30° Festroia Setubal

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festroia 2014 2 660x37130° Festroia International Film Festival

6 - 15 giugno 2014

www.festroia.pt

Il festival del cinema di Setúbal, in Portogallo, è conosciuto con la sigla FESTROIA che fa riferimento al nome della penisola che fronteggia la città e sulla quale troneggino alcuni grandi alberghi e un casinò che ne fanno un’ipotesi di grande centro di vacanze. Ipotesi in quanto il progetto, nato moltissimi anni or sono e passato per varie mani, di trasformare questo paradiso – quaranta chilometri di spiagge sabbiose e immacolate - in una sorta di nuova Rimini non è mai decollato. Qui è nato trent’anni or sono un festival il cui intento iniziale era quello di affiancare il richiamo turistico della località e che dopo una decina di edizioni si è trasferito nella città che fronteggi la penisola nella speranza di trovare un maggior pubblico e un’udienza più attenta da parte dei media. Parzialmente c’è riuscito sia per la decisione – fondamentale per il riconoscimento da parte della FIAFP (la federazione internazionale dei produttori) - di riservare la parte competitiva ai paesi che producono meno di tanta film a stagione, sia per l’impegno di un gruppo di intellettuali – primo lo scrittore Mario Ventura e, dopo la sua scomparsa, la vedova Fernanda Silva – che hanno scommesso su una manifestazione priva di orpelli mondani, ma densa di riflessioni culturali immerse in un clima di calda amicizia.

Stazioni. jpgL’inizio del festival è stato affidato a un film tedesco, presente nella selezione che rende omaggio a quella cinematografia, Kreuzweg (La Via Crucis) firmato da Dietrich Brüggemann che segue, in una decina di capitoli intitolati come le stazioni della via crucis e filmati con inquadrature fisse, il calvario di una quattordicenne, figlia di genitori che appartengono ad un a comunità cattolica fondamentalista. La giovane si convince che sacrificare la sua vita servirà a ridare la parola al fratellino affetto da autismo. Lentamente si lascia morire di fame, convinta che in questo medo raggiungerà Gesù che le sta conservando un posto privilegiato in cielo. Il racconto procede con molte lentezze e la formula narrativa prescelta non conferisce un ritmo adeguato alla narrazione, anzi, appesantisce oltre misura il procedere della storia. Come dire che la scelta stilistica fatta appare funzionale per sezionare con freddezza i passaggi che ribadiscono nella testa della ragazzina la certezza che la vera cristiana per essere gradita a Dio deve rinunciare a tutto, alla musica come ai cosmetici, ai vestiti civettuoli come ai cibi appetitosi. Allo stesso tempo la lentezza narrativa e la ripetitività di molti passaggi finiscono per annoiare lo spettatore infliggendo un colpo mortale alla sua attenzione.
La sezione competitiva è stata aperta da Lošejas (I giocatori) del lituano Ignas Jonynas. E’ una coproduzione fra Lettonia e Lituania che ruota attorno a un gruppo di paramedici che lavorano nel soccorso a feriti e infortunati guidando ambulanze e praticando le prime cure alle vittime di incidenti e malattie. Alla ricerca di denaro, organizzano una sorta di sala scommesse il cui oggetto è la salute dei ricoverati. Si può giocare sull’esito del ricovero, sulle conseguenze dell’incidente, sui tempi della riabilitazione. Lentamente questo secondo aspetto del loro lavoro diventa l’asse portante di tutta la loro attività che si estende anche alle scommesse sulle corse dei cani. Uno di loro, ossessionato dai debiti contratti con uno strozzino, e la sua campagna, madre di un ragazzino aggetto da una malattia che richiede costose medicine non disponibili nel paese, finisce per rubare il denaro in cassa e distruggere l’improvvisato centro scommesse per poi finire massacrato da uno strozzino.the-gambler- A questo punto la sua compagna decide di puntare sulla sua morte e lui si presta al gioco suicidandosi. Il finale è aperto: la donna nuota da sola in un mare agitato, lo stesso in cui il compagino ha nascosto, legato ad una boa, il bottino. Sembra evidente che anche la sua è una morte cercata, ma nulla è chiaro in maniera netta. Il film getta un lampo di luce su una società post-socialista particolarmente in quietante – la salute che si mantiene solo pagando le medicine che arrivano dall’estero! – e su un mondo in cui ogni cosa, morte e vita comprese, ha un prezzo e una funzione economica. Messi da parte questi aspetti, interessanti se non positivi, non è possibile tacere delle numerose incongruenze e ripetitività che segnano il film, per non parlare di alcune insistenze stilistiche – la macchina da presa che gira attorno al protagonista un numero infinito di volte – che compromettono e non poco il bilancio dell’opera. In altre parole, un testo che affronta temi interessanti, ma lo fa in maniera alquanto grezza. 

U.R.


verdict-Het vannis (Il verdetto) del belga Jan Verheyen è uno di quei film la cui importanza si misura in termini di urgenza e attualità dei problemi affrontati. Nel caso specifico ad essere messa in discussione è la questione dei processi annullati per errori puramente procedurali, pratica che, secondo la prassi giuridica belga posta all’annullamento di ogni accusa e alla messa in libertà del possibile colpevole. Il problema è allo studio, da ben dieci anni, da parte del parlamento belga, ma una soluzione non è stata ancora trovata. Ad essere colpito da questa stortura è Luc Segers, un brillante ingegnere in carriera che una notte, di ritorno da una festa, si ferma con moglie e figlia a un distributore di benzina con annesso negozio di vendita automatica. La moglie entra nel locale per comperare qualche cosa ed è vittima di un rapinatore violento che si era nascosto fra le varie macchine di distribuzione automatica. Non vedendola ritornare all’auto, il marito entra a sua volta nel locale ed è picchiato a sangue dall’assassino. La figlia, rimasta in macchina, esce improvvisamente sulla strada ed è travolta da un autotreno. Il responsabile del delitto è individuato quasi subito grazie alla testimonianza del sopravvissuto, ma il processo è annullato causa la mancanza di una firma su una certa carta per cui il sospettato riacquistala la libertà. Il vedovo non riesce a darsi pace, pedina per giorni il delinquente e, poi, lo uccide. Si lascia arrestare, confessa il delitto, ma non accetta le scorciatoie legali proposte dall’accusa: vuole un dibattito e una sentenza esemplari e le otterrà grazie a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica e alla bravura del suo avvocato che convince la giuria del fatto che il delitto è maturato in un clima di forte alterazione psicologica causata dal trauma subito. Più che un film sembra un episodio di una qualche serie televisive americane basate sulle infinite risorse spettacolari offerte dal contraddittorio di stampo anglosassone, anche se in questo caso si tratta di un dibattimento secondo le regole della procedura penale belga. In altre parole una robusta perorazione sociale e politica non sorretta da un’autentica originalità espressiva. Molto impegno e poca invenzione cinematografica.
black diamondsQualche cosa di molto simile segna anche Diamantes Neghos (Diamanti neri) dello spagnolo Miguel Alcantud che fa firmato una coproduzione fra Portogallo, Spagna ed Estonia. Qui ad essere messi sotto la lente del microscopio cinematografico sono i traffici che ruotano attorno al commercio di giovani, promettenti giocatori africani prelevati dai loro paesi con promesse di fortune calcistiche in Europa e trattati come veri e propri animali da macello da parte di talent scout e procuratori privi di scrupoli che, dopo aver spillato non poco denaro alle famiglie di provenienza, vendono e rivendono queste promesse del calcio spremendone energie e possibilità fisiche. Il quadro è esemplificato da destino di due campioncini del Mali trasportati in Spagna da uno scopritore di talenti senza troppi scrupoli, offerti a una squadretta di seconda divisione con il miraggio di farne il trampolino di lancio verso club più blasonati, trasferiti, uno, in Portogallo e finito, l’altro, in Estonia a far da sparring partner ad altri campioncini lì parcheggiati da un grande club madrileno in attesa che raggiungano l’età legale per essere ingaggiati. Ovviamente questo secondo è il migliore dei casi, mentre il peggiore segna la triste strada del ritorno a casa con le gambe massacrate dai colpi subiti, circondato dal disprezzo di parenti e amici che avevano creduto in lui. Il film ha il pregio di affrontare argomenti poco trattati dal cinema, ma il difetto di farlo con un taglio eccessivamente didascalico e un approccio più giornalistico che autenticamente creativo.

U.R.


marina-01Di Marina, il film diretto dal belga Stjn Coninx e dedicato al cantante Rocco Granata autore della canzone del titolo che furoreggiò in mezzo mondo alla fine degli anni cinquanta, ha già parlato Renzo Fegatelli dal festival di Valladolid. Il film è comparso anche nel programma del FESTROIA e questo offre l’occasione per riconsiderarlo seppure brevemente. Quella di Rocco Granata, figlio di emigranti calabresi spediti a lavorare nelle miniere di carbone da un accordo fra il governo italiano e quello belga che barattava il prezioso minerale con la forza delle braccia e costringeva i nostri emigranti e i loro figli a vivere per anni in condizioni di semi schiavitù, è stata una parabola felice, partita dal Limburgo, nel Belgio Fiammingo, e conclusa con la scrittura e l’interpretazione di una canzone che fece il giro del mondo. Non a caso il film si conclude con l’esibizione, nel 1959, dell’italiano alla Carnegie Hall di New York, a coronamento di un successo nato dal basso, più dalle scelte dei clienti dei jukebox che non da quelle dei promotori musicali. E’ un testo d’impianto romantico, un classico film biografico in cui, dopo non pochi ostacoli, gli eroi trionfano nel migliore dei modi. Un testo forse troppo facile e non sufficientemente approfondito sul versante dell’analisi storica e politica (le baracche in cui sono costretti a vivere i minatori che prima avevano ospitato i prigionieri di guerra russi e poi quelli tedeschi!) ma risulta coinvolgente per il pubblico.
the-dinner-Non molto più soddisfacente Het diner (La cena) dell’olandese Menno Meyjes in cui seguiamo il desinare di Paul e Claire che vanno al ristorante con Serge, fratello di Paul, e sua moglie Babette. I conversari e il susseguirsi delle portate sono alternate alle immagini, riprese con un telefonino, della bravata criminale compita dal figlio della coppia che, assieme al cugino e a un altro ragazzo, uccide e da fuoco a una poveraccia che dorme nella cabina di un bancomat. Paul è in politica e potrebbe diventare Primo Ministro, per lui l’idea di uno scandalo è devastante. Altrettanto accade alla moglie del protagonista che appare legata da un sentimento quasi incestuoso con il figlio ed è decisa a proteggerlo ad ogni costo. Il film sviluppa due piani paralleli, quello della brutalità di questi giovani ricchi e quello delle manovre e dell’ipocrisia necessarie a insabbiare il gesto criminale che hanno commesso. Tutti i salmi finiranno in gloria e Paul rimarrà solo a macerarsi con il suo senso di colpa, mentre tutti gli altri troveranno una scusante e una (falsa) giustificazione per ciò che è successo. Il film gronda buone intenzioni, ma le annega in un profluvio di discorsi che danno all’opera un taglio più teatrale che cinematografico. E’ un’occasione perduta in quanto le cose dette appaiono decisamente di più di quelle mostrate o dimostrate. Vale a dire che, ancora un volta le buone intenzioni fanno premio sulla natura reale dell’opera, conferendo al film più il tono di un comizio filmato che non quello di un testo correttamente raccontato e originalmente esposto. Gli attori, da parte loro, non aiutano la regia a rendere meno verboso il testo, anzi aggiungo un sovraccarico di teatralità con un recitazione a volte enfatica e, più spesso, inutilmente sotto tono. 

U.R.


Before-SnowfallTra le molte sezioni in cui si articola il FESTROIA ce n’è una riservata alle opere prime, qui abbiamo avuto la gradita sorpresa d’incontrare il film del quarantenne Hisham Zaman, che dopo studi di cinema a Lillehammer in Norvegia, ha diretto, nel 2005, Bawke, apprezzato in molti Festival. In concorso in questa sezione ha portato Før snøen faller (Prima che cada la neve). E’ la cronaca di un viaggio massacrante e pericoloso, dal Kurdistan alla Norvegia, il film, pur seguendo la falsariga di molti altri sulle migrazioni, non descrive una fuga. Alla morte del padre, Siyar ha sedici anni. E’ il maschio più anziano della famiglia e ne deve tutelare l’onore. Quando la sorella maggiore, promessa a un giovane del villaggio, fugge in Europa col ragazzo che ha sempre amato, lui parte sulle sue tracce: deve ucciderla per essere rispettato.    Il film si apre con la curiosa immagine del giovane totalmente avvolto in fogli di nylon per viaggiare immerso nel petrolio in un camion verso Istanbul. Giunto in città, dovrà fare i conti con la piccola delinquenza locale che frequenta per rintracciare la sorella. Conosce Evin, una ragazza travestita da maschio, che vorrebbe raggiungere il padre a Berlino. Seguendo la filiera dell’emigrazione curda, riesce a raggiungere la Grecia con la coetanea che continua a fingersi uomo. Per nascondere l’identità della ragazza, lui denuncia alle guardie di frontiera l’uomo che li ha guidati. Sempre sulle tracce della sorella, il giovane arriva a Berlino dove Evin incontra il padre che si è sposato con una tedesca e ha una nuova famiglia. Amareggiata, la ragazza segue Siyar in Norvegia. A Oslo, sempre appoggiandosi sui rifugiati curdi, Siyar viene a conoscenza dell’indirizzo della sorella e gli danno un revolver. E’ protetto perché leggi tribali vogliono che punisca la ribelle, ma non sa che le stesse leggi non possono lasciare impunita la denuncia del curdo che ha permesso la sua fuga. Evin tenta di dissuaderlo. In Europa vigono altre leggi, tenta di fargli capire. Ciononostante l’adolescente segue il suo destino. Dai cieli azzurri del deserto ai paesaggi innevati della Norvegia il percorso del giovane è descritto con rigore, passando dai villaggi di sabbia iracheni ai vicoli di Istanbul, dai tetti di Berlino alla periferia residenziale di Oslo. Con molta misura, senza intenti esotici, illustrando l’aspetto contemporaneo di una società che ricorda l’Italia di un secolo fa, quella in cui vigeva il delitto d’onore.
a-guerra-da-beatriz-620x349Altra sorpresa, nella stessa sezione, il primo lungometraggio prodotto da Timor Est: A guerra da Beatriz (La guerra di Beatrice), diretto da Bety Reis e Luigi Acquisto. Nei disastri provocati dalla decolonizzazione, vedi la separazione tra India e Pakistan, un prezzo durissimo ha pagato anche la gente di Timor. Dopo 460 anni di presenza portoghese, e 24 di occupazione indonesiana che ha portato allo sterminio di quasi un quarto della popolazione, il paese ha ottenuto l’indipendenza nel 1999. Il film si svolge su due piani, quello storico sociale a partire dal 1975, e quello sentimentale attraverso la vicenda di due adolescenti, Tomas e Beatriz, che in quell’anno sono fatti sposare. Passano pochi mesi. Timor Est è occupata dagli indonesiani. I due fuggono sulla montagna. I militari rastrellano e uccidono gli uomini. Di Tomas si perdono le tracce: Beatriz e Teresa, sua cognata, vengono catturate. Prede dei militari fino al giorno dell’indipendenza, le due donne tentano allora di rifarsi una vita. E qui ricompare Tomas, o uno che gli assomiglia. Sostiene di aver preso parte alla resistenza e si dice lieto di essere a casa. Teresa gli crede, Beatriz ha molti dubbi. Alla fine il problema dell’identità viene chiarito. Bety Reis nei quindici anni d’indipendenza del paese ha scritto e diretto molti lavori teatrali e alcuni cortometraggi. Luigi Acquisto risiede a Timor dal 2007, e ha al suo attivo produzioni e regie televisive. Prodotto da Timor Est e dall’Australia, presentato e premiato ai Festival di Adelaide e Goa, qui in anteprima europea, permette ai due autori di aprire una finestra sul mondo a un paese quasi dimenticato dall’informazione ufficiale. Per gli attori è una grande occasione, dalla sperimentata Irim Tolentino all’esordiente Augusta Soares, da José Da Costa a Osme Goncalves.
R.F.  


cupcakesCupcakes (Dolcetti) dell’israeliano Eytan Fox è un film di difficile valutazione e ancor più ardua sopportazione. In poche parole segue le fatiche di un gruppo – in verità piuttosto mal assortito – di cantanti dilettanti che partecipano, classificandosi al secondo porto, ad un concorso internazionale televisivo per la migliore nuova canzone dell’anno. Forse l’intento era quello di mettere alla berlina le molte competizioni canore che riempiono i palinsesti televisivi, ma il risultato finale è un film slabbrato, presuntuoso, privo di un qualsiasi interesse. Le perorazioni in favore dell'omosessualità, maschile e femminile, così come la presa in giro dell’ufficialità governativa naufragano in sequenze che non raggiungono la consistenza di una barzelletta scema. Davvero tempo e fatica perduti.
heart-of-a-lion-Molto meglio, anche se non vi mancano ambiguità, Leijonasydän (Cuor di leone) del finlandese, nato a Cipro, Dome Karukoski, un invitato abituale di questa manifestazione. La storia che racconta è quella di Teppo, un fascista e razzista membro di una banda (Finlandia Bianca) dedita al pestaggio degli immigrati, che s’innamora di Sari, una bionda con un figlio marocchino nato da un precedente matrimonio. Non appena la donna scopre dai numerosi tatuaggi che l’uomo ha sul corpo chi è il suo compagno lo mette alla porta, ma la scintilla dell’amore è scoccata da entrambe le parti e la storia sentimentale si sviluppa con inciampi e ostacoli facilmente prevedibili. Il finale assume toni decisamente accomodanti con il picchiatore fascista che si converte alla tolleranza e, pagando il doloroso prezzo della cancellazione mediante levigatrice, del tatuaggio che lo identificava come membro della banda, scopre il valore della tolleranza e del rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani. Una chiusura ottimista e buonista che sorvola sui numerosi crimini commessi dalla gang (distruzione di chioschi gestiti da neri, aggressione a gente di colore, incendio di campi nomadi) e aggiusta ogni cosa per il futuro cancellando il passato. Allo stesso modo la regia presta ben poca attenzione alle lacerazioni sociali che stanno alla base del successo di questi, purtroppo, numerosi movimenti xenofobi che pullulano nei paesi del nord e centro Europa. Sono difetti che non compromettono in modo definitivo il bilancio di un'opera be’ costruita e consistente nella costruzione narrativa. Un riconoscimento particolare va a Peter Franzén che riesce a dare credibilità ai triboli di questo fascista messo in crisi dagli occhioni del figlio della sua compagna.
the priest s children-Il regista croato Vinko Brešan ha tratto Svećenikova djeca (I figli del prete) da una commedia di successo di Mate Matišić (1965), messa in scena nel 1999. Lo scenario è quello di un’isola damata. Qui esercita un maturo parroco, molto amato dalla gente, a lui è affiancato un giovane prete che non riesce a trovare fedeli che si fidino di lui ed è ossessionato dal continuo calo nel numero dei parrocchiani. Da tempo, infatti, il bilancio demografico dell’isoletta registra più decessi che nascite. Quasi casualmente viene a sapere che una delle ragioni di questo andamento è il numero straordinario di preservativi venduti in un chioschetto che si affaccia sul molo principale del paese. Lì si servono abbondantemente non solo i turisti, ma anche quasi tutti gli abitanti maschi del borgo. Ecco allora l’idea, d’accordo con il titolare della rivendita, di fornire ai compratori profilattici forati in modo da renderne ancor più incerta l’efficacia anticoncezionale. Tuttavia, neanche questo basta e allora nasce un’insolita alleanza con il farmacista del paese, un tipo dalle simpatia decisamente militariste, per vendere come pillole anti-procreative innocue vitamine. La cosa finalmente funziona e le gravidanze subiscono un rapido incremento, solo che con esse arrivano anche non pochi problemi legati a disconoscimenti di paternità, nascite indesiderate, rapporti irregolari. Fra questi anche la relazione fra il vecchio curato e una giovane parrocchiana. Tutto è raccontato in flash back attraverso la confessione che il prete, ricoverato in un centro per malattie mentali, fa ad un altro religioso che, subito dopo, corre a confessare i suoi peccati sessuali che si suppongono piuttosto numerosi. Il film nasce come una commedia basata su un’idea felice – le sequenze delle forature, sempre tecnicamente più aggiornate, dei profilattici sono piuttosto divertenti – ma perde la strada quasi subito, oscillando fra la farsa, la riflessione morale e il dramma. Ne nasce un prodotto ibrido che non soddisfa né lo spettatore che ama le produzioni ridanciane, né quello che cerca riflessioni più approfondite. Certo, il modello è quello del cinema iugoslavo dei tempi d’oro, quando si mettevano assieme in modo omogeneo risate e lacrime, preoccupazioni e sguardi disincantati. In questo caso è proprio l’equilibrio a mancare, facendo deragliare il film ora verso il riso, senza eccedere nei risultati, ora verso la meditazione, senza approfondimenti del discorso .

U.R.


someone you loveE’ stata la giornata dei rapporti fra figli e padri. Ha dato il via En du elsker (Qualcuno che ami) della regista danese Pernille Fischer Christensen racconta una storia strappalacrime che ha al centro un famoso cantante – impersonato dall’attore svedese Mikael Persbrand che dà voce anche alle canzoni di cui il film è infarcito – che ritorna in Danimarca dagli Stati Uniti per incidere un CD. Nel pese nordico incontra la figlia e il nipote che non vedeva da anni. La donna ha problemi di droga e deve passare un periodo in un centro di disintossicazione per non perdere il lavoro, il ragazzo undicenne appare quanto mai sballottato fra una madre tossicodipendente e un nonno che quasi non conosce (la nonna è morta da anni). Quando la donna muore per overdose, il musicista è costretto a farsi carico del nipote, quantomeno sino al momento in cui otterrà da tribunale l’affidamento e l’autorizzazione a farlo entrare in collegio. Sono poche settimane d’attesa, ma sono sufficienti perché l’artista scopra il forte affetto che lo lega al ragazzino e decida di prenderlo definitivamente con se. Inutile dire che la canzone che nascerà da questo travaglio otterrà un grande successo. E’ un film buonista nel senso migliore del termine che si sviluppa su un tracciato prevedibile sin dalla prima sequenza, ma che riesce a commuovere e mette in campo qualità non banali sul versante della messa in scena, soprattutto per la bravura, anche come cantante, dell’interprete principale. Un buon esempio di cinema d’alta professionalità e di scarsa originalità.

finnPoi è earrivato Finn dell’olandese Frans Weisz in cui seguiamo i triboli di un ragazzino di nove anni che vuole imparare a suonare il violino contro i desideri del padre. Ci riuscirà aiutato dal nonno (verso la fine del film scopriremo che si tratta di un fantasma angelicato, anche se la cosa è intuibile da ben prima). I suoi sforzi commuoveranno il padre, un ex musicista, sino a indurlo a formare, alla festa scolastica di Natale, una sorta di due con il figlio. E’ un film buonista e strappalacrime che in sala ha innescato non pochi singhiozzi trattenuti rinforzati anche dal fatto che la madre è morta dando alla luce il ragazzino e il padre non si perdona di essere stato assente durante il parto per un impegno di lavoro. E’ un’opera girata in modo molto professionale, sorretta da attori di buono livello, ma anche tesa a percorrere strade non troppo difficili. In conclusione un buon testo accompagnato da immagini molto belle che sfruttano a fondo i paesaggi olandesi, ma anche un film destinato ad essere dimenticato poche ore dopo averlo visto.
sanctuary-Ha chiuso il programma Faro dello svedese Fredrik Edfeldt ruota attorno ai rapporti fra un padre e una figlia, ma questa volta il lieto fine è ben lontano dall’arrivare. Hella ha un rapporto quasi incestuoso con il padre, c’è una citazione diretta di una scena dell’Edipo Re di Sofocle (496 a.C. – 406 a.C.), una relazione che diventa quasi paranoica quando il genitore sta per essere arrestato avendo ucciso un uomo sparandogli alle spalle mentre fuggiva. A questo punto per la ragazza si aprirebbero le porte di un’istituzione pubblica senonché lei e il genitore prendono la via dei monti andando a vivere in un bosco e sopravvivendo – è la parte meno convincente del film – sia alle avversità naturali, sia alla ricerca della polizia. Quest’ultima riesce, alla fine, a scovare i fuggitivi e a uccidere il ricercato. A questo punto la ragazza si mette in viaggio verso la cittadina portoghese di Faro, seguendo le tracce di un sogno paterno. Il film naviga a mezza strada fra l’action movie a bassa tensione e il dramma psicologico, senza avere il coraggio di imboccare in maniera decisa una delle due strade. Ne nasce un prodotto piuttosto pasticciato, incredibile dal punto di vista della verosimiglianze e del tutto grossolano sul versante dell’analisi psicologica. Non aiutano la regia le prestazioni decisamente modeste dei due protagonisti con Clara Chrisiansson che sembra appena uscita da un telefilm per giovani e Jakob Cedergren che non riesce a dare un solo momento di verità, per non dire di credibilità, al suo personaggio.

U.R.


Hitac plakatSono del 1975, il croato Robert Orhel e il finlandese Jan Forsstrom, ambedue sono in concorso per la migliore opera prima del festival. Il primo firma Hitac (Lo sparo), la cronaca di un incontro tra due destini paralleli. Petra, studentessa con una vita complicata dalla madre separata e alcolista, sta studiando da un’amica quando andando sul balcone con una pistola trovata in casa le parte un colpo. Purtroppo colpisce qualcuno. Convocata dalla polizia è interrogata da Anita, una giovane ispettrice, ma lei nega persino di essere andata sul balcone. Petra è incinta. Nel bagno del commissariato incontra Anita che accusa gli stessi sintomi. L’ispettrice ha una relazione con un collega sposato che però non vuole lasciare la moglie. Del compagno di Petra non si sa niente. Le due donne sono sole, e malgrado la diffidenza della studentessa sta per nascere un sodalizio. Quando la madre di Petra viene ricoverata d’urgenza, la ragazza decide di rivolgersi ad Anita. E decide di confessarle di essere stata in terrazza e che il colpo le è partito incidentalmente. Storia concisa e breve, 76 minuti, che illustra l’approccio tra due differenti caratteri: quello duro e diffidente di Petra, e quello cordiale e comprensivo di Anita. Brave le attrici: Ecija Ojdanic (Anita) e Iva Babic (Petra).
Silmatera 2Una madre in affanno anche nel film finlandese Silmatera, il cui titolo internazionale suona La principessa d’Egitto. In questo modo Marja, 27 anni, chiama la figlia Julia di sette. Madre single, Marja è tanto attaccata alla figlia da farle tardare l’inizio della scuola per tenerla con sé. Quando poi incontra per strada il curdo Kamaran col quale aveva avuto una breve relazione tende ancora di più a tenere in casa la bambina. Lui ha saputo soltanto ora della bambina, e pur essendosi sposato e avendo due figli vuole sapere se anche Julia è sua figlia. E’ la cronaca di una lunga follia, il film mostra le preoccupazioni crescenti di Marja, che lavora di notte e che al mattino consegna quotidiani a domicilio. Ha tanta paura di essere separata dalla figlia, da procurarsi illegalmente una pistola. E compra anche una tanica di benzina che sparge sull’uscio con l’intenzione di appiccare il fuoco nel caso Kamaran tentasse di entrare. La follia rischia anche di farle perdere l’affetto della bambina che comincia a sentirsi reclusa. Tra suspense e follia, circa novanta minuti in apprensione per la sorte di madre e figlia.
Un accenno merita anche l’unico film italiano in concorso tra le opere prime, Il mondo fino in fondo di Alessandro Lunardelli, già presentato al Festival del Cinema di Roma nella sezione Alice nelle città.

R.F.


cracks-in-concrete-Risse im beton (Fenditure nel cemento) dell’austriaco Umut Dag è ambientato all’interno delle comunità d’immigrati della seconda e terza generazione che abilitano in una delle zone a più alta intensità criminale di Vienna. Qui ritorna Etan dopo dieci anni passati in carcere, vorrebbe riprendere una vita normale, ma scopre che suo figlio è implicato nel commercio della droga e ha contratto pesanti debiti con personaggi poco raccomandabili. Inoltre il ragazzo non vuole aver nulla a che fare con il padre, che considera un fallito. Dopo varie vicende e non poche scazzottature i due riusciranno a riconciliarsi grazie alla generosità del genitore, che si accolla un assassinio commesso accidentalmente dal figlio, e alla presa di coscienza di quest’ultimo che confessa il delitto per evitare al padre il ritorno in galera. Sembra che nei paesi di lingua germanica e in quelli dell’Europa centrale e settentrionale i rapporti genitori – figli rappresentino un problema grave e di grande attualità. Se questo è vero il film sbaglia clamorosamente bersaglio inserendolo in una storia che ha più i toni del noir che non quelli della riflessione sulle differenze e i conflitti generazionali. Qui ad emergere non sono tanto le barriere che dividono un genitore da suo figlio, quanto l’ambientazione criminale, i traffici loschi, la violenza fra le bande e l’ammorbante atmosfera di discoteche e night club. In questo modo l’asse del discordo devia dalla direttrice padre - figlio verso quella che mette al centro del discorso un ambiente criminale intessuto di violenza. In questo modo il film devia dal discorso che si era prefisso per approdare ad una qualsiasi storia di droga e bande contrapposte.

the-dark-valley Das finstere tal (La valle buia) dell’austriaco Andreas Prokasha è un western ambientato a fine ottocento in un villaggio d’alta montagna. Qui arriva un cavaliere misterioso armato, apparentemente, solo di una macchina fotografica. Dovrebbe passare l’inverno in quei luoghi e trarne immagini suggestive della natura, in realtà è giunto sin lì per compiere una vendetta ai danni del patriarca che domina il borgo imponendo alle giovani una sorta di jus primae noctis in passato per se, ora per i suoi figli. Il misterioso cavaliere è, in realtà, figlio suo, nato dalla violenza su una giovane sposa e sul marito. Il nuovo arrivato, che proviene dall’America e cela tra i bagagli anche un temibile fucile a ripetizione, porterà a compimento i suoi propositi sterminando padre e fratelli, liberando anche una graziosa valligiana dall’obbligo di consegnare la sua verginità ai bruti masnadieri. Non c’è molto di nuovo in questa vicenda ricalcata sulle tracce di decine di altri film e centinaia di romanzi – il film prende le mosse da un racconto di Thomas Willmann pubblicato nel 2010 – ma ha all’attivo un’ottima confezione, una fotografia molto curata e interpreti funzionali. In altre parole un film di buona qualità anche se tutt’altro che originale.
in-order-of-disappearanceIl cartellone del festival ha toccato il punto più alto con la proiezione di Kraftidioten del norvegese Hans Petter Moland. Il film è uscito in Italia con il titolo In ordine di sparizione e ne ha riferito sul nostro sito Furio Fossati. È un noir estremamente ben congeniato che racconta la vedetta di un padre, cittadino modello della sua comunità, che stermina due bande di trafficanti di droga, una delle quali gli ha ucciso il figlio mascherando l’omicidio da overdose. Sistematicamente e cocciutamente questo borghese impeccabile ammazza i cattivi riuscendo anche a mettere l’una contro l’altra, con strage finale, due organizzazioni criminali: una norvegese e una serba. Il film gode di un intreccio narrativo e di un ritmo davvero encomiabili e coniuga con gusto e intelligenza ironia e violenza. Molti hanno parlato di un Quentin Tarantino nordico, ma la definizione va stretta a questo regista che mette in campo un’inventiva e una misura narrativa degne del massimo rispetto.  

U.R.


 
Premi del 30° FESTROIA di SETUBAL


the priest s children-Miglior film – Delfino d’oro: Svećenikova djeca (I figli del prete), di Vinko Bresan, Croazia/Serbia.

Premio speciale della giuria – Delfino d’argento: Faro, di Fredrik Edfeldt, Svezia/Finlandia.

Miglior regista: Delfino d’argento: HANS PETTER MOLAND, per Kraftidioten (In ordine di sparizione), Norvegia.

Miglior attore – Delfino d’argento: VYTAUTAS KANIUSONIS, per Lošejas (Il giocatore), di Ignas Jonynas, Lituania/Lettonia.

Miglior attrice – Delfino d’argento: BIRGITTE HJORT SORENSEN, per En du elsker (Qualcuno che ami), di Pernille Fischer Christensen, Danimarca.

Miglior sceneggiatura – Delfino d’argento: IGNAS JONYNAS e KRISTUPAS SABOLIUS, per Lošejas (Il giocatore), Lituania/Lettonia. 

Miglior fotografia – Delfino d’argento: THOMAS W. KIENNAST, per Das finstere tal (La valle buia), di Andreas Prochaska, Austria/Germania.

 Altri premi

Premio del pubblico: Leijonasydän (Cuor di leone), di Dome Karukoski, Finlandia.

Premio l’uomo e l’ambiente: Der Kreis (Il circolo), di Stephan Haupt, Svizzera.
menzione speciale: Asier Eta biok (Asier ed io), di Amaia Merino e Aitor Merino, Spagna.

Premio opera prima: Før snøen faller (Prima che cada la neve), di Hisham Zaman, Norvegia.
menzione speciale: Post Partum, di Delphine Noels, Belgio.

Premio FIPRESCI: Leijonasydän (Cuor di leone), by Dome Karukoski, Finlandia.

Premio SIGNIS: Leijonasydän (Cuor di leone), by Dome Karukoski, Finlandia.

Premio CICAE: En du elsker (Qualcuno che ami), by Pernille Fischer Christensen, Danimarca.

Premio MÁRIO VENTURA: O meu avô (Mio nonno),di Tony Costa, Portogallo.