68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011 - Pagina 9

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68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011
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altDiciamolo subito: il secondo film italiano in concorso, Quando la notte che Cristina Comencini ha tratto dal suo libro omonimo, è stato una delusione. E’ un’opera che fallisce sia sul piano dei dialoghi, popolati di battute involontariamente esilaranti, sia su quello del racconto, scarsamente approfondito, sia, infine, su quello degli attori con Filippo Timi del tutto inguardabile. La storia, che avrebbe anche potuto contenere qualche elemento d’interesse, racconta di una giovane madre che attraversa quella tipica fase, attorno ai due anni del figlio, che alimenta sentimenti contrastanti verso il piccolo, sentire che, in qualche caso, sfiora l’odio. E’ un momento particolare per una donna, una fase in cui lei si sente inadeguata ai compiti, sempre più gravosi, che lo attendono e che, nello stesso tempo, subisce il conflitto fra il suo destino di madre e casalinga e il volersi realizzare appieno sul piano umano e, in non pochi casi, professionale. Tale è la condizione di Marina che il marito spedisce in una sperduta casa di montagna, di proprietà di un uomo burbero e non meno complessato, la moglie l’ha lasciato e lui non riesce a darsi pace, che di professione fa la guida alpina. Grandi panorami, molte scene madri – il piccolo piange in continuazione – bronci che sfociano in una storia sentimentale che avrà sbocco pratico solo alcuni anni dopo. Il film non funziona sul piano della costruzione e dell’indagine psicologica e neppure su quello, appena velatamente accennato, della condizione della donna moderna stretta fra ruolo materno e lavoro. In poche parole, è un film brutto e, a tratti, imbarazzante.
altE’ andata appena meglio con Hahithafut (Lo scambio) dell’israeliano Eran Kolirin. E’ un’altra storia di disadattamento, questa volta di un professore di fisica dell’università di Tel Aviv che, improvvisamente, scopre l’esistenza di altri mondi oltre a quello accademico. La cosa lo travolge al punto di indurlo a non andare al lavoro, passeggiare senza meta, mettersi a spiare le vite degli altri. L’idea che, a un certo momento della vita, si possa capire quanto limitata e unilaterale è la nostra esistenza è abbastanza interessante, ma per portarla a termine ci sarebbe voluto, oltre a un regista più esperto, anche un autore ben più raffinato e attento alle sfumature psicologiche.
altVelleitario e poco sopportabile è anche 4:44 Last Day on Earth (4 e 44 ultimo giorno sulla terra) dell’americano Abel Ferrara. Gli studiosi scoprono che la vita sul pianeta finirà alle quattro e quarantaquattro di un certo giorno: troppe sono state le offese fatte alla terra in termini d’inquinamento, spreco delle risorse, dilapidazione delle forme di vita. Ora il vaso è colpo e non c’è più nulla da fare se non attendere la fine. E’ quanto fa una copia newyorkese – lui (Willem Dafoe) è uno scrittore e regista lei (Shanyn Leight) una pittrice – che passano le ore che li separano dalla fine facendo più volte l’amore, parlando su skype con amici e parenti oppure guardando semplicemente il cielo. L’idea potrebbe anche essere buona se la regia la sviluppasse minimamente senza rimanere al palo dalla prima all’ultima sequenza. E’ un film velleitario, fragile, prevedibile e, anche in questo caso, compromesso da una recitazione gigionescamente pietosa.
altPer fortuna è arrivato il film sorpresa a riequilibrare il bilancio della giornata. Ancora una volta la Mostra ha dato il meglio guardando a oriente. Ren Shan Ren Hai (Gente di montagna, gente di mare) è l’opera seconda di Cai Shangjun e si riallaccia al filone che ruota attorno ai prezzi, umani e sociali, che la Cina paga per il suo straordinario progresso economico. E' la storia di un cavapietre che vuole vendicare il fratello che un avanzo di galera ha assassinato per rubargli la motocicletta. La sua ricerca diventa una sorta di percorso negli inferi della Cina di provincia, fra poliziotti corrotti, trafficanti di droga, piccoli spacciatori, miniere clandestine in cui i lavoratori sono trattati come bestie e uccisi brutalmente non appena trasgrediscono a qualche ordine. Sia detto per inciso, il problema delle miniere di carbone prive di autorizzazione e rese profittevoli dall’inesausta fame di energia del paese, è stato oggetto di vari articoli anche da parte della stampa italiana. Qui quel doloroso inferno lo vediamo con i nostri occhi e ne misuriamo per intero la tragicità. Una bolgia di disperati tanto crudele che il protagonista, quando scopre l’uccisore del fratello, preferisce salvargli la vita rompendogli un braccio e impedendogli di andare a lavorare proprio nelle ore in cui lui, esasperato e disgustato, fa saltare in aria il pozzo d’estrazione. E’ un film di grandissima forza, importante per la denuncia politica che lo attraversa, ma anche per il rigore stilistico della regia e, finalmente, per la bravura degli attori.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha proposto El Languaje de los Machetes (Il linguaggio dei machete) dell’esordiente messicano Kyzza Terrazas. E’ il ritratto della disperazione e dell’impotenza di una coppia di giovani di Città del Messico – lei fa la cantautrice rivoluzionaria, lui si atteggia poeta e scrittore – che aborriscono la società in cui vivono. Sono disgustati sino al punto di progettare un attentato suicida che fallirà perché la bomba che la donna porta addosso non esplode, mentre l’uomo si defila, ancora una volta, pochi minuti prima dell’azione. Il film utilizza tutti gli elementi classici di questo cinema, immagini sgranate, cinepresa costantemente sui personaggi, droga, alcol e grandi discorsi. Nulla di nuovo e un sovraccarico di passione che non solleva il film oltre la soglia del già visto