spalancati
A occhi spalancati


La sezione Un Certain Regard ha presentato due titoli, nessuno dei quali entusiasmante. Einaym Pkuhoy (A occhi spalancatii, con evidente riferimento al titolo - Eyes Wide Shut - dell'ultimo film di Stanley Kubrich) porta la firma dell'israeliano Haim Tabakman e racconta una storia d'amore omosessuale fra due ebrei ortodossi. Titubanze iniziali, passione violenta poi, con prevedibile corollario d'indignazione e d'aggressioni da parte della comunità. Se voleva essere un film di denuncia delle umiliazioni cui sono sottoposti i gay, allora è troppo generico e ambiguo, se, invece, mirava a colpire l'oltranzismo religioso, allora appare scarsamente motivato. In poche parole un film pieno di buone intenzioni, girato in maniera professionalmente corretta, ma sostanzialmente mancato.
Ninfa
Ninfa
Non migliore il bilancio a cui approda il tailandese Pen-Ek Ratanuruang con Nymph (Ninfa). Una coppia campeggia ai bordi di una foresta, i due sono in crisi: lei ha un amante e non vuole più fare l'amore con lui che, preso dal suo lavoro di fotografo, passa le ore a fissare sulla pellicola grovigli di radici e liane. Un giorno lui scompare e nessuno riesce a trovarlo. Lei ritorna a casa e, al risveglio, se lo ritrova nel letto. Si riconciliano e lei è persino disposta ad abbandonare l'amante che, a sua volta, ha lascito la moglie. Nuova scomparsa dell'uomo e inseguimento sino ad un grande albero che sembra dotato di poteri magici. Nuovo ritorno e imposizione della fine del legame adulterino. Francamente è difficile sbrogliare tanti simboli e riferimenti, se non cogliendo il senso di una ambigua e assoluta difesa della famiglia in nome della legge della natura e in presenza di un'occidentalizzazione spinta della società (entrambi gli adulteri sono moderni, belli e di successo). Idea sicuramente importante in una società orientale densa di valori come quella tailandese, ma piuttosto discutibile alle nostre latitudini.

Venerdì 22 maggio – Decimo giorno
All'origine
All'origine
Xavier Giannoli ha alle spalle una decina di film, tutti di buona fattura professionale e stilistica. A l'origine (All'origine), presentato in concorso a questa 62ma edizione del Festival costituisce la sua prova migliore. Lo spunto nasce da una storia vera: un imbroglione, da poco uscito di galera, si finge imprenditore edile, raggira un intera cittadina, autorità in testa, e apre un cantiere per costruire un lotto d'autostrada per conto di un'inesistente società, branca di una grande impresa del settore. Naturalmente il gioco dura solo alcune settimane, poi, i nodi vengono al pettine e il truffatore, che nella realtà sembra non avere tratto alcun vantaggio economico dall'impresa, finisce in prigione. Vicenda intrigante, visto che mette in gioco molti elementi ad iniziare dai motivi che spingono un individuo a un'impresa simile: costruire un'autostrada che nasce dal nulla e finisce nel nulla. Poi ci sono le ragioni che spingono amministratori navigati a cadere nella trappola, meglio a costruire, stando al film, i loro stessi lacci, un po' come avviene ne L'ispettore generale (1836) di Nikolaj Vasil'evič Gogol' (1809 – 1852). Certo, lo stato di crisi della cittadina, messa in ginocchio dall'abbandono di un cantiere autostradale costruito in precedenza nei pressi e dalla fuga all'estero di vari industriali attratti da salari più basi, gioca un ruolo non secondario, ma rimane la sorpresa della facilità con cui un imbroglione da quattro soldi sia riuscito a farsi passare per un tecnico di primo piano. Il film segue questo percorso con attenzione e senza dare giudizi, anche se traspare una certa simpatia per l'improvvisato capocantiere. E' uno sguardo partecipe che si nutre delle belle immagini, forse un po' troppo insistite, dei movimenti dei macchinari da costruzione, mezzi di movimentazione terra, panorami con uomini al lavoro sotto un celo brumoso o, qualche volta, sfidando la pioggia. Di suo il regista vi aggiunge una storia d'amore con la sindachessa del paese, una vedova piacente e gentile, e la vicenda di una giovane coppia che tira la vita con i denti e vorrebbe un figlio. Nel complesso un'opera ben costruita, che avvince per quasi tutte le due ore e mezzo su cui si distende e testimonia uno sguardo esperto e fermo.
Il tempo che rimane
Il tempo che rimane

Anche Elia Suleiman, cineasta israeliano d'origine araba, parte dalla realtà, più precisamente la storia della sua famiglia. The Time that Remains (Il tempo che rimane) è una sorta di riassunto autobiografico che muove dal 1948 - la creazione dello stato d'Israele, l'emigrazione di una parte della popolazione araba e l'inizio della ghettizzazione di coloro che rimangono, gli anni settanta e ottanta con la difficile convivenza fra ebrei e arabi, sino ai giorni nostri. Periodi che s'intrecciano con le vite dei genitori del regista, la sua emigrazione, il ritorno e la morte della madre. Il tutto è trattato per scene brevi, quasi siparietti televisivi, densi di ironia e dolore. Il cineasta compare, nei panni di se stesso, nella parte finale e non dice una parola, così come sono muti gli attori che lo interpretano negli altri periodi. Questo silenzio condensa l'impossibilità di capire, dare un senso qualunque alla follia di una guerra e di un conflitto - economico, ma anche culturale - che si trascina da sessant'anni con scontri, ferocia, ma anche situazioni surreali. Il film ripercorre molti luoghi già utilizzati nelle opere precedenti di questo autore, ma la cosa che distingue questa sua ultima fatica è il sapiente miscuglio fra riso e malinconia, una miscela che lascia davvero l'amaro in bocca.
I viaggi del vento
I viaggi del vento


La sezione Un Certain Regard ha presentato, ancora un volta, due titoli. Los vijes del viento (I viaggi del vento) di Ciro Guerra viene dalla Colombia e racconta di un suonatore di fisarmonica che, morta la moglie, intraprendere un lungo viaggio per restituire lo strumento a chi glielo aveva dato e sopire, in questo modo, una maledizione diabolica che colpisce tutti quelli che lo toccano. Lo accompagna un ragazzo, che vuole diventare a sua volta musicista e che l'uomo tenta in ogni modo di scoraggiare. Tuttavia sarà proprio il giovane a recuperare lo strumento musicale e a salvare il suonatore aggredito da una banda locale. Come ricompensa l'anziano rifiuterà d'insegnargli a suonare, mentre lo farà per i figli dell'uomo, morto nel frattempo, a cui doveva riconsegnare lo strumento. Al giovane non rimarrà che ritornare, piangete, sui suoi passi. Il film appartiene a quel filone latino-americano solito coniugare realismo – paesaggi, ambienti, situazioni di miseria – con elementi magici, traendone racconti densi di elementi di non facile comprensione anche se, qualche volta, ricchi di fascino. In questo caso la parte realista, per quanto un po' lenta, appare quella migliore, mentre gli elementi magici sfumano sino a costruire una nebulosa di difficile decifrazione.

Racconto al buio
Racconto al buio


Tutto chiaro, invece, in Skazka pro temnotu (Racconto nel buio) del russo Nikolay Khomeriki, un bel ritratto di una donna poliziotto sola, infelice, priva di amici, insoddisfatta della vita e della volgarità che la circonda. L'inizio è davvero fulminante: un un angusto corridoio alcuni agenti, uomini e donne, si godono la pausa – sigaretta, discutendo di pratiche sessuali con una volgarità e un'indecenza sbalorditive. E' il preambolo di un mondo privo di orizzonti ampi, la cui unica prospettiva è quella di trovare un compagno per la scuola di danza o un partner occasionale per una notte di sesso. Un piccolo film in cui quasi nulla accade di sensazionale, se non lo scorrere monotono dei giorni, ma che traccia un ritratto lucido di una disperazione esistenziale priva di vie d'uscita.

Sabato 23 maggio – Undicesimo giorno
Entrare nel vuoto
Entrare nel vuoto
Gaspar Noé è un regista visionario, lo dimostra anche in questo Enter the void (Entrare nel vuoto, nome di un locale notturno, ma anche sinonimo di nascita). Il materiale per la stampa parla di fratello e sorella molto legati, al limite dell'incesto, che vivono a Tokyo. Lui è un piccolo spacciatore, lei una ballerina di lap dance. Una notte il ragazzo è ucciso durante un'incursione della polizia in un locale notturno, ma il suo spirito rifiuta di abbandonare il mondo, sino a che non si sarà reincarnato nel feto che la donna porta in grembo. Tutto chiaro? Neanche per sogno, basti penare che il film ci mette oltre due ore e mezzo per raccontare questa storia, è interamente girato dall'altro, come se la macchina da presa fosse sempre posizionata sul soffitto di case e palazzi, che il dettaglio arriva sino a seguire lo spermatozoo che riporterà in vita il defunto, dall'eiaculazione, al passaggio nell'apparato sessuale della donna e all'impianto nell'ovulo. Tutto il resto è di conseguenza. La musica, poi, varia fra il monotono, il ripetitivo e l'improvvisamente assordante. In poche parole un giochetto presuntuoso che si traveste da discorso filosofico per inanellare sequenze ripetitive e fotografate in modo volutamente sfuocato. L'unico elemento interessante è la maestria tecnica con cui sono create immagini a dir poco impossibili, ma è un po' poco per un film in concorso ad una prestigiosa manifestazione come questa.
Mappa dei suoni di Tokyo
Mappa dei suoni di Tokyo
Non migliore esito ha avuto la presentazione di Map of the sounds of Tokyo (Mappa dei suoni di Tokyo) della regista catalana Isabel Coixet. Davide, immigrato catalano, ha aperto una bottega di vini nella capitale giapponese e ha stretto una relazione con Midori, figlia di un importante manager. La ragazza, molto probabilmente per turbe personali, si suicida lasciando scritto che muore per non essere stata amata a sufficienza. Suo padre interpreta questo messaggio come un atto d'accusa verso il suo lo spagnolo e incarica un suo assistente di trovare un killer per farlo uccidere. Incaricata della missione sarà Ryu, una bella ragazza che lavora al mercato del pesce. Tuttavia l'assassina potenziale s'innamora della vittima designata. Finale sanguinolento con uccisione della mancata killer da parte dell'assistente che l'aveva pagata. Bastano queste poche righe per capire come ci si trovi in presenza del classico melodramma privo di qualsiasi tratto originale e scontato dalla prima all'ultima immagine. Unico dato di novità sono le molte scene erotiche giurate con spregiudicatezza da una donna – regista, cosa non molto frequente nel cinema.
L'armata silenziosa
L'armata silenziosa
La sezione Un Certain Regard ha presentato Wit Light (L'esercito silenzioso) dell'olandese Jean Van De Velde. E' un film di denuncia dell'orribile pratica dei bambini – soldato, ma è costruito su una storiaccia – un cuoco si mette alla ricerca di un ragazzino, amico di suo figlio, che è stato rapito per farne un militare – che pende più sul versante dell'avventura che non su quello di una minima, documentata ricostruzione del fenomeno.
Fuori competizione è stato presentato The Imaginarium of the Doctor Parnassus (L'immaginario del dottor Parnassus), ultima fatica dell'inglese Terry Gilliam. In una Londra a metà fra il deruto e il postmoderno, il buon Dottor Parnassus, immortale e saggio, si scontra con il demonio che vuole gli sia pagato il pegno stabilito allorché concesse al sapiente una nuova giovinezza per permettergli di sedurre la donna da cui avrà una figlia.
L'immaginario del Dottor Parnassus
L'immaginario del Dottor Parnassus
Il pegno stabilito è proprio la ragazza, ma l'immortale non vuole consegnarla. Ci vorranno varie avventure, la presenza di un bel lestofante che assume di volta in volta le fattezze di divi sulla cresta dell'onda e l'auto di un allievo fedele per riuscire a strappare la fanciulla dalle mani del maligno. Ancora una volta la tecnologia e la maestria computerizzata superano ogni altro valore, compresi quelli, in verità piuttosto modesti, riducibili all'importanza della fantasia che sa resistere anche alle insidie del diavolo. Un film molto colorato e immaginifico, ma moderatamente originale.

Domenica 24 maggio – Dodicesimo giorno
Volti
Volti
La direzione del museo parigino del Louvre, assieme ad altri finanziatori, ha chiesto al regista taiwanese Tsai Ming-Liang, un autore di punta del cinema moderno, di realizzare un film sugli spazi del museo stesso. Il cineasta ha scelto di raccontare la vicenda di un autore orientale chiamato a mettere in scena una sua versione della storia di Salomè. Da notare che ha girato, non sappiamo con quanta gioia della direzione del museo, la maggior parte delle scene o nel parco di Versailles o nel sottosuolo dell’edificio fra fognature, grovigli di tubature, ammassi ci cavi elettrici. I committenti, a loro volta, hanno offerto come attori, nella speranza di avere un prodotto appetibile per il pubblico, alcuni nomi di punta del cinema francese, a iniziare dalla modella Laetitia Casta. Il regista ha colto la palla al balzo e ha preteso l’ingaggio di Fanny Ardant, Jean-Pierre Léaud, Jean Moreau, Mathieu Almaric e Natalie Bayle, in modo da comporre la storia anche come un omaggio al cinema francese, in particolare a quello di François Truffaut. Sono stati, poi, inseriti nella partita alcuni attori orientali, fra cui Lee Kang-Sheng, vera presenza – feticcio di questo cineasta. Il risultato di una simile, complessa materia è Visage (Volti), ultimo film in concorso a questa edizione del Festival. E' un testo molto ricco di suggestioni, richiami, non tutti chiarissimi, in cui il regista dispiega a piene mani il suo amore per un certo tipo di cinema, a iniziare da quello di Pier Paolo Pasolini. Ci sono sequenze molto belle, come quella della danza dei sette veli ambientata in una cella di mattatoio con San Giovanni Battista che muore cosparso di passata di pomodoro e Salomè che si moltiplica per tre, formando figure che ricordano le danzatrici indiane. Sul versante dell'omaggio al cinema di François Truffaut i punti di forza li offrono Fanny Ardant, moglie dello scomparso, e Jean-Pierre Léaud, che ricordiamo nei panni del protagonista de I quattrocento colpi (Les quatre cents coups, 1959). In definitiva un groviglio molto personale che conferma la forza di quest’autore, ma che non presenta vere novità sia stilistiche sia narrative.
Coco & Igor
Coco & Igor
La manifestazione è stata chiusa con Coco & Igor che Jan Kounen ha dedicato alla storia d'amore fra Coco Chanel e Igor Stravinsky. Il racconto parte dal 1913 con la disastrosa messa in scena del balletto La saga di Primavera, alla cui prima dovette intervenire la polizia per sedare i tumulti in sala fra detrattori e sostenitori e approda al 1920, anno in cui la stilista ospitò il musicista e la famiglia ed ebbe una rovente storia d'amore con lui. E' il classico film di scenografia, vestiti e apparati scenici, un bel quadro sontuoso, ma quasi per niente originale.
Conclusioni
Image
La sessantaduesima edizione del Festival Internazionale del Film di Cannes si era aperta all’insegna di una selezione composta prevalente da nomi sicuri che ha dato ciò per cui era stata progettata. Vale a dire una stragrande maggioranza di opere che hanno confermato, quasi riassunti delle puntate precedenti, il valore di registi come Ken Loach, Pedro Almodóvar o, su un livello nettamente inferiore, Terry Gilliam. Scarse o nulle le sorprese, sia stilistiche che narrative, poche, per fortuna, le cadute clamorose come l’infortunio in cui è incappato Lars Von Trier con Anticristo o la fastidiosa presunzione di Gaspar Noé con l’insopportabile Enter the void (Entrare nel vuoto). Il solo dato veramente interessante è venuto dalla conferma dello stato di salute del cinema rumeno, testimoniato, soprattutto da Corneliu Porumboiu che presentato Politist, adjectiv (Poliziesco, aggettivo) e dal gruppo dei suoi connazionali (Hanno Höfer, Razvan Marculescu, Cristian Mungiu, Constantin Popescu, Ioana Uricaru) che hanno messo assieme l’antologia Aminiri din epoca de aur (Racconti dell’epoca d’oro). In complesso un’edizione modesta, ma senza grandi cadute, del tutto in carattere con lo stato di salute, non esaltante del cinema a livello planetario.

Il nastro bianco
Il nastro bianco
I PREMI
LUNGOMETRAGGI
PALMA D'ORO
DAS WEISSE BAND (Il nastro bianco) di Michael HANEKE
GRAN PREMIO DELLA GIURIA
UN PROPHÈTE (Un profeta) di Jacques AUDIARD.
PREMIO SPACILE PER L’INSIEME DELLA CARRIERA E IL CONTRIBUTO ECCEZIONALE ALLA STORIA DEL CINEMA
Alain RESNAIS
PREMIO DELLA REGIA
Brillante MENDOZA per KINATAY (Macellata)
PREMIO DELLA GIURIA
Ex - aequo
FISH TANK (La vasca dei pesci) di Andrea ARNOLD
BAK-JWI (Thirst, questo è il mio sangue …) di PARK Chan-Wook
PREMIO PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE
Christoph WALTZ per l’interpretazione in INGLOURIOUS BASTERDS (Bastardi senza gloria) di Quentin TARANTINO
PREMIO PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE
Charlotte GAINSBOURG per l’interpretazione in ANTICHRIST (Anticristo) di Lars von TRIER
PREMIO ALL SCENEGGIATURA
MEI Feng per CHUN FENG CHEN ZUI DE YE WAN (Febbre di primavera) di LOU Ye
CORTOMETRAGGI
PALMA D'ORO
ARENA di João SALAVIZA
MENZIONE SPECIALE
THE SIX DOLLAR FIFTY MAN (L’uomo da sei dollari e mezzo) di Mark ALBISTON e Louis SUTHERLAND
PALMA D'ORO di João SALAVIZAMENZIONE SPECIALE (L’uomo da sei dollari e mezzo) di Mark ALBISTON e Louis SUTHERLAND
SEZIONE UN CERTAIN REGARD
PREMIO UN CERTAIN REGARD – Fondazione Groupama Gan per il Cinema.
KYNODONTAS (Dente di cane) di Yorgos LANTHIMOS
PREMIO DELLA GIURIA
POLITIST, ADJECTIV (Poliziesco, aggettivo) di Corneliu PORUMBOIU
PREMIO SPECIALE
KASI AZ GORBEHAYE IRANI KHABAR NADAREH (In Iran nessuno sa niente dei gatti persiani) di Bahman GHOBADI
LE PÈRE DE MES ENFANTS (Il padre dei miei figli) di Mia HANSEN-LØVE
CAMERA D’OR per la migliore opera prima.
SAMSON AND DELILAH (Sansone e Dalia) di Warwick THORNTON presentato nel programma della sezione Un Certain Regard.
MENZION SPECIALE
AJAMI di Scandar COPTI, Yaron SHANI presentato nel programma della Quinzaine des Réalisateurs.
PREMI CINÉFONDATION
PRIMO PREMIO
BÁBA di Zuzana KIRCHNEROVÁ-ŠPIDLOVÁ
SECONDO PREMIO
GOODBYE (Arrivederci) di SONG Fang
TERZO PREMIO Ex – aequo
DIPLOMA (Diploma) di Yaelle KAYAM
NAMMAE UI JIP (Non uscire da casa) di JO Sung-hee.
La giuria della CST ha deciso di assegnare il PRIX VULCAIN PER L’ARTISTA - TECNICO à
Aitor BERENGUER, montatore del suono di MAP OF THE SOUNDS OF TOKYO (Mappa dei suoni di Tokyo) di Isabel COIXET.