04 Giugno 2014
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30° Festroia Setubal |
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Het vannis (Il verdetto) del belga Jan Verheyen è uno di quei film la cui importanza si misura in termini di urgenza e attualità dei problemi affrontati. Nel caso specifico ad essere messa in discussione è la questione dei processi annullati per errori puramente procedurali, pratica che, secondo la prassi giuridica belga posta all’annullamento di ogni accusa e alla messa in libertà del possibile colpevole. Il problema è allo studio, da ben dieci anni, da parte del parlamento belga, ma una soluzione non è stata ancora trovata. Ad essere colpito da questa stortura è Luc Segers, un brillante ingegnere in carriera che una notte, di ritorno da una festa, si ferma con moglie e figlia a un distributore di benzina con annesso negozio di vendita automatica. La moglie entra nel locale per comperare qualche cosa ed è vittima di un rapinatore violento che si era nascosto fra le varie macchine di distribuzione automatica. Non vedendola ritornare all’auto, il marito entra a sua volta nel locale ed è picchiato a sangue dall’assassino. La figlia, rimasta in macchina, esce improvvisamente sulla strada ed è travolta da un autotreno. Il responsabile del delitto è individuato quasi subito grazie alla testimonianza del sopravvissuto, ma il processo è annullato causa la mancanza di una firma su una certa carta per cui il sospettato riacquistala la libertà. Il vedovo non riesce a darsi pace, pedina per giorni il delinquente e, poi, lo uccide. Si lascia arrestare, confessa il delitto, ma non accetta le scorciatoie legali proposte dall’accusa: vuole un dibattito e una sentenza esemplari e le otterrà grazie a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica e alla bravura del suo avvocato che convince la giuria del fatto che il delitto è maturato in un clima di forte alterazione psicologica causata dal trauma subito. Più che un film sembra un episodio di una qualche serie televisive americane basate sulle infinite risorse spettacolari offerte dal contraddittorio di stampo anglosassone, anche se in questo caso si tratta di un dibattimento secondo le regole della procedura penale belga. In altre parole una robusta perorazione sociale e politica non sorretta da un’autentica originalità espressiva. Molto impegno e poca invenzione cinematografica.
Qualche cosa di molto simile segna anche Diamantes Neghos (Diamanti neri) dello spagnolo Miguel Alcantud che fa firmato una coproduzione fra Portogallo, Spagna ed Estonia. Qui ad essere messi sotto la lente del microscopio cinematografico sono i traffici che ruotano attorno al commercio di giovani, promettenti giocatori africani prelevati dai loro paesi con promesse di fortune calcistiche in Europa e trattati come veri e propri animali da macello da parte di talent scout e procuratori privi di scrupoli che, dopo aver spillato non poco denaro alle famiglie di provenienza, vendono e rivendono queste promesse del calcio spremendone energie e possibilità fisiche. Il quadro è esemplificato da destino di due campioncini del Mali trasportati in Spagna da uno scopritore di talenti senza troppi scrupoli, offerti a una squadretta di seconda divisione con il miraggio di farne il trampolino di lancio verso club più blasonati, trasferiti, uno, in Portogallo e finito, l’altro, in Estonia a far da sparring partner ad altri campioncini lì parcheggiati da un grande club madrileno in attesa che raggiungano l’età legale per essere ingaggiati. Ovviamente questo secondo è il migliore dei casi, mentre il peggiore segna la triste strada del ritorno a casa con le gambe massacrate dai colpi subiti, circondato dal disprezzo di parenti e amici che avevano creduto in lui. Il film ha il pregio di affrontare argomenti poco trattati dal cinema, ma il difetto di farlo con un taglio eccessivamente didascalico e un approccio più giornalistico che autenticamente creativo.
U.R.
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