Festival di Cannes 2009 - 7° giorno

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Festival di Cannes 2009
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Martedì 19 maggio – Settimo giorno
Cercando Eric
Cercando Eric
Eric Bishop fa il postino a Manchester, la sua è una vita disastrata dopo il divorzio dalla prima moglie, due figli che non parlano con lui e gli riempiono la casa di ospiti inattesi e di merci di dubbia provenienza. Ha anche una figlia che sta per diplomarsi e che lo ha già reso nonno. Il lavoro è monotono e privo di soddisfazioni, solo le bevute con i colleghi e le partite di calcio del Manchester United, viste in gruppo o seguite, in trasferta, in pullman lo soddisfano e danno un minimo di luce alla sua vita. Un giorno si trova in camera il fantasma di Eric Cantona, il famoso giocatore francese che ha passato alcune stagioni gloriose e ricche di polemiche – prese a calci un tifoso che lo aveva chiamato francese di merda – proprio nel M.U. L'ex – campione, famoso per le battute e i proverbi con cui sconcertava i giornalisti alle conferenze stampa, inizia ad impartirgli alcune lezioni di vita tese a fargli riconquistare l'ex moglie e a risolvere un pericolosa situazione in cui si è infilato il figlio maggiore facendo da spalla ad un delinquente, capo di una banda molto pericolosa. La soluzione verrà da una rumorosa, quando devastante, incursione di tifosi e colleghi di lavoro nella villa del criminale che sarà devastata, il padrone coperto di vernice e filmato nella sua umiliazione con minaccia di mettere il tutto su You Tube. Con Looking for Eric (Cercando Eric) Kean Loach firma un dei suoi film migliori, un'opera in cui l'ironia, la solidarietà di classe – impareggiabile quell'Eric Cantona che saluta la fine dell'incursione nella villa del gangster con il pugno chiuso – la forza delle relazioni fra lavoratori: quando lasciano il malvivente imbrattato fra la devastazione della sua villa gli gridano: non ti azzardare a dare più fastidio al nostro amico, noi sapremo sempre trovarti, siamo postini! In quest'opera il regista inglese sposa amabilmente una piacevole ironia con la passione per il calcio e la militanza d'estrema sinistra. Il suo modo di mettere in circolo il mito - la sola idea del fantasma di Eric Cantona avrebbe dovuto far tremare i polsi - trasformandolo in qualche cosa di utile e profondamente inserito nei bisogni della classe operaia è un esempio di intelligenza politica e di cinema d'alto spessore sociale. Allo stesso modo gli bastano poche battute, la discussione al pub fra tifosi vecchio stampo e nuove leve, per disegnare le trasformazioni, anche politiche, subite dallo sport più bello del mondo con l'entrata in campo di sponsor miliardari, televisioni a pagamento, commerci vari. Un film stilisticamente maturo, privo di fronzoli, forte nel discorso e nelle proposte. Un grande, classico, divertente, commovente cinéma de papà.
Vincere
Vincere
Il secondo film in concorso della giornata era il solo titolo italiano ammesso alla competizione: Vincere di Marco Bellocchio. Lo spunto da cui è partito il regista era quanto mai avvincente e funzionale alla sua poetica: l'esaltazione dell'inquietudine giovanile, la denuncia dell'oppressione del potere, il disgusto per la corruzione delle azioni e delle idee che si accompagna all'avanzare degli anni. Nulla di più appropriato, dunque, della storia di Ida Dasser, moglie segreta di Benito Mussolini, che lo amò quando ancora militava nelle file socialiste. Un amore travolgente al punto che lei vendette ogni cosa per aiutarlo ad avviare il giornale Il popolo d'Italia, fondato dopo aver dato le dimissioni da L'Avanti!. Dal futuro Duce ebbe anche un figlio, Benito Albino Mussolini, prima riconosciuto poi rinnegato dal padre. Gliene derivò una continua sorveglianza della polizia politica, fu rinchiusa per anni in manicomio, privata della libertà e di ogni avere. Il figlio fu ugualmente messo in collegio, spedito all'estero per lunghi periodi e, infine, rinchiuso a sua volta in manicomio. Il film affronta un lungo periodo ricco di eventi: la Grande Guerra, la presa del potere del fascismo, il consolidamento del regime, la guerra imperiale, il secondo conflitto mondiale, la caduta del regime. Un arco temporale tanto ampio da rendere impossibile racchiuderlo nell'ambito di una sola opera e che, peraltro, non ha alcun intento di storico, anche se il regista non lesina il ricorso a cinegiornali, materiali di repertorio, sequenze di film di quegli anni, citazioni di eventi artistici, come la prima esposizione dei Futuristi, il tutto inserito in un'intelaiatura grafica ricca di citazioni riferibili allo stile dell’epoca. Non è, dunque, su questo versante che sorgono i maggiori dubbi, ma sulla rinuncia a trattare i temi che gli sono particolarmente cari a quest’autore. Una scelta fatta in favore di una storia d'amore che rientra poco nelle sue corde. La produzione e distribuzione della RAI, poi, ha fatto il resto, con immagini asfittiche, spesso giostrate su primi e primissimi pani che solo in rari casi – l'arrampicata della prigioniera sulle sbarre, il ritorno al paese natale vestita da suora – riescono ad assumere un preciso valore cinematografico. In conclusione un film piuttosto deludente che non sembra in grado, come sostengono alcuni, di costruire una metafora del fascismo o, meglio ancora, dei nostri giorni.
Indipendenza
Indipendenza
La sezione Un Certain Regard ha presentato due titoli decisamente d'autore. Indipendencia (Indipendenza) del giovane regista filippino Raya Martin è girato come un film degli anni quaranta, in un bianco e nero appena virato all'azzurro, sfondi dichiaratamente falsi e giungle costruite in studio. Siamo all'inizio degli anni venti e il paese, uscito da una ventina d'anni dalla dominazione spagnola, é in piena colonizzazione americana. Una madre si rifugia nella giungle con il figlio per sfuggire ai massacri che segnano le città. Qui incontrano una ragazza appena violentata e, con lei, formano una sorta di minicomunità che sopravvive per vari anni, ma sarà distrutta sia da un tifone sia perché raggiunta dai nuovi colonizzatori che non si fanno remora di uccidere donne e bambini. L'esperimento è stilisticamente curioso, ma manca di un reale collegamento con la dolorosa storia del paese, storia citata più che vissuta attraverso le immagini.
Irene
Irene
La seconda proposta odierna di questa sezione veniva da uno degli autori francesi più amati dalla critica: Alain Cavalier che, da qualche anno confeziona film in termini di diario personale, traducendo sino alle estreme conseguenze quella teoria della caméra-stylo cara ad Alexandre Astruc (1923) e che costituì una delle prime basi teoriche della nouvelle vague. Nel caso di Irene il regista ci consegna una lunga riflessione sull'amore - complesso, ma anche ricco di elementi di tensione - che lo legava alla moglie Iréne, morta in un incidente d'auto nel gennaio del 1972. Si sente e apprezza la mano del cineasta di razza che fa forza al pudore per esorcizzare una tragedia di cui sente ancora il peso, dando vita ad un'opera ricca d'umanità e sprazzi di commozione.