68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011 - Pagina 4

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68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011
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altCon Un été brûlant (Un’estate ardente) del francese Philippe Garrel la Mostra ha preso il primo inciampo. E’ la storia di sue coppie, una formata da giovani artisti – lei è una diva stimata in Italia e Francia, lui un promettente pittore - l’altra è composta di un ragazzo e una giovane, entrambi squattrinati e senza un lavoro sicuro, che si rompono, nel primo caso, o marciano verso la stabilità, nel secondo. Appoggiato su una sceneggiatura pasticciata e piana di buchi - testimoniati dai frequenti ricorsi alla voce fuori campo: vecchio, classico espediente per far quadrare le storie sconclusionate – il film crolla sotto il peso d’interpretazioni penose. Se Monica Bellucci conferma scarsissime doti recitative, aggravate da un degrado fisico che rende imbarazzante il suo nudo integrale in apertura del racconto, Louis Garrel, figlio del regista, mostra ancora una volta di non saper andare oltre poche mossettine e qualche sguardo che si vorrebbe tenebroso e che, invece, è solo ridicolo. Come dire un brutto, bruttissimo pasticcio.
altA Dangerous Method (Un metodo pericoloso) diretto dal canadese David Cronenberg nasce da una sceneggiatura che Christopher Hampton (1946) ha tratto dal suo testo teatrale The Talking Cure (La cura della conversazione, 2002). Un copione che, a sua volta, si è ispirato al libro A Most Dangerous Method (Un metodo molto pericoloso, 1994) di John Kerr (1943). Al cento della storia ci sono i complessi rapporti fra l’ebreo austriaco Sigmund Freud (1856 – 1939), lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875 – 1961) e la russa Sabina Spielrein (1885 – 1942). Quest’ultima, figlia di un ricco commerciante ebreo, era stata curata da Jung che l’aveva guarita da una grave forma di disturbo mentale, ne era diventata l’amante per poi affermarsi come psichiatra e schierarsi dalla parte di Freud nella disputa che lo contrappose al suo ex allievo elvetico. Lo scenario è quello dei primi anni del ‘900, passando per le avvisaglie della grande carneficina legata alla Prima Guerra Mondiale e arrivando al pieno della Seconda guerra Mondiale che travolse sia il fondatore della moderna psicoanalisi, costretto a rifugiarsi a Londra per sfuggire alle persecuzioni antisemite, sia la donna fucilata dai nazisti, assieme alle due figlie, nei giorni dell’occupazione dell’Unione Sovietica da parte della Wermacht. Il conflitto fra i due grandi studiosi della mente umana fu alimentato da molte discordanze che il film riassume nella certezza dell’austriaco sulla riconducibilità alla sfera sessuale di ogni comportamento umano e la disponibilità dello svizzero a guardare oltre il personale per coinvolgere anche altri fattori, prima di tutto quelli legati all’ambiente sociale. E’ una riduzione sicuramente eccessiva, ma che la regia riesce a tradurre in conflitto avvincente e in immagini precise e laccate quanto basta. Anche in questo caso, costatiamo il forte contributo che viene alla riuscita dell’opera dalla preesistente base teatrale e la capacità del regista di realizzare il film senza troppo immergerlo in un clima da palcoscenico. Certo, anche qui i dialoghi sono importanti e, in qualche caso, sovrabbondanti, ma – come nel caso di The Ides o March di George Clooney e Carnage di Roman Polanski, anche questi derivati da copioni destinati al palcoscenico – ciò che conta è che il passaggio dalla scena al grande schermo avviene preservando le esigenze cinematografiche. Nel caso in questione il cineasta imbocca la via del film classico e lo fa licenziando un prodotto non eccezionale, ma di grande interesse.
Fuori concorso è stato presentato Baishe chuanshuo (Lo stregone e il serpente bianco) dell’hongkonghese Tony Ching-Tung, un classico prodotto cinese ricco di scenografie sontuose figure magiche, animali parlanti, streghe, demoni e umani coraggiosi. Il tutto inserito in una confezione lussuosa, ma non molto appetitosa per lo spettatore occidentale che di quella cultura ha poche e vaghe nozioni.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha presentato Marécages (Acquitrini), opera d’esordio del trentenne canadese Guy Édoin (1981). Marie e Simon sono due allevatori che vivono una vita grama in un periodo di siccità. La loro condizione è aggravata dal ricordo della perdita di un figlio decenne, annegato due anni prima in un acquitrino poco distante da casa senza che l’altro figlio, Jean, riuscisse a salvarlo. Nonostante queste difficoltà continuano ad amarsi appassionatamente, la moglie è nuovamente incinta, mentre il rampollo maggiore sta scoprendo il sesso. Un incidente causa la morte dell’allevatore e lascia sola la donna a fronteggiare una montagna di problemi economici ed esistenziali. Fra questi il conflitto che si apre nella sua sessualità con l’arrivo sulla scena, poche settimane dopo la scomparsa del marito, di un uomo aitante che la corteggia. La cosa innesca una serie di conflitti con il figlio, le vicine (lesbiche?) e, più in generale, con l’ambiente in cui vive. Sino alla chiusura, in realtà la prima sequenza del film, con la protagonista che cammina nuda nella boscaglia, quasi una riconciliazione con l’elementarità del mondo rurale. E’ un film che oscilla fra il quadro, quasi documentario, della vita degli allevatori – il regista viene da una famiglia contadina - e la tragedia psicologica segnata da forti venature sessuali. I suoi personaggi ruotano attorno al sesso – magnifica e importante la sequenza della nascita del vitello morto – inteso come ragione e pulsione basilare di vita in un mondo totalmente immerso e altrettanto dipendente dalla natura. Un’opera che, anche grazie a un paesaggio straordinariamente fotografato, convince per la forza dell’interpretazione e per la semplicità della narrazione.